Grace

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Dopo circa due ore di cammino senza sosta sono abbastanza certa di aver messo sufficiente distanza tra me e il resto del mondo da permettermi di riposare un po'.

Mi lascio così cadere su una roccia appiattita proprio sul greto del torrente e prendo la mappa per orientarmi, mentre riprendo fiato.

Non ho una meta in realtà, quindi va bene tutto, tranne che tornare a casa prima che Raquel si sia convinta a rinunciare a quello stupido party.

Per un attimo mi sento colpevole per la delusione che infliggerò alla mia migliore amica, ma so che è sufficientemente forte e reattiva da dirottare subito le sue energie in esubero altrove.

Del resto ero come lei una volta. Attiva, vulcanica, sempre di corsa.

Poi l'incidente ha cambiato tutto.

Vorrei poter dire che ha cambiato tutti allo stesso modo, ma mentirei a me stessa.

Nell'anno di terapia a Phoenix, in quella clinica orribile dove tutti sorridevano troppo e facevano continue domande, annuendo ancora prima di aver udito la risposta, mi hanno ripetuto fino allo sfinimento che non dovevo colpevolizzarmi per qualcosa che non era dipeso in alcun modo da me.

Come se fossi una paranoica, una schizzata, o una tossica in preda a deliri di onnipotenza. Ma io non ero nessuna di queste cose.

Mi sono sottoposta diligentemente a terapie individuali, di gruppo, sedute di ipnosi, ho tenuto un diario, ho fatto teatro. Nel tempo libero ho persino letto manuali infiniti sui disturbi da stress post traumatico, ma niente di tutto questo è riuscito a spiegare quello che avevo visto.

Così ho smesso di fare domande, di cercare risposte, di prendere quelle stupide medicine che mi avevano convinto essere l'unica soluzione per riprendere in mano la mia vita, e ho cominciato a comportarmi come pensavano avrei dovuto.

Qualunque cosa pur di uscire da lì.

Sono diventata così brava a fingere che alla fine ci ho creduto anch'io.

Ma ogni notte lo vedevo.

Ogni notte rivivevo quel giorno. Ancora e ancora.

Mi sale un brivido lungo la schiena mentre cerco di scacciare dalla mente l'espressione inorridita di quel ragazzo, Jasper, mentre l'intero lato nord della palestra collassa su di noi, durante il peggiore terremoto che la nostra regione abbia mai conosciuto. Lunghi minuti di inferno, urla dappertutto, pianti, ragazzi che scappavano ovunque senza alcuna logica.

Poi una specie di boato crescente, come il ringhio di un animale ferito e terrificante, e quel buio improvviso che si irradiava da ogni cosa intorno a me.

Come un'eclissi il cui freddo ti entra nelle ossa.

Bevo l'ultimo sorso d'acqua e guardo la luce che filtra sempre più debolmente tra le fronde nodose degli abeti rossi. Non ho molto tempo prima che il sole tramonti, e non voglio trovarmi a passare la notte nella foresta, quindi è ora di ritornare a casa.

Immergo le mani nell'acqua del torrente per riempire la borraccia, mentre lui continua a parlare con la sua voce, noncurante. Schiocca, scroscia, romba, per niente silenzioso o discreto, ma in fondo è piacevole quando il rumore di ciò che è intorno a noi sovrasta quello dei pensieri, perché costringe la mente a svuotarsi, ed è la sensazione più vicina alla pace che conosca da molti mesi a questa parte.

Respiro a pieni polmoni quest'aria pulita che sa di normalità, di innocenza.

Di mamma.

E' lei che mi ha insegnato a muovermi, a orientarmi, a distinguere alberi e piante, a godere del semplice contatto con la natura. Mi portava in questi boschi almeno una volta al mese. Ci preparavamo qualche panino e una torta salata e apparecchiavamo direttamente per terra, in qualche radura. Solo io e lei.

Lo ha fatto anche prima di andarsene per sempre. Cinque anni esatti prima del terremoto.

Senza un biglietto, una spiegazione, un perché.

Portando via solo il suo zaino da montagna, mentre io e papà abbiamo dovuto imparare da capo come si fa a respirare.

Di fronte a una torta con le candeline che da allora non ho più acceso.

Mentre imbocco di nuovo il sentiero principale si alza una folata di vento gelido che mi scompiglia i capelli ribelli che ho lasciato crescere fino alla vita, precursore di un inverno che dalle nostre parti sembra arrivare sempre in anticipo rispetto al resto del mondo.

Tra poche settimane le montagne saranno rivestite di una coltre bianca impenetrabile, e l'unica alternativa ai party alcolici e ai balli scolastici sarà il club del libro, o le lezioni di ricamo della signora Mills.

Accenno a un passo di danza, mentre i capelli svolazzano ricoprendomi la fronte e intrecciandosi come rampicanti intorno alle mie braccia che disegnano un arco perfetto a mezz'aria.

Mi manca ballare. Non so neppure perché abbia smesso, è successo e basta, come tante altre cose nella mia vita.

Eppure adesso, in mezzo alle foglie ingiallite che cadono e su un letto di aghi di abete, mentre il ruscello continua a chiamarmi con la sua voce arrochita dalle rocce, mi sento leggera come non capitava da tempo. Ed è liberatorio.

Così continuo a ballare, ad occhi chiusi, finché il mio nome non risuona talmente vicino al mio orecchio da farmi irrigidire di colpo.

Grace

Davanti a me un giovane uomo, immobile come un albero, con le braccia aperte come se volesse dirigere il vento, e gli occhi fissi su di me.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Aug 30, 2018 ⏰

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