"Qui è tutto giallo e azzurro. I campi d'erba sono di un giallo pallido e aspro e il cielo di un blu chiaro rovinato dalle nuvole basse. Vorrei vedere altri colori, ma quasi mi si blocca il polso quando dipingo provo a stenderli sulla tela. Ogni tanto unisco i miei due colori per dipingere di verde, sperando che corrisponda a ciò che percepisco allo stesso modo o addirittura meglio del giallo e dell'azzurro: non succede mai, eppure io ci riprovo altre mille volte.
Fin da quando mi trasferii in Provenza, non ho più visto altro che quei due colori. Del resto, definiscono tutti i tratti della mia vita qui: dalla noia alla voglia di lavorare, dalla stanchezza agli ultimi sgoccioli di speranza, dal sonno insoddisfabile al senso del lavoro. E quelle cose, inchiodate nella mia testa, rimangono zelanti al loro ruolo di ridurmi in frammenti. Ancora mi interrogo sulle cause di tutto e su una possibile soluzione, ma ogni domanda ne partorisce un'altra. E io ho da anni cerco La Risposta valida per ogni domanda, La Soluzione miracolosa per ogni problema; fu sempre quello a dannarmi. Una volta ho tentato con la religione, una volta l'arte, una volta le donne; ma non sono ancora riuscito a salvarmi.Penso che sia tutto scattato quando per la prima volta capii le linee di carboncino che tracciavo su un foglio, come si muovevano fra loro per ritrarre me e ciò che mi circondava. E subito l'arte diventò un'espansione del fascino, delle paure e dei desideri che imparai a segregare fin dai primi anni d'infanzia. Mio padre non tollerava di vedermi distratto dalla carriera che lui stesso aveva fallito a intraprendere; quindi io disegnavo nel tempo libero, chiuso in camera o nei dintorni verdi della casa, nella speranza di non vederlo con i suoi rimproveri.
Allora mi limitavo a fare disegnini frettolosi che raffiguravano la bella regione in cui vivevo. Non ne ho tenuto uno; ma ricordo di essermi sentito libero, quando riportavo le curve dei rami frondosi e le forme dei fiori nei campi in cui correvo.Nonostante amassi appassionatamente l'Olanda, mi spostai a Londra per lavoro. Fu lì che iniziò la mia discesa in picchiata verso il mio stato attuale: incontrai Eugenie Loyer. Riconosco solo ora che non avrei mai dovuto. Me ne innamorai troppo velocemente e a lei non andò bene: pochi mesi dopo il nostro primo incontro lei mi rifiutò liquidandomi con un "sono fidanzata" secco e gelido. Mi fece notare che non mi ero ancora liberato della mia debolezza infantile, per quanto fossi diventato adulto. E non me ne sono ancora liberato nemmeno ora. Thèo da lì in poi diventò la base della mia salute: basti pensare al numero di lettere che gli inviai -e a gran parte delle quali non rispose.
Nella stessa città iniziai a dipingere. Utilizzai per le prime volte i colori e li guardai svilupparsi con un movimento del polso, iniziai a giocare con i tratti della matita, a creare personaggi di cui prendermi cura. Allora dipingevo campi, contadini, uomini e donne indaffarati, esclusi dalla ricchezza, dalla mobilità sociale e dalle comodità moderne: tentavo di far giustizia a coloro che sembravano non avere una dignità. Loro, come me, si lasciavano inondare dalle difficoltà perché non erano nelle condizioni di affrontarle. Senza che me lo aspettassi, però, le venature che tracciavo sulle loro mani e sui loro volti iniziarono a comparire anche sulla mia pelle. I macigni di lavoro che sopportavano iniziarono a spaccare anche la mia schiena e la malinconia sulle loro labbra iniziò a travolgere anche le mie giornate. Mi ero tuffato in un mare che non mi apparteneva e ora vi stavo affogando.
Le mie emozioni erano sempre state sgradevoli agli occhi di tutte le persone che incontravo -compreso me stesso-: la mia dolcezza diventò nauseante e la mia empatia diventò ossessiva, tanto che feci fuggire la prima e ultima donna che mi avesse degnato delle sue attenzioni. Me lo ricordo ancora din troppo bene. Quanto amai il viso sfigurato di Christine Hoornick! Non ebbi mai l'indiscrezione di chiederle a cosa fossero dovute le ferite sul suo volto, ma mi bastò uno sguardo su quelle venature profonde, per voler riportare quella strana grazia su una tela. Quanto amai quella sua voce disastrata dal fumo e quell'alito da sigari e alcool; e quanto amai quel corpo invecchiato presto e le mani paffute e secche, poco femminili; e quelle rughe sulle labbra e quei capelli scuri e crespi! Quanto amai la disperazione nel suo sguardo basso, il suo bisogno insaziato e insaziabile di denaro! Fu difficile separarmi dall'amore selvaggio, erotico e sporco in cui ci gettavamo, perché era così che ignoravamo le facce disgustate della gente che ci guardava andare via insieme. Funzionavamo insieme, l'uno complementare all'altra.
Tuttavia finii per volerla troppo di fretta e spaventare anche lei: spesso si lamentava di quanto fossi appiccicoso ed ossessivo, dei troppi complimenti che le ripetevo senza tregua, del tempo che occupavo a ritrarla nelle opere di cui ora vado più fiero. Io non la ascoltai finché la mia passione non arrivò al suo culmine e fu costretta a morire. Non tolleravo gli sguardi arrabbiati e confusi della gente che vedeva il suo viso; non tolleravo le parole dette sotto voce, le mani di fronte alla bocca e lei che ignorava tutto come se la cosa non la toccasse. Nessuno dei due poteva permettersi le cure che le servivano: alloradecisi di immergermi insieme a lei nel suo dolore. Non meritava di rimanere sola in quella bolla, convinta di essere l'unica matta ad aver paura di guardarsi allo specchio.
Ma il suo grido di terrore e la sua fuga da me mi colpirono nel petto e da lì strapparono via ogni mia intenzione di starle vicino. Ora la mia presenza le metteva un'ansia incontrollabile nel petto e io non potevo permettermi di starle vicino, solo per il mio piacere averla appresso. Quindi rimasi impalato e confuso, a guardarla chiedere aiuto mentre tenevo in mano il mio orecchio sinistro. L'avevo tagliato via per lei la sera prima. Proprio come avevano fatto Christine ed Eugenie, tutti -escluso Thèo- reagivano alle mie pazzie con una paura feroce: la loro unica soluzione era quella di fuggire o di rinchiudere Il Tizio Malato in qualche manicomio per poi lasciarlo lì sperando che la situazione non peggiorasse. E invece la situazione continua da sempre a piombare in basso senza mai arrestarsi, trascinandomi verso il vuoto. E io vivo con la convinzione che un giorno arriverò a quel vuoto e mi ci tufferò senza riemergere.
Sono rimasto nelle campagne francesi, dopo essere uscito dalla casa di cura, insieme all'odore di assenzio e tabacco. Quei sapori mi rimangono ancora in bocca riportandomi da Christine, Paul Gauguin, Eugenie, tutti i disegni, tutti i libri e le preghiere al Signore, le locande, i bicchieri e le puttane. Avevo tutte quelle gioie attorno, ma non sono mai riuscito nemmeno a distrarmi dai miei stessi fallimenti.
Questa stessa dannatissima tela, che cerco di terminare da tre settimane, ne è un esempio. Né le piante, né l'orizzonte, né il lago al centro sono proporzionati; le pennellate sono troppo veloci, cariche, arrabbiate; le montagne in lontananza non sono abbastanza realistiche; le nuvole in alto sono troppo scure. E nulla di tutto ciò va bene. Non è e non sarà mai bello, né perfetto; non mi soddisfa e non mi soddisferà mai. Non ha senso rimanere nel mio stato misero; alla fine, mancherò un po' solo a Thèo, al giallo e all'azzurro. Magari se avessi vissuto nel corpo di un altro sarei stato più sereno; ma io sono Vincent Van Gogh e sono arrivato al punto di dovermi liberare da me stesso. Oggi arriverò finalmente a quel vuoto e mi ci tufferò senza riemergere."
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ULTIME ORE DELLA VITA DI VAN GOGH
Short StoryUn monologo impersonato sull'artista ottocentesco poche ore prima del suicidio.