Verso la città dei segreti

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Bianca viaggiava veloce sul treno ad alta velocità che l'avrebbe portata a Milano.

Il finestrino che non riusciva a chiudere faceva entrare aria gelida che spettinava i capelli della ragazza, essi volteggiavano sopra di lei in una rapida danza contro il cielo.

Un uomo riuscì a chiudere il finestrino per lei, Bianca sorrise senza aprire bocca senza lasciare che le sue labbra emettessero alcun suono.

Si nascondeva sotto il berretto giallo, nel suo cappottino rosso, dietro la sua grande borsa verde.

Era solita farlo, Bianca non amava essere vista, alcune volte pensava di voler sparire, un po' come gli alberi aldilà di casa sua quando vi era la nebbia. Quel piccolo boschetto di pini sapeva come mimetizzarsi con il cielo quando il paesino si faceva cupo.

Bianca come il cielo di Gennaio era la sua pelle, viola come come le prugne secche erano le sue labbra. Le uniche parti che truccava del suo volto.

Indossava un rossetto violaceo che la zia le aveva regalato molti anni fa e che da allora ogni compleanno le faceva arrivare impacchettato con una sottile carta bianca nel suo piccolo paesino.

L'uomo che le aveva chiuso il finestrino la guardò, Bianca impaurita tirò fuori dalla borsa il suo libro e finse di cercare qualcosa. Girava le pagine interrottamente, faceva scorrere il dito fra le fitte righe del volume quando la voce meccanica e registrata annuciò l'arrivo a Milano.

La ragazza prese le sue cose e si diresse verso l'uscita.

Eccola ora era sola in una città che non aveva mai visto, lontana dal suo piccolo paese che per anni l'aveva protetta. Ora era sola di fronte alla giungla della città che sarebbe stata per lei casa per l'intero prossimo inverno.

I suoi genitori erano partiti per l'America due mesi prima e da allora lei era rimasta sola nella piccola villetta del suo paesino. Ora invece per l'inizio della scuola sarebbe dovuta andare a vivere con la zia in una delle più grandi città Italiane.

Della zia non aveva ricordi, di lei sapeva solo che abitava in una vecchia soffitta nel cuore della grande città, sapeva che ogni anno inviava per lei un rossetto violaceo e che quando era bambina le aveva fatto visita qualche volta ma da allora non l'aveva più vista.

Milano si apriva di fronte a lei, i palazzi sorgevano tutt'intorno a lei come altissimi alberi, e per un attimo Bianca si sentì a casa, come nel piccolo boschetto di pini.

Scese le scale camminò fra la folla e salì sulla metro. Stazione dopo stazione osservò le persone salire, scendere. Uomini, donne tutti di corsa, tutti verso qualcosa, qualcosa che Bianca abituata alla pace del suo paesino non riusciva a comprendere.

Si aggrappò alla sua borsa come se essa potesse riportarla a casa, si alzò di scatto e scese dalla metropolitana.

Risalì i gradini fra gli spintoni e il chiasso della città.

Era arrivata, arrivata in quella che sarebbe stata la sua casa per i prossimi nove mesi.

Il cielo era grigio, le mani di Bianca fredde, ottobre stava arrivando e trascinava con se i colori aranciati, i profumi di caldarroste nelle strade e le piogge fredde.

Bianca si fermò in un bar, si ricordò che non aveva ancora mangiato nulla per colazione, ordinò una Brioches e un cappuccino.

Il locale era caldo, finalmente si poteva riscaldare il corpicino infreddolito sotto il cappotto. Si sistemò vicino al calorifero ed estrasse il libro dalla borsa, in quell'istante la pioggia iniziò a scendere, battendo su vetri della pasticceria. Le goccioline disegnavano sulla vetrina sottili strisce d'acqua che si rincorrevano fino ad arrivare a terra.

Bianca si perdette, le capitava spesso quando leggeva.

Iniziava e non si rendeva conto del tempo che scorreva.

Rimase in quel bar per più di un ora senza staccare mai gli occhi dalle pagine dal libro quando improvvisamente un lampo interruppe la sua lettura.

La giovane si rese conto di dover raggiungere la casa della zia al più presto. Prese la tazza bianca e il piattino ornati da ghirigori color carta da zucchero e li riportò al bancone.

Estrasse dalla borsa l'ombrellino e rincominciò a camminare fra le vie di Milano, scivolando da una stradina all'altra come un razzo.

L'odore di pane appena sfornato, quello di pollo fritto, e quello di asfalto fresco si stiparono nelle sue narici l'uno dopo l'altro a ritmo dei suoi passi cadenzati e repentini. Le luci delle vetrine e delle insegne al neon la guidarono verso l'appartamento della zia.

Via dopo via, negozio dopo negozio, passo dopo passo arrivò a destinazione.

L'edificio era vecchio e mal ridotto, alcuni rosoni vetrati lasciano entrare luce violacea all'interno.

Trasudava storia, vita, magia.

Bianca controllò il nome sul campanello "Nervina Pozzi"

Non c'era dubbio, era quello.

Dopo aver esitato qualche istante Bianca suonò il campanello due volte, la porta si aprì e bianca si lasciò condurre fino all'ultimo piano dove la zia abitava.

Una scala a chiocciola e nessuna traccia di ascensore.

Bianca fu costretta a percorrere i settantacinque scalini a piedi.

Il regno delle storie perduteWhere stories live. Discover now