Il tatuaggio (Una storia vera)

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Mia moglie ed io eravamo già a letto, a dormire, da più di qualche ora quando, nel profondo silenzio della notte, squillò il telefono. Ci svegliammo, entrambi, di soprassalto. Era circa mezzanotte meno un quarto. I miei battiti car-diaci, aumentarono all'impazzata. Considerata l'ora tarda, pensammo subito che si trattasse di una brutta notizia, com'era già avvenuto qualche altra volta in passato. Es-sendo il telefono sul comodino dal lato dove dormiva mia moglie, fu lei a rispondere. Mi sedetti in mezzo al letto guardandola con apprensione.

"E' Karen, dall'America. Mi sembra di aver capito che sia successo qualcosa a Robert." Disse, mia moglie Manuela, con un tono di voce che non mi piaceva per nulla.

Con il cuore che sembrava scoppiarmi in petto, afferrai il telefono. "Pronto, Karen?..."

"John, è successo una cosa terribile... Robert è morto..."

Urlava, piangendo, la mia ex-moglie. "...si è buttato giù dal settimo piano di un palazzo..."

Nell'udire quelle parole, iniziai a sentirmi male. Mi affrettai a scendere giù dal letto ma dovetti subito appoggiarmi alla parete. Sentivo le mie forze venir meno, le gambe che mi tremavano. Cominciai a piangere. Anche mia moglie, che stava accanto a me, aveva capito che qualcosa di brutto era successo. Mi guardava ansiosa, aspettando che io le dicessi qualcosa. "Si tratta di Robert...è morto...si è buttato giù da un palazzo." Le dissi, mentre piangevo.

"Come è successo?... Perché lo ha fatto?..." Chiesi, alla mia ex.

"Era depresso da alcune settimane perché aveva litigato con Jennifer."

Rispose, singhiozzando. "Lei ha preso i bambini ed è an-data via di casa... Adesso non posso trattenermi più a lungo, John, ho un sacco di cose da fare..."

"Okay, Karen, domani mattina andrò da un'agenzia di viaggi e prenoterò il primo volo per Philadelphia. Poi, ti farò sapere quando arriverò."

Lo shock fu tremendo. Mi sentivo come se fossi stato pe-santemente sedato. Mi sforzavo di pensare, di concen-trarmi sulle cose di cui avrei dovuto occuparmi nell'im-mediato; il viaggio, il lavoro e tutto il resto. Ma era molto difficile. "Non può essere vero... Non può essere vero..." Continuavo a ripetere, nella mia mente. Io, che per natura, sono meno emotivo di mia moglie, piangevo in silenzio. Lei, invece, piangeva forte, dando libero sfogo al suo cordoglio, incurante che gli altri coinquilini del palazzo potessero svegliarsi. Da quella notte, il dolore e la tristezza iniziarono, lentamente, ad insediarsi dentro di me. Sareb-bero rimasti, lì, ancora per molto, molto tempo...

Dopo aver passato la notte insonne, verso le cinque del mattino mia moglie telefonò a sua sorella maggiore, Car-mela, per comunicarle la tragica notizia. Superato lo shock iniziale ed espresso tutto il suo cordoglio, alla fine mia cognata disse che se ne sarebbe occupata lei di avvertire il resto della nostra famiglia. Fu la prima ad accorrere, in-sieme con suo marito Domenico, a casa nostra, qualche ora più tardi. A mia madre, ultra ottantenne, decisi che sarei passato per casa sua, a comunicarle la triste notizia, più in là durante la giornata.

Subito dopo le nove, mia moglie ed io andammo da un'a-genzia di viaggi a fare il biglietto. Prenotai il primo volo per Philadelphia per Mercoledì, il giorno dopo. Prima di tornare a casa, mi fermai da mia madre. Quando le riferii della tragedia, la povera vecchia si portò entrambe le mani alla testa ed emise un forte grido di dolore. "NOOO, figlio mio!"

Poi, scoppiò a piangere. Anche lei, voleva molto bene a Robert. Aveva avuto modo di essere presente in tanti momenti belli nelle diverse fasi della vita di suo nipote; dall'età infantile fino a quella dell'adolescenza.

Tornato a casa, richiamai la mia ex per comunicarle il giorno del mio arrivo. Il telefono di casa, intanto, aveva cominciato a squillare già da un po'. Ci chiamarono anche dei nostri parenti e amici dall'America per esprimere le loro condoglianze. Tra questi, ci fu anche Gianfranco, uno dei miei nipoti, quasi coetaneo di Robert. Mi disse, che sarebbe venuto, lui, a prendermi all'aeroporto e che gli avrebbe fatto molto piacere ospitarmi a casa sua per tutta la setti-mana che sarei dovuto rimanere in America. A casa, sin dalle prime ore del mattino, c'erano alcuni nostri familiari a sostenerci con il loro affetto e farci sentire meno soli in un momento così triste della nostra vita.

Nel primo pomeriggio, trovammo il tempo di andare da un fioraio per spedire, in America, un cesto di ventotto rose bianche. Tanti erano gli anni di mio figlio. Un bel giovane alto, snello e con gli occhi azzurri. Prima di andare al ne-gozio, provai a scrivere un bigliettino di accompagna-mento. "Al nostro compianto e amato figlio Robert..." Sì, perché per mia moglie, lui era proprio come un figlio. Mi suonava assurdo e inverosimile che io stessi scrivendo quelle parole. No, mi rifiutavo di crederlo. Le lacrime, che scendevano copiose dai miei occhi, mi impedivano di ve-dere ciò che stavo scrivendo. Dovevo asciugarle di con-tinuo...Da quando ero sposato con Manuela, era venuto in Italia, insieme con suo fratello minore, Chris, di ventidue anni, cinque volte. Li aveva conosciuti da bambini e da ragazzotti, mia moglie. Due diavoletti, li definiva lei, ma li voleva molto bene entrambi. Ogni volta che venivano, in Estate, si faceva sempre in quattro per rendere divertente la loro vacanza. Li ospitavamo a casa nostra, a Bacoli, per tre o quattro settimane. L'incanto delle isole di Capri e Ischia, come pure le spiagge di Miseno, Licola e altre an-cora, rimanevano sempre come alcuni dei loro indelebili ricordi . Alla fine della serata, il tempo di preparare la va-ligia e poi, a letto, con la speranza di riposare un po'. Ma, provare a dormire, era solo una perdita di tempo. Le ore di sonno furono poche e agitate. L'angoscia non mi lasciava mai.

Il mattino seguente, presto, uno dei miei cognati con mia moglie, mi accompagnarono all'aeroporto di Napoli. Anche lei avrebbe voluto venire con me e starmi vicino in quel particolare momento buio della mia vita ma, alla fine, de-cidemmo che sarebbe stato meglio di no. Aveva il terrore di volare, mia moglie. Non era mai stata su un aereo in vita sua e, questo, non sarebbe stato il momento migliore di provare. Inoltre, avrei dovuto alloggiare a casa di mio ni-pote, sposato e con due bambini e, ciò, sarebbe soltanto servito a peggiorare una situazione di per sé già disagiata. La partenza da Napoli fu molto dolorosa per mia moglie; piangeva come se non mi avrebbe più rivisto. Dopo aver fatto sosta a Roma, per qualche ora, verso le dodici mi imbarcai sull'aereo per Philadelphia. Sarebbe stato un volo di nove ore.

In più di venti anni vissuti in America, viaggi come quello ne avevo fatti tanti. La nostalgia di ritornare a Napoli, di tanto in tanto, per rivedere il tuo paese nativo e soprattutto i tuoi vecchi genitori, ti prendeva sempre. Questo, però, era un viaggio che non avrei mai voluto fare; ritornare in America per seppellire mio figlio. Avevo sempre sentito dire che dovrebbero essere i figli a seppellire i propri ge-nitori e non il contrario.


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