Tramonto sul lago

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Viaggiammo per mesi su mari agitati, oltre la latitudine delle tempeste.

Sospinti da un poderoso vento di maestrale, superammo avarie e porti infestati di profughi e pirati, scivolando infine sotto lo scheletro del Ponte di Oresund, ove la tempesta si smarrì tra la bruma.

Eravamo insieme sulla murata e contemplavo i suoi luminosi, grandi occhi azzurri cerchiati di preoccupazione frugare la bruma in cerca di terra, quando infine le nebbie si aprirono a scoprire per un fugace istante le gru arrugginite e le profonde crepe sui moli di cemento del Porto di Rostock.

Salutammo con calore l'equipaggio della nave che ci aveva condotto in salvo fino a quel luogo, attraverso tante peripezie, e scortati da alcuni meccanici armati, impazienti di raggiungere la promessa di calore di un bordello, ci dirigemmo verso quello che era stato il pittoresco centro della città anseatica.

Tutto versava in uno stato di pericoloso abbandono, ovunque erano genti europee, africane e asiatiche che ciondolavano prive di scopo avvolte nelle coperte distribuite dagli eserciti della salvezza, e gli occhi smarriti nella disperazione e quelli svuotati di ogni ambizione si alternavano agli sguardi spaventati dei più deboli e animaleschi dei più forti. Sette volte ci fermarono, sei volte i meccanici dovettero mostrare le armi e una volta dovettero usarle, prima che i soldati arrivassero su tre camionette, silenziosi e per niente amichevoli, a scortarci fino ai confini della zona sicura, presidiata da un cordone massiccio di militari e blindati.

La scansione dei chip sotto pelle definì che potevamo passare, e di colpo le facce che avevamo davanti si fecero leggermente meno ostili.

L'antica piazza lastricata era ampia, squadrata, circondata da meravigliosi palazzi alti e stetti dalle facciate decorate di fregi ed edicole ed intonacate di colori pastello; da un angolo faceva capolino un'oscura, imponente cattedrale dalle guglie vertiginosamente gotiche ed al centro sostavano alcune statue di uomini attorno ad una colonna, e quelli erano gli unici segni di umanità che la riempivano, oltre a me e Sophia, perché gli abitanti della zona a quell'ora erano barricati nelle case o nei bar a consumare i magri pasti imposti dal razionamento e a bere davanti alla tv on demand, immersi ciascuno nei propri ricordi. Pochi, sparuti passanti attraversavano le strade veloci come proiettili, e non c'erano allegria né convivialità in nessun luogo.

Tesi la mano verso quella di Sophia, invitandola a prenderla con un sorriso. Lei la strinse, grata, si avvicinò e l'abbracciai. I meccanici se n'erano andati a scopare in qualche postribolo e un po' li invidiavo, mentre stringevo la sua figura sottile, ben proporzionata, e immergevo le narici nella foresta profumata dei suoi capelli. La desideravo e lei lo sapeva, ma non ero lì per quello, né lei era lì per me.

La pioggia era più delicata del solito, l'oscurità non aveva ancora ucciso i colori lividi del tramonto e il luogo era bello, la serata era nostra. Le canticchiai una canzone che avevo scritto quando ero all'università, facendola danzare con la mano, e lei rise, sollevata per un istante dal peso della consapevolezza. 

When first time I saw you / Behind the bench of your bar / The first thing I thought was / How much, must it hurt / To fall from the sky above / Down to the earth / For an angel as gracious / As a bright little star.

They said me it's useless / Forget about her / It's easier, and painless / There's plenty of girls / On this I agree then, lots of wise words / The problem is just that / I didn't listen at all.

I don't think it's useful / to own lots of things / but what I'm in need for / is just something to dream, / no matter what happens, / Nobody will steal / the nice traits of yours / that I see when I sleep.

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⏰ Last updated: Nov 18, 2018 ⏰

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Il culto del gattoWhere stories live. Discover now