Compleanno

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Where'd you go? I miss you so
Seems like it's been forever
That you've been gone
Where'd You Go – Fort Minor

Estate 2013


Torino era indifferente a tutto, guardava le vite degli altri con consapevole distacco, per questo era la mia città.
L'attico in Piazza Solferino nel centro storico era stato l'ultimo acquisto dei miei genitori.
Appena comprato era stato il momento dell'architetto, del designer di interni, della scelta dei tessuti per la tappezzeria e della vasca con idromassaggio sulla terrazza.
«Faremo una festa per il tuo compleanno, Tea» aveva detto mamma, appena ultimati i lavori.
Mia madre impiegava il tempo acquistando cose e organizzando feste per metterle in mostra.
Era una donna annoiata, attenta all'apparenza e alle buone maniere. Mi chiedevo se fosse sempre stata così.
Ci aveva messo due settimane per organizzare la festa del mio compleanno, con tanto di catering e inviti.
Avevo risposto alle sue assidue chiamate, alle domande sulla scelta dei piatti del buffet e sul colore dei fiori con cui addobbare la tavola.
Alla fine, l'aveva avuta vinta lei su ogni cosa.

Di quella sera ricordo i calici di champagne sui vassoi d'argento, la musica classica in sottofondo e mia madre.
Mia madre accanto al tavolo in terrazza che mi diceva di sistemare la sbavatura del rossetto all'angolo della bocca.
Mia madre che mi elogiava con la notizia del mio prossimo ingresso nello studio legale di famiglia.
Mia madre che sorrideva, che ostentava la sua bellezza, la sua ricchezza, la perfezione di una vita intera.
Deludere le aspettative degli altri significa deludere te stessa, ripetei a mente, muovendomi nella sala piena di invitati.

Ci ero cresciuta con quella frase. Mamma me l'aveva sussurrata all'orecchio tutte le notti prima di mettermi a letto che ero solo una bambina.
Me l'aveva tatuata dentro, impressa nella carne.
Il mio compito era apparire perfetta, era questo che lei si aspettava da me. Portavo perennemente una maschera sul viso, un velo sugli occhi, un macigno sul cuore.
Aspettai la torta ordinata alla famosa Pasticceria Gerla in Corso Vittorio Emanuele prima di andarmene: tre piani di pasta di zucchero decorati con frutta di stagione e fiori freschi.
Feci un sorriso impacciato davanti alle candeline e un inchino all'applauso degli invitati.
Me ne andai di fretta con la scusa di un forte mal di testa e solo una volta dentro l'ascensore mi sentii al sicuro.

Sfilai le scarpe per dare sollievo ai piedi, sciolsi i capelli biondi dalla coda e mi tolsi il rossetto dalle labbra.
Era nei momenti di solitudine che tornavo a essere me stessa.
A sei anni mi era già stata assegnata un'educatrice, passavo interi pomeriggi a imparare quali posate scegliere per ogni tipo di pietanza, come posizionare il tovagliolo sulle ginocchia e come mantenere una postura rilassata senza mostrarmi tesa.
Le espressioni sul mio volto erano state modellate in base alle situazioni, i movimenti del corpo in base agli ospiti e le conversazioni in base al tipo di eventi.
Nonostante l'impegno e lo sforzo che impiegavo per non deludere i miei genitori, percepivo di far parte di un ambiente che non mi apparteneva.
Odiavo i nastri colorati con cui erano adornati i miei capelli, gli abiti dai colletti ricamati, le gonne di seta e le calze che confluivano in ballerine di vernice lucida.
Odiavo le scuole che frequentavo, le insegnanti che avevo, i compagni che sedevano ai banchi con la schiena dritta e lottavano ogni giorno per essere un passo avanti a tutti gli altri.
Odiavo essere catalogata, osservata, giudicata.
Sentivo gli sguardi marchiarmi, i sussurri raccontarmi.
Sì, perché io, Tea Guastini, non ero completa.

Ero figlia di mia madre che era cresciuta tra montagne a strapiombo su una valle, tra filari di vigne e meleti. Poi c'erano i miei capelli, di un biondo così slavato da sembrare bianchi, la pelle del viso macchiata dalle lentiggini e il fisico longilineo, quasi androgino. Nessuno si avvicinava a me, un po' per il mio aspetto, un po' per la mia provenienza, e io non faticavo ad allontanarmi da
tutti. Ricordo gli interminabili pomeriggi dentro la mia stanza, le pareti con carta da parati rosa confetto, il letto a baldacchino e l'enorme finestra da cui si poteva vedere tutta Torino. Restavo ore appoggiata al davanzale a immaginare cosa ci fosse al di là dei tetti, delle strade, al di là della coltre di smog che aleggiava nell'aria offuscando il cielo.
Ero cresciuta con un' unica fedele compagna: la solitudine.
Ero cresciuta con un unico obiettivo: essere all'altezza del mondo di cui ero parte.
Avevo imparato a ingoiare le sensazioni, a schiacciarle giù, sino alla bocca dello stomaco, fingendo non esistessero.
Le emozioni erano ingannevoli e io dovevo soffocarle una per una. Accettare di sentirle, di riconoscerle, mi avrebbe reso fragile come un'ampolla di vetro.
Fuggire da ogni tipo di rapporto era la mia specialità, isolarmi il mio talento, evitare contatti con le persone la cosa che mi riusciva meglio.

E POI MILLE LETTERE D'AMOREDove le storie prendono vita. Scoprilo ora