1. Perfect Aim.

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Le luci della città erano la sola cosa che illuminava quella tiepida sera estiva, in cui io e il mio migliore amico Mitch Harvey sfrecciavamo per le strade di quel piccolo paesino a bordo di una vecchia automobile, che apparteneva a suo nonno.
Arrivammo al solito spiazzo erboso fuori città, sconosciuto a praticamente tutti gli abitanti del paese, dove eravamo soliti fumare, chiacchierare di qualcosa e sparare a dei bersagli trovati sul momento.

Mitch parcheggiò accanto all'albero dove giocavamo da piccoli.
Scesi per prima dall'auto, mi diressi verso al portabagagli e lo aprii, estraendo il fucile che era avvolto da alcuni asciugamani e sotterrato da innumerevoli cianfrusaglie.
Apparteneva a mio padre, morto quando avevo dieci anni.
Mi portava sempre qui a sparare, durante le sere estive, nonostante sapesse che era illegale farlo, visto che quel luogo non era specializzato nel tiro al bersaglio.
Quando papà morì, mamma Margot nascose il fucile, siccome nessuno oltre a lui in famiglia possedeva il porto d'armi, ma io lo trovai e decisi di usarlo di nascosto.
Da mio padre avevo ereditato gli occhi azzurri e i capelli neri mossi, oltre che la passione per le armi da fuoco.
Mitch era un po' come me.
La sua passione erano i motori, e nonostante ancora non avesse la patente, suo nonno gli aveva insegnato a guidare e glielo permetteva la sera, quando nessuno era in giro.
Certamente il nonno di Mitch e mio padre andavano d'accordo su molte cose.
Comunque, non avevamo mai trovato difficoltà nel dedicarci alle nostre passioni, considerato il fatto che in quel paesino tutti si facevano gli affari propri e non avevano il tempo di preoccuparsi delle scorribande di un gruppetto di ragazzi che non trovava di meglio da fare.

Mitch sistemò alcune bottiglie sui tre ceppi che si trovavano in mezzo allo spiazzo.
Successivamente il mio migliore amico si appoggiò al suo veicolo, incrociando le braccia al petto e spostando il suo sguardo dalla fitta foresta che si estendeva accanto a noi a me, intenta a caricare il fucile e a osservare il ragazzo con la coda dell'occhio.
Mirai al centro di una delle bottiglie, poi premetti il grilletto, facendola saltare in aria.
Questo provocò un rumore fastidioso di vetri rotti, senza parlare di quello causato dalla fucilata.

Feci una smorfia, che fece sbuffare Mitch.
«Dakota, dovresti metterti i tappi per le orecchie. Ne abbiamo già parlato» disse, guardandomi severamente.
Avevo un problema uditivo, sentivo solo da un orecchio e Mitch si preoccupava per me più di chiunque altro.
Negai con la testa.
«Sto bene.» risposi, ma lui non sembrava affatto convinto.
Si posizionò accanto a me, io abbassai il capo, evitando temporaneamente il suo sguardo.
«Sappiamo entrambi che non è vero.»
Scrollai le spalle, lui posò la mano sulla mia spalla.
«Non voglio che diventi sorda.» continuò, facendomi alzare il viso per guardarlo.
La serietà era impressa nei suoi occhi castano verdi, facendomi sentire in torto.
Cosa che certamente ero.
Dovevo stare più attenta.
«Non succederà.» dissi con fermezza, ricambiando il suo sguardo.
«Promettimi che starai più attenta» continuò, io cercai di trattenermi dall'alzare gli occhi al cielo.

«Te lo prometto.» risposi, ridacchiando e rimettendomi in posizione col fucile.
Caricai un'altra cartuccia e sparai mirando al collo della bottiglia.
Colpii anche quella e sorrisi trionfante, accompagnata dal fischio di Mitch.
«Sei una forza. Hai una mira perfetta! Dovresti arruolarti nell'esercito.» ridemmo a questa sua affermazione, anche se ne ero rimasta un po' scombussolata.
Hai una mira perfetta” era il complimento che mio padre mi faceva più spesso.
Sperai di aver avuto una mira perfetta anche negli altri obbiettivi della mia vita, in modo tale da renderlo fiero di me, ovunque si trovasse.

«Le mie madri mi ucciderebbero ancor prima di indossare la divisa» dissi, facendolo ridere ancora più forte.
Sapevo che a lui non disturbava affatto il fatto che fossi figlia di due donne (siccome mia madre si era fidanzata con un'amica di famiglia dopo qualche anno dalla morte di papà) e che pure a me piacessero le persone del mio stesso sesso.

Mitch si sedette sul prato a gambe incrociate, estraendo dalla tasca del suo giubbotto un pacchetto di sigarette nuovo di zecca, per poi aprirlo e infilarsene una in bocca.
«Hai sentito della festa che ci sarà a casa di Alexis?» mi chiese serio, mentre accendeva la sua sigaretta.
Annuii, alzando gli occhi al cielo.
«Dobbiamo andarci per forza, vero?» chiesi, il ragazzo sorrise alzando le sopracciglia, come a dirmi che sapevo già la risposta.
Io sbuffai.
Odiavo andare a quelle stupide feste.
«Andiamo, Dakota, è l'ultima festa estiva!» mi disse con enfasi, io alzai nuovamente gli occhi al cielo.
«Siamo andati anche a tutte le altre feste estive.» risposi, alzandomi per prendergli di mano il pacchetto di sigarette e estraendone una, per poi rilanciarglielo.
«Ci andremo. Tu devi parlare con Alexis» disse, puntandomi il dito contro.
«Non devo parlarci, Mitch. Non dovevamo neanche andare alle sue stupide feste. Troverà altri modi per prendermi in giro oltre a...» iniziai, ma il mio migliore amico mi precedette.
«...‘Duck’» disse, facendo una risatina.

Mi morsi il labbro, lanciandogli addosso il mozzicone della mia sigaretta ormai consumata.
«Sì, quello, non ridere stronzo» risposi, assottigliando gli occhi.
Alexis era la ragazza che mi piaceva, purtroppo, nonostante mi prendesse sempre in giro chiamandomi ‘Duck’, un simpatico (seh) abbreviativo del mio nome.
E Jocelyn, la mia migliore amica, sosteneva che Alexis mi chiamasse così anche per via delle mie labbra carnose.
Ovviamente Mitch la appoggiava.
E ovviamente io non ero d'accordo.
Ero abbastanza sicura che una ragazza come Alexis Heizer non mi avrebbe mai guardata.

Il mio cellulare iniziò a squillare, così risposi, sicura che si trattasse di  mia madre Margot. O di mia madre Elizabeth.
«Quale delle due?» chiese scherzosamente Mitch, sorridendo, quasi come se mi leggesse nella mente. A volte temevo che fosse davvero così.

«Margot» risi, pensando alla faccia di mia madre che sicuramente in quel momento era incazzata nera.
Dopotutto, ero uscita di nascosto.
O meglio, lo avevo detto a mamma Elizabeth che sicuramente aveva dimenticato di dirglielo, troppo presa dalle sue tisane.
«Ti accompagno a casa.» disse Mitch, passandosi la mano fra i capelli castani perfettamente pettinati, facendo attenzione a non incasinarli.
Scossi la testa, sorridendo debolmente.
Sapevo che Jocelyn doveva dormire da lui e non volevo fargli perdere tempo.
Era stata lei a dirmi che uscivano insieme, più che altro se lo era fatto sfuggire di bocca.
Mitch era molto più riservato di Jo, non se la sentiva di parlarmi della sua vita amorosa in cui ora c'entrava la mia migliore amica.

«Tranquillo. Ci vediamo domattina» gli risposi, ma lui mi bloccò.
«Siamo fuori città. Sono le otto di sera. È buio. Non puoi portare il fucile a piedi. E ti accompagno a casa.» disse, facendomi ridere.
«Sei proprio una mammina.» gli dissi, salendo sul sedile accanto a quello del guidatore, dove si era appena seduto lui.
«E tu una figlia irresponsabile» rispose a tono, facendomi l'occhiolino e mettendo in moto, per poi partire alla volta di casa Paper.

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