Ovunque sarai e qualsiasi cosa stia accadendo nella tua vita, tutte le volte che ci sarà la luna piena, tu cercala nel cielo. E mentre la guardi, pensa a me, perché dovunque sarò e qualsiasi cosa stia accadendo nella mia vita, io farò lo stesso.
-Dal film “Dear John”
È tutta colpa della luna, quando si avvicina alla Terra fa impazzire tutti.
-William Shakespeare
Passò distrattamente un dito sulla sabbia, disegnando dei ghirigori contorti, come gli capitava spesso quando era sovrappensiero. Il leggero sciabordio delle onde era l’unica cosa che lo tenesse sveglio e gli facesse pensare al Distretto 4, alla sua casa.
Prima c’era Mags accanto a lui. Se solo lei fosse stata ancora viva, lui avrebbe potuto sfogarsi con lei, raccontarle tutte le sue turbe e i suoi pensieri più cupi. Mags lo avrebbe capito e gli avrebbe sorriso in quel modo gentile e materno, come faceva sempre quando Finnick correva da lei, disperato dall’ultimo incubo.
Ma Mags era morta poche ore prima, ingoiata da una fredda, viscida e bianca nebbia, che l’aveva uccisa in un modo orribile.
Una lacrima solitaria scorse lungo la gota di Finnick, ma il ragazzo non la ricacciò indietro. Era troppo preso dai suoi pensieri, in cui troneggiava il volto dell’anziana vincitrice dei noni Hunger Games.
In quei dieci anni, Finnick aveva guardato a Mags come a una madre, dopo che la sua era morta. La loro fine era stata quasi uguale: entrambe erano morte per un capriccio di Snow. La prima se n’era andata una sera, poco prima dei sessantasettesimi Hunger Games. Trucidata nella sua stessa casa, insieme al marito: quella fu la punizione del presidente. Dopo quell’evento, Finnick aveva imparato che era meglio accontentarlo, in qualunque modo. Prostituirsi rientrava in questa categoria.
Finnick portò le mani alle orecchie, come faceva sempre Annie quando i brutti pensieri le offuscavano la mente. Anche lui voleva dimenticare, dimenticare tutto. Non ce la faceva più a pensare al corpo dei suoi genitori dopo la loro morte, a Mags. Non voleva ricordare quelle orribili notti passate a Capitol City, tra candide lenzuola dove lui aveva incontrato donne di cui non sapeva neanche il nome, donne che lo avevano usato a loro uso e consumo, come un bambolotto con cui potevano fare ciò che volevano. Anche loro popolavano gli incubi di Finnick, con i loro sorrisini estasiati, i loro gemiti e le parole che sussurravano al suo orecchio con voce roca, mentre erano al massimo dell’estasi. Finnick ricordava i loro volti, il fruscio dei loro vestiti che cadevano a terra. Aveva l’impressione che le loro mani lo toccassero, violandolo, privandolo della sua dignità. Perché quello gli avevano fatto: lo avevano visto nudo, mentre faceva lo sporco lavoro designatogli dal presidente Snow. Sapevano che lui non voleva fare ciò, eppure nessuna di loro aveva mosso un dito, seguendo invece quel primitivo istinto che le buttava a cercare avidamente la bocca di Finnick, i suoi baci, le sue mani sul loro corpo.
«Andatevene», mormorò il ragazzo, premendo sempre di più le mani sulle sue orecchie. «Voi e i vostri stupidisegreti dovete lasciarmi in pace».
In quel momento, capì benissimo come doveva sentirsi Annie quando era tormentata dalle voci che sentiva nella sua testa.
Annie.
Tra tanti volti brutti, era il suo quello più bello. Lei era diversa da tutte le donne con cui era stato. Aveva quel qualcosa in più che la rendeva speciale, poco importava se tutti la consideravano una pazza.
Annie era unica, ecco perché tutti la temevano, ma Finnick l’amava.
Il ragazzo tolse piano piano le mani dalle sue orecchie, cercando di tornare alla realtà. Osservò la distesa d’acqua davanti a lui. Era leggermente increspata, la superficie. Si chiese se anche al Distretto 4 fosse così, in quel momento.