UNA BRUTTA STORIA CHE FINISCE MALISSIMO

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A me la gente piace.

Dovrei dire di no, dovrei indossare magliette con meme antisociali, scrivere cose contro tutti, denunciare quanto le persone siano insopportabili e magnificare quanto sia bello scomparire in una poltrona a fagiolo e fare grunt tutto il giorno.

Dovrei. In fondo, l'essere con il maggior consenso in Italia non fa altro che dire questo: chiudiamo le porte e i porti, alziamo muri alti alti alti fino al soffitto e bassi bassi bassi fino al pavimento per non far entrare nessuno dentro casetta nostra. Isoliamoci.

Anche no.

A me la gente piace, l'ho già detto, ma lo ripeto: nelle ripetizioni si nasconde la perfezione, lo dice anche Zeman.

Dai, il preambolo stavolta è piccolo piccolo, serve solo per spiegare una minima parte del perché io voglia raccontare questa storia e in questo modo.

Finché era una, andava tutto bene. Poi è arrivata la seconda, la terza, seguita dalla quarta. Ora, ho un'età e capirete se dico che i bei tempi in cui si arrivava tranquilli alla quarta, beh, sono retaggio del passato; ora, alla quarta, ci arrivi (nel fantascientifico caso ci si arrivi) in uno stato leggermente alterato e prossimo all'infarto. Quindi, dopo la quarta mail in cui mi si accusava - non diceva o faceva notare, ma accusava - di raccontare storie solo positive, sottolineando come queste siano la netta minoranza e di come io rappresenti il peggio dei tempi che stiamo passando, ho preso una decisione drastica.

Signore, signori, mi trovo costretto a cambiare registro e raccontarvi

UNA STORIA BRUTTA CHE FINISCE MALISSIMO.

Avevamo da poco vinto i mondiali di Spagna.

Era accaduto nel luglio del 1982, ma l'eco dei cori e dei festeggiamenti era ancora nell'aria quel 13 novembre.

Eravamo felici.

I nonni allungavano centomila lire ai compleanni e nessuno si sentiva colpevole per questo, anzi. Se un professore ti dava un brutto voto era ancora per colpa tua e del tempo passato al telefono con la ragazzetta o con gli amici, tempo sottratto allo studio anche a detta del vicino di casa, con cui avevi un duplex. Si scopriva l'esistenza del gel per capelli, assurda sostanza responsabile di aver permesso a milioni di adolescenti forforosi di sentirsi inutilmente sicuri di sé, mentre tentavano di rimorchiare ragazze con giacche dalle spalle enormi e capelli ancora più gonfi.

Berlinguer era ancora vivo e, con lui, la speranza di una sinistra di governo, un governo che avrebbe davvero fatto il bene del paese. Si viveva sotto la calda coperta del pentapartito, senza ancora sapere che quella non era una coperta, ma un tappeto e lo spazio caldo a disposizione sarebbe presto finito a causa di tutta la polvere che ci veniva nascosta sotto.

Ma eravamo felici, stupidamente felici.

Lo erano anche Raymond Michael Mancini e Kim Duk Koo, i protagonisti di questa storia. Uno di loro non lo sarebbe stato mai più.

E non fu quello che morì.

Ray "Boom Boom" Mancini non è il classico bravo ragazzo: è IL bravo ragazzo. Non a caso, il documentario che in seguito sarà girato sulla sua vita si intitolerà The Good Son; Ray è bello e amato da tutti, è il figlio maschio che tutti i padri vorrebbero, il nipote per cui ogni nonna preparerebbe la torta di mele definitiva, il genero sognato a cui i padri affiderebbero senza timori la propria figlia.

Particolare non trascurabile, è bianco.

In un ambiente dominato da pugili neri, passano in secondo piano anche le sue origini decisamente italiane, sicule per la precisione. Il nonno era originario di Bagheria, da dove emigrò in direzione Stati Uniti in cerca di fortuna, lo fece in maniera incosciente, inconsapevole del fatto che non puoi spostarti da uno Stato all'altro, se sei un ragazzone in buona salute, per futili motivi come migliorarti o salvarti la vita. Perdoniamolo.

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