Anita

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Resto sul pavimento.
Gambe raccolte tra le braccia.
Inspiro. Espiro.
Il battito cardiaco mi pulsa nella orecchie, il dolore alle tempie si è stemperato in nausea e sono cessati i tremori. Adesso mi chiamo Anita Widstrand, non più Johansson. Ho trentanove anni, non diciannove. E non ho più attacchi di panico.
Fuori c'è una luce autunnale grigia. Sento rumore di pioggia, continua a venire giù a secchiate. Lo studio è come sempre: le stesse finestre alte, le pareti verde muschio, il dipinto di un vasto paesaggio, il parquet coperto dal tappeto intrecciato a mano, la vecchia scrivania usurata, le poltrone nell'angolo alla porta. L'ho arredato io, ma non ricordo bene perché fosse tanto importante curare ogni dettaglio. Mi sono sempre figurata che sarei stata io a trovarla, e non lei a cercare me. Forse ci ha provato per la curiosità di vedere chi sono, o forse per lanciarmi un accusa che mi resti impressa nella mente per sempre.
O anche per vendicarsi.
Ho impiegato anni a ricostruirmi una vita e ad arrivare dove sono oggi, mi sono lasciata alle spalle il passato, ma questo non significa che l'abbia dimenticato. Certe cose non si dimenticano mai.
Resto sul pavimento.
Gambe raccolte tra le braccia.
Inspiro, Espiro.

Hendrik mi ha dato un bacio sulla guancia prima di uscire per andare al lavoro. Ho fatto colazione con Simo e l'ho accompagnato a scuola, poi sono andata a Francoforte. Tutto era come sempre: i vetri appannati, il traffico in centro città, la foschia sulle acque grigie del Meno,il parcheggio impossibile in città. Lei era libera appena prima della pausa pranzo. Quando ha bussato, ho aperto la porta e ho notato subito la somiglianza. Ci siamo presentate con una stretta di mano. Il suo nome Maria Karlsson. Ma sa come si chiama davvero? Ho appeso la sua giacca bagnata, ho fatto un commento sul tempaccio e l'ho invitata ad accomodarsi. Lei mi ha sorriso e si è seduta in una delle poltrone. Ad ogni prima seduta chiedo al paziente per quale motivo si sono rivolti a me. Maria era molto preparata. É stata molto brava a recitare la sua parte, dicendo di soffrire d'insonnia da quando è morto suo padre, e di aver bisogno di aiuto per l'elaborazione del lutto. Ha detto che si sente persa, insicura di sé e che questo le crea molte difficoltà con il rapporto con gli altri. Tutto ben imparato a memoria.
Perché?
Poteva dire le cose come stavano, non c'era nessun motivo di celare questa sua visita. Ha appena compiuto ventidue anni, statura media, corporatura a clessidra, vita sottile, unghie corte non smaltate, nessun tatuaggio, nessun piercing. Neppure un buco alle orecchie. I capelli neri e lisci le ricadevano tutto lunga la schiena, luccicanti di pioggia, mettevano a risalto la carnagione chiara. Molto bella. Più di quanto avessi immaginato. Del resto della seduto ho un ricordo vago. Abbiamo parlato delle dinamiche della terapia di gruppo, forse con qualche accenno al rapporto con gli altri, ma di preciso non saprei. Maria Karlsson ascoltava molto attentamente, facendo scattare la testa per gettare i capelli all'indietro. Sorrideva, ma era tesa. Sulla difensiva. Ed ecco che è arrivata la nausea, seguita da una vertigine e da un senso di oppressione al petto. Li conosco bene questi sintomi. Mi sono scusata e sono uscita per andare nel bagno del corridoio, con la tachicardia, i sudori freddi e un martello dietro agli occhi che mi mandava lampi di luce nella testa. Ho sentito lo stomaco contrarsi così mi sono inginocchiata davanti alla tazza, cercando di vomitare, ma non ci sono riuscita. Mi sono seduta sul pavimento, con la schiena appoggiata alle piastrelle e ho chiuso gli occhi.
Smetti di pensare a ciò che ha fattore
Smetti di pensare a lei.
Smetti di pensare.
Smetti.
Dopo qualche minuto sono ritornata nello studio e le ho detto di venire alle terapia di gruppo mercoledì all'una. Maria Karlsson si é messa la giacca, ha sfilato i capelli fuori dal colletto e li ha scossi. Avrei voluto tendere la mano per accarezzarli. Mi sono trattenuta appena in tempo, ma lei se n'è accorta. Ha notato la mia esitazione.
Forse era proprio ciò cui mirava? Voleva rendermi insicura?
Si era messa la borsa a tracolla. Io le ho aperto la porta, e lei se n'è andata.

Io l'ho sognato questo giorno. Quante volte ho fantasticato su come sarebbe stato, su come mi sarei sentita, su ciò che avrei detto. Non doveva andare cosi. E questo mi fa più male di quanto non avessi mai immaginato.
Resto sul pavimento.
Gambe raccolte tra le braccia.
Inspiro. Espiro.
Lei è tornata.
È viva.

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