una rosa bianca in mezzo ad un campo di lavande

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È così bella quando dorme. Dio se è bella. Se ne sta distesa sul letto dormendo su un fianco, il suo corpo si alza e si abbassa sotto il comando dei lenti respiri, con gli occhi chiusi e le ciglia che solleticano la pelle degli zigomi, dalla bocca semi aperta fuoriescono respiri caldi e zuccherini, i capelli biondi, dorati e spettinati corrono morbidi dietro la sua spalla.

Il sole entra timido dalla finestra a vetro coperta da una leggera tenda bianca, e, con tanta discrezione bacia i lembi scoperti della sua pelle diafana e le lenzuola bianche, impregnate del suo profumo e di quello dell'ammorbidente alla lavanda.

L'odore della lavanda mi farà sempre pensare a lei. Quando la incontrai per la prima volta, era una studentessa del Liceo e frequentava l'ultimo anno. Io, invece ero al secondo anno della facoltà di medicina, e quel pomeriggio avevo finito con successo la sessione d'esame.

Il Sole era alto nel cielo, pedalavo sulla mia Mountain Bike rossa in un sentiero sterrato tra spighe di grano che solleticavano appena le mia gambe coperte per metà da un pantalone rosso. Le braccia erano coperte da una giacca in tessuto blu e sotto essa una camicia bianca. Avevo indossato anche un basco rosso per proteggere la cute sotto i capelli neri dai violenti raggi solari che picchiavano forti sulle caviglie sopra le scarpe basse e bianche.

Il clima era mite e non c'era vento, ma la velocità della bicicletta creava aria intorno a me che accarezzava il mio viso bronzeo.

Alzai per un attimo lo sguardo, forse attirato da due rondini che volavano basse all'orizzonte, forse incuriosito dai fiori variopinti che abbellivano il campo. E fu li che la vidi, vicino alla rete di recensione alta e verde.

Non sono mai stato bravo a domare la curiosità, e mi lasciai prendere, imboccai il sentiero più breve e pedalai fino a raggiungerla.

Indossava la classica divisa scolastica, una gonna blu lunga sino al ginocchio, camicia bianca con manica a tre quarti, scarpe da ginnastica bianche e i capelli ramati raccolti in un'alta coda di cavallo, ben tirata.

Rallentai, nel momento in cui mi trovai vicino a lei. Guardava la rete, analizzandola e concentrandosi sui quadri creati dall'intersecarsi dei fili d'acciaio. Probabilmente non si accorse che ero lì.

Puntò il piede in un nodo alla base di uno dei tanti quadri e strinse le mani intorno ai fili robusti, per sostenersi e levarsi, arrampicandosi tra i nodi con l'intento di oltrepassare la recinzione.

«Attenta!» gridai d'istinto. Lei si girò calma, permettendomi di ammirare i suoi occhi castani e limpidi dalla gioia, e la sua bocca pronunciata. Sorrise, non disse nulla fino a quando non ebbe finito nella sua impresa di scavalcare la rete, ritrovandosi dall'altra parte di essa.

«Lo faccio sempre' mi rispose con timidezza, indicando con lo sguardo la rete verde che adesso ci separava.

«Non si può andare da quella parte» riflettei «È... privato... no?»

Ridacchiò appena, mostrando i suoi denti bianchi e scosse la testa «Che importa se è privato, c'è un paradiso qui giù e per quanto ne so, nessuno può impossessarsi del paradiso» sollevò le spalle e aggiunse «Dovresti unirti a me»

Accettai; con il suo aiuto oltrepassai anche io la rete ma, a differenza sua, ero piuttosto impacciato tanto che andai a finire per terra. La mia goffaggine la fece ridere rumorosamente, tanto che il suono del suo riso si estese e riecheggiò nel silenzio della distesa.

Strofinai la mano sulla mia giacca per rimuovere la fanghiglia che la sporcava mentre la seguii. Lei camminava pochi passi avanti a me lungo il sentiero che scendeva ripido, si vedeva che questo posto le era familiare. Arrivammo ad una radura con un fiume che scorreva calmo e luccicava grazie alla luce del sole che s'infiltrava tra le chiome rigogliose e verdi dei possenti faggi.

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