La via del tramonto

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Lo spaventapasseri sorvegliava il campo che gli era stato affidato con la stessa solerzia del primo giorno di guardia, nonostante i proprietari terrieri fossero venuti a mancare da molto tempo, abbandonando lui e la tenuta a un destino fatto di decadenza e rovina, come testimoniato dal vecchio rudere che sorgeva sulla sommità del colle alle sue spalle. Una lapide di pietra che ricordava a stento i bei tempi andati.

In quella desolazione il fantoccio solitario persisteva nel suo inutile scopo, incapace di lasciarsi alle spalle un passato poco glorioso e di abbandonare un futuro altrettanto privo d'importanza.

Si ergeva in precario equilibrio sulla sua gamba di legno, svettando tra le erbacce e gli arbusti che avevano preso il posto delle dorate spighe di grano.

La leggera inclinazione verso sinistra faceva intuire che aveva intrapreso una strada senza ritorno: prima o poi un violento colpo d'aria o l'irruenza di qualche animale vagabondo gli avrebbero inferto l'ultima sofferenza, mettendo finalmente fine alla maledizione che lo imprigionava in quella terra di nessuno.

Indossava logori stracci sporchi, che ricadevano laceri e sfilacciati sul suo corpo marcescente, conferendogli un aspetto spettrale nelle notti di luna piena. La testa parzialmente sfondata, messa a nudo dal cappello di paglia che era volato via col vento del nord, completava l'opera di degrado.

Il braccio mancino era spezzato e intrappolato nella manica strappata della camicia di stoffa che indossava e, mosso dal vento, sembrava indicare un punto lontano verso ponente, oltre i verdi colli di Ravurnia e il grande fiume Sildone. Il braccio destro, invece, era, per sua sfortuna, ancora integro e usato come trespolo da corvi e cornacchie, che vi si appollaiavano di sovente per deriderlo senza ritegno, rendendolo senza ombra di dubbio la sua più grande vergogna.

Quel giorno erano tre i pennuti del malaugurio che riposavano su di lui: due sul suo rachitico arto di legno e uno sul suo capo tumefatto. Si guardavano intorno con i loro crudeli occhietti neri, gracchiando di tanto in tanto oscenità che solo loro potevano capire.

Quando un movimento del corvo appollaiato sulla testa fece oscillare lo spauracchio, cominciò il litigio tra i due che oziavano sull'esile braccio. Tra "cra" furiosi e frenetici battiti d'ali il primo spiccò il volo, subito seguito dal secondo che non aveva intenzione di lasciar cadere la discussione. Scomparvero entrambi in un fugace istante senza lasciare traccia del loro passaggio. L'ultimo rimasto si limitò a sollevare le piume della coda e a defecare con indifferenza, imbrattando le vesti già putride del guardiano di paglia prima di prendere anche lui il volo.

Il sole alto in cielo dominava con fierezza sulla manciata di piccole nuvole che s'inchinavano al cospetto della sua corona dorata, mentre giovani rondini giocavano a rincorrersi in volo tra volteggi e acrobazie eleganti. Tutto intorno cicale e grilli frinivano a intervalli quasi regolari, incalzati dal fruscio del prato smosso dalla brezza pomeridiana.

Una farfalla dalle vivaci sfumature violacee si appoggiò sul petto dello spaventapasseri, aggrappandosi leggiadra sulle maglie di stoffa della camicia sporca. Mosse le ali colorate un paio di volte, molto lentamente, poi lasciò la presa e tornò a volteggiare sui fiori da campo, tagliando la strada al cavaliere che passava da quelle parti.

L'uomo in arme ricambiò lo sguardo del fantoccio senza fermare la lenta marcia del suo vecchio destriero. Lo spaventapasseri lo fissava con occhi spenti, trasmettendogli una strana inquietudine e riflessioni deprimenti.

«E' questa la strada che abbiamo scelto, Parcival?» Chiese al suo cavallo, senza ottenere risposta «Se andiamo avanti così faremo la sua stessa fine. Beh, io per lo meno, tu puoi essere ancora utile a qualcuno...» Parcival sbuffò e passò oltre.

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