Pellicola

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Sono nel letto, ma non riesco a dormire.

La mia mente pare avere voglia di divertirsi stasera, vuole farmi impazzire. Non che sia una novità, è un periodo così e ne sono consapevole, devo arrendermi il prima possibile e mettermi il cuore in pace. La pazienza sta finendo, è davvero difficile tollerarlo per una dormigliona come me. Cerco di rendere i miei respiri regolari, serro le palpebre e inizio a contare. Uno... Due...

Che stress, davvero sono queste le tecniche di rilassamento? Posso garantire che non funzionano, visto che non sono riuscita ad impedire che il nastro della mia vita venisse proiettato, riavvolto, visionato e messo in pausa proprio come nei cinema con le sedie in velluto rosso consumato e il volume troppo alto in sala. La testa sembra sovreccitata dalle immagini che si susseguono e, che coincidenza, proprio quando avevo intenzione di riposarmi.

Accendo la luce, bevo un po' d'acqua dalla bottiglia sopra il comodino e mi rigiro.

Vincerò io stavolta.

Chiudo gli occhi e davanti a me c'è il mio ragazzo Filippo che mi chiama. Ha fretta, dobbiamo andare: siamo già in ritardo.

Il nastro è mandato avanti e io sono in preda alla volontà dei miei neuroni.

Siamo al bar, davanti a me il solito tè freddo al limone, vicino due birre medie. Alzo lo sguardo, Filippo mi sorride, ha appena fatto una battuta delle sue e mi guarda con gli occhi furbi. Accanto a lui l'amico con il quale siamo usciti, Paul. Sorride anche lui, ormai rassegnato alle freddure del mio ragazzo.

Faticosamente mi metto a pancia sopra, sospiro. Questa agonia non avrà mai fine.

I fotogrammi sono rallentati. Sono costretta a concentrarmi su ogni piccolo particolare di quello che vedo: la felpa blu di Filippo, le sue dita sottili, la scottatura di Paul alla mano che si era fatto mentre lavorava alla sua mansarda, la sua mascella fin troppo squadrata tanto da essere quasi innaturale.

C'è un salto temporale. Siamo quasi a fine serata, e sento i due parlare di Rio, il pappagallo del nostro amico. Ridono quando paragonano le sue piume ai miei capelli tinti di blu. Faccio la finta permalosa, ma so che quel modo di prendermi in giro è un segno d'affetto. Anzi, potrei sentirmi lusingata ad essere accostata alla ricercatezza dei pappagalli.

La mia bocca si incurva a quel ricordo, mentre un nodo stringe appena la gola. La mia mente è ancora più in subbuglio.

Vuole fare di più; riavvolge la pellicola.

Siamo a Verona, in università. Filippo stappa una bottiglia e tutti urlano: “Vai dottore!”

Ha un'espressione stupenda in volto. È felice e fiero del suo traguardo, e lo sono anche io.

Il nastro viene mandato solo un pochino indietro.

Una macchina bianca mi aspetta fuori casa. Scendo e saluto i tre ragazzi all'interno. Abbiamo davanti a noi due ore e mezza di viaggio; Jack è un po' preoccupato perché non conosce la strada.
“Io ormai la so a memoria”, ci tengo a rassicurarlo.

C'è Paul seduto sul sedile del passeggero, mi saluta, e dice di aver appena finito il turno di notte. È stanco, ma non poteva mancare alla discussione della tesi di uno dei suoi migliori amici.

Si parte e, mentre le luci soffuse dell'alba ci accompagnano, io cerco di fare amicizia con Umberto, un conoscente del mio ragazzo che ancora non avevo mai incontrato. Sembra simpatico, penso tra me e me.

Pausa!

Mi concentro sulla forte luce del navigatore della macchina - che evidentemente non si fida delle mie indicazioni. Il profilo del lavoratore davanti a me, pacificamente addormentato, e quello del guidatore, innervosito da un camion che ci rallenta catturano la mia attenzione.

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