Onorevolmente.

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Alfine, l'ultima speranza andava spegnendosi.
Lo sguardo vitreo di Nobunaga Oda era puntato sulle fiamme danzanti della torcia posta difronte a lui. Illuminava l'ambiente in cui il suo corpo si trovava, ma non il suo spirito.
Le voci concitate dei soldati di Mitsunari arrivavano fin dentro le viscere del tempio di Honnoji. Nobunaga sapeva di non poter zittirle. Lo avrebbero inseguito fin nel più oscuro e recondito angolo della mente, non lasciandogli tregua. Ma ciò che più lo infastidiva non era la cupa promessa di morte che gli riservavano, ma il non poter meditare nella pace silente di cui aveva bisogno.
Emise un solenne sospiro, ragionando sulla situazione, ma scacciando da sé ogni sorta di pensiero strategico -perché Nobunaga sapeva che, in una situazione del genere, non c'era strategia che tenesse. Ora poteva solo arrendersi.
Quella consapevolezza lo colpì in profondità, bloccando il suo pensiero per qualche secondo, come avesse deciso in autonomia di trasformarsi in una zona desolata.
Si riscosse, concentrandosi sulle vibranti spire di fuoco dinnanzi a lui. L'aria calda non costituiva una difficoltà per il suo animo temprato dalla pazienza e dalla sopportazione.
Mitsuhide Akechi e i suoi uomini lo attendevano fuori dal tempio, pazientemente. Il tutto era avvenuto troppo in fretta perché potesse elaborare a fondo la gravità di ciò che era successo.
Uno dei suoi generali più fidati aveva disposto i suoi soldati intorno al tempio, in un tentativo di spodestarlo dalla promettente carica militare che si era aggiudicato scontro dopo scontro.
Nobunaga non aveva mai previsto il suo tradimento.
Di lui, come di qualsiasi altro uomo fosse posto sotto il suo comando, si fidava ciecamente. Era stato questo il suo errore. Fidarsi.
Tuttavia, non avrebbe mai cambiato approccio nei riguardi del suo esercito a causa dello sbaglio di uno. Neanche Mitsuhide si rendeva conto di quanto fosse in errore: quel pensiero gli ispirò tenerezza e compassione di lui. La sua ambizione aveva oltrepassato i limiti della sua fedeltà e del legame che li legava. Non poteva negare di essere rimasto impressionato da tanta brama dimostrata, anzi, era ammirato.
Un sorriso gli attraversò le labbra fugacemente.
Eppure, Mitsuhide avrebbe dovuto sapere che il suo gesto sconsiderato avrebbe acceso l'ira dei suoi comandanti più affezionati. Nell'ignorare le conseguenze che il suo azzardo avrebbe avuto su quanti lo attorniavano, aveva sancito la propria imminente rovina.
Scosse la testa, biasimandolo. Come aveva potuto, uno dei suoi uomini, commettere un errore di valutazione tanto grossolano? Era evidente che non solo la sua fedeltà andava messa in discussione.
I suoi alleati avrebbero ricercato una vendetta di sangue in chiunque gli avrebbe destinato una fine ingloriosa come quella.
Circondati dai soldati di Mitsuhide, lui, i pochi servitori e le guardie presenti avevano poche opportunità di volgere le sorti dell'irrimandabile a proprio favore.
Un senso di quieta rassegnazione si impossessò di lui, rilassandolo nel profondo. Avrebbe accolto la morte come fosse stata una delle vittorie conseguite. La pace coprì i suoi pensieri, silenziandoli. E per lunghi minuti, Nobunaga udì solo il vivace scoppiettare delle fiammelle. Le grida si erano attenuate.
La porta della sala si aprì, sospinta da un tocco cauto e timoroso. Ranmaru Mori avanzò verso il suo signore, annunciando la propria presenza con un sommesso «Signore...».
Nobunaga Oda riemerse dalla sua meditazione. Si accorse che la sua mente era rimasta in uno stato di quiete dove dubbi e paura non riuscivano ad attecchire, non trovando terreno fertile nella sua psiche rafforzata.
«Ranmaru» lo accolse con tono pacato, provocando un repentino sorriso nel viso del suo servo.
«Spero di non averla disturbata, signore. Volevo solo informarla che... ormai, penetreranno nel tempio a momenti» dichiarò, abbassando il capo in segno di sottomissione, rimanendo in paziente attesa di un comando.
«Se i momenti che ci concederà il Fato saranno lunghi momenti, abbiamo tutto il tempo per agire» rispose, la voce ferma e tranquilla, nonostante il contenuto implicito delle parole. Un nuovo velo di apprensione si aggiunse sul viso del giovane Ran.
«Signore... Ha intenzione di...?» mormorò, la voce vibrante di tremiti sinistri, in cui si percepiva la forte quanto vana intenzione di reprimerli. Ma Nobunaga gli perdonò questa debolezza, procedendo nella sua ieratica annunciazione.
«Tu mi assisterai» lo onorò. «Ma prima dovrai dare fuoco al tempio».
Ranmaru si mise sull'attenti, ritrovando l'antica determinazione che indurì i suoi lineamenti.
«Moriremo qui, di una morte onorevole, senza dare possibilità al nemico di reclamare la mia testa».
Ran annuì -lo sguardo gli vacillò per un debolissimo momento- e, con un ultimo cenno del capo, lasciò la stanza. Il fuoco che gli ardeva dentro avrebbe presto abbandonato i suoi confini fisici, inghiottendo ogni cosa.
Mentre Nobunaga attendeva la sua ricomparsa, prese a fissare le fiamme morenti della torcia. Presto ce ne sarebbero state molte altre a sostituirla. E fu all'ultimo baluginio emesso che Nobunaga sentì le sue difese mentali crollare un'ultima volta, lasciandogli ancora da riflettere. Tuttavia, anche se il silenzio dei suoi pensieri era scomparso, la pace del suo animo perseverava.
Nessun uomo può avere tutto ciò che vuole. Se questa terra potesse essere piegata alla sua volontà, ragionò Nobunaga, allora per lui non varrebbe più la pena combattere...
No, questa terra è modellata dalle ambizioni conflittuali di molti grandi uomini. Qui sta la sua bellezza. Se fosse caduto lì, tutto sarebbe andato perso? No. In ogni atto si trova il proprio scopo e significato.
Nobunaga lo sentiva: il mondo si stava muovendo di nuovo. Ma non era più suo. «Mitsuhide, ti perdono».

Ran aveva fatto ritorno dalla sua missione.
Affiancati l'uno all'altro, Nobunaga e Ran si scambiarono uno sguardo complice. Nobunaga, in ginocchio come il rito richiedeva, vide gli occhi del suo servo brillare, più lucenti e preziosi del fuoco che aveva contemplato. Era lieto che sarebbero stati l'ultima cosa che avrebbe visto. Gli occhi della devozione avrebbero fatto da degno scenario al suo seppuku, laddove la mancanza di fedeltà di uno lo aveva decretato.
Mise presso di sé una corta lama, elemento realizzante del seppuku.
Ran lo osservò praticare il tradizionale taglio da sinistra verso destra e poi verso l'alto, aprendo uno squarcio nel suo ventre che si affacciava su viscere sanguigne, mentre il mondo attorno a loro prendeva fuoco. L'afflusso di sangue che sgorgava dalla ferita si intensificava man mano che l'afflusso al viso di Ran si indeboliva, facendolo impallidire vistosamente.
«Ran! Fa' in modo che non entrino!» mormorò l'uomo agonizzante rivolto al suo seguace.
Ran annuì, concedendosi solo allora il lusso di digrignare i denti a quella visione straziante.
«Mio signore...».
Il seppuku non ammetteva tentennamenti, gli ricordò lo sguardo duro di Nobunaga.
Ran sfoderò la lama e gliela puntò al collo. Percepì le fiamme lambirgli le estremità del corpo. Vide la pace nello sguardo di lui. Allora seppe che il momento era giunto.
Con un movimento fluido, compì la decapitazione.
Il dolore, così, non gli avrebbe sfigurato il volto e sarebbe morto onorevolmente, come richiedeva il codice dell'onore dei samurai.
Il corpo di Nobunaga cadde in avanti, trovando le fiamme a consumarlo.
Ran sapeva che presto sarebbe arrivato il suo turno. Le carni gli bruciavano, assalite dal fuoco. Posizionò la testa mozzata accanto al cadavere afflosciato e si sdraiò accanto a lui, intrappolando per l'ultima volta il riflesso del suo maestro negli occhi, prima di chiuderli a propria volta.

[Parentesi storica, esclusa dalla storia]
I resti di Nobunaga Oda non furono mai ritrovati, dando generoso spazio alla leggenda che ancora avvolge la sua misteriosa figura.

Il coraggio e la devozione di Ranmaru sono ricordati in tutta la storia, e soprattutto durante il periodo Edo per il suo volere di commettere Seppuku e seguire il suo maestro perfino nella morte.

[Fine parentesi]

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⏰ Ultimo aggiornamento: Mar 11, 2019 ⏰

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