Capitolo I

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Al numero 7 di via S. Abitava un giovane studente, alle prese con profondi tormenti e moti dell'anima.
Durante l'ultimo periodo dei suoi studi realizzò che probabilmente tutto quello che aveva studiato, tutti i sacrifici fatti per conquistare il suo tanto desiderato titolo di dottore, non gli sarebbero serviti a nulla. L'idea del futuro lo opprimeva, il suo solo pensiero lo faceva sprofondare in un turbine infinito di rimpianti, angosce e tristezza. Si chiedeva se ne fosse valsa veramente la pena, se avrebbe potuto fare altro, magari specializzarsi in qualcosa di meno intellettuale. Non riusciva a trovare una risposta adeguata, e non la riusciva a trovare da nessuno. In un certo senso in lui vi era un senso di superiorità così forte da fargli pensare che fosse stato maledetto con una visione della realtà più nitida e reale di quella degli altri. Era sua profonda convinzione che alcuni individui fossero nati con una predisposizione alla schiavitù. Ovviamente per schiavitù intendeva qualsiasi forma di lavoro fisico e intellettuale che comprendesse le otto ore di lavoro. A suo parere erano troppe. Non era concepibile lavorare per otto ore per qualcun altro, e poi come si poteva lavorare per così tanto tempo per un'altra persona. Equivaleva al carcere, ai lavori forzati dei suoi amati romanzi. Temeva di finire costretto in un lavoro infimo, dove il suo pensiero non gli sarebbe servito a nulla, aveva il terrore di diventare una scimmia. Va detto che con scimmia lui non intendesse un semplice primate, bensì quella tipologia di homo sapiens priva di qualsiasi aspirazione e convinzione, un po' come i finni descritti da Tacito. Le convinzioni per lui erano tutto, ne aveva tante quanto le teorie sul mondo, che, va da sé, erano tante. Per lui gli homo sapiens scimmia erano quegli individui che lavoravano macchinalmente, come se facessero parte di un orologio a cucù, che non pensavano a nulla e che non avevano particolari aspirazioni nella vita. Erano scimmie perché, secondo lui, compivano movimenti automatizzati che anche una scimmia sarebbe stata in grado di fare, e non se ne curavano. Non si rendevano conto che lavorando in quel modo non avrebbero lasciato niente ai posteri, nessuna nuova invenzione, nessuna scoperta, nessun libro, il niente. Vivevano solo per sfamarsi e per coprirsi. Per P. valevano meno di semplici animali, anzi erano peggiori, perché avevano un enorme potenziale da sfruttare, ma non lo sfruttavano. Vivevano alla stregua di cani randagi, che pur di mangiare si fanno bastonare.
Le scimmie erano uno dei suoi pensieri preferiti, si fa per dire. Ci rifletteva spesso perché temeva di entrare a far parte delle loro schiere, aveva paura di finire a lavorare in una catena di montaggio eccetera eccetera. Quella mattina in particolare non poteva fare a meno di pensare a loro e di temere il loro stile di vita.
Cosa avrebbe fatto se il suo titolo non gli fosse stato utile a trovare lavoro? Sarebbe forse finito come le scimmie che tanto odiava? Probabilmente sì, probabilmente nessuno sarebbe stato disposto ad offrirgli un posto adeguato alle sue capacità intellettive ed avrebbe dovuto iniziare a lavorare, a faticare, a guadagnarsi il denaro con il sudore della fronte - quel pensiero lo opprimeva.
Il solo riflettere su queste cose lo faceva sentire speciale, diverso da tutta quella massa informe di scimmie schiavizzate. Lui non poteva ridursi al loro stato, lui sapeva che c'era altro per lui, che il mondo poteva offrirgli qualcosa di migliore. Però, forse il mondo non gli offriva niente ed era lui che doveva conquistare qualcosa. Ma come avrebbe fatto? Ancora non lo sapeva. Vedeva gli altri per quello che erano, ma non sapeva come distinguersi da loro, come arrivare ad un livello virtualmente più elevato di quello in cui aveva collocato la massa.
La mattina di quel 3 febbraio di certo non veniva in suo soccorso: pioveva così tanto che nonostante fossero le 9 sembrava ancora notte. Guardava fuori dalla finestra la pioggia cadere e ogni tanto notava qualche passerotto bagnato tentare di ripararsi sotto un ramo. Anche lui un po' si sentiva come quel volatile, solo in mezzo a un diluvio, senza un rifugio sicuro. Il rifugio più sicuro per lui era la sua attuale condizione di studente, lo proteggeva. L'essere uno studente era per lui come un vaccino che lo rendeva immune dal diventare una scimmia. Purtroppo quel vaccino sarebbe scaduto come la sua iscrizione all'università. Avrebbe dovuto iscriversi nuovamente, e continuare gli studi anche dopo avere ottenuto il titolo. Ma anche in quel caso, cosa avrebbe fatto? Non si prospettava una carriera universitaria tanto felice, non c'erano programmi adatti alle sue aspirazioni. Molto probabilmente sarebbe andato in una nuova università ed avrebbe seguito un nuovo corso di studi senza alcun interesse, e la cosa avrebbe accentuato il suo senso di superiorità. Si sarebbe sentito ancora più distante dal mondo che solo lui era in grado di vedere con occhi obiettivi.
Questa sua catena di pensieri fu interrotta dal coinquilino.
"Che fai P.? Hai visto qualche bella ragazza fuori dalla finestra?"
Eccolo, il solito demente, pensava P.. "No, non stavo guardando niente in particolare."
"Peccato, magari avrei potuto convincerti ad uscire con noi stasera."
Come no, mi piacerebbe un sacco uscire con te e quegli ignorantoni dei tuoi amici. Ma va' un po' al diavolo, va'! "Ah, non credo che ci riuscirai mai!"
"Un giorno ci riuscirò, stanne pur certo."
"Aspetta e spera." Ma che vuole ancora, perché non se ne va? "Ma oggi non avevi un esame?"
"Che c'è ti sei stancato delle mie domande? Sì, ma è stato spostato a questo pomeriggio, il professore ha avuto un contrattempo."
Come se me ne importasse! "Ah, capisco." È meglio se vado via io, allora. Non mi va di stare con mister simpatia tutta la mattinata". "T., io esco, vado a studiare un po' in biblioteca."
"Benissimo! Ci verrò anche io, mi farà bene ripassare un po'. Non ti scoccia, vero?"
"No, no, fa' pure..." Ci mancava solo lui oggi.

Un disoccupato del nostro tempoWhere stories live. Discover now