Dall'altra parte

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Il mio nome è Melissa. Sono nata il 18 gennaio del 2003. Alle 16:47 del 21 gennaio 2019 sono morta. La mia storia inizia dall'ultimo istante della mia vita.

Non ho mai avuto paura di morire. La morte è un atto del tutto naturale. Fa parte del normale ciclo della vita. Tutto quello che dicono sulla morte è falso. Non ho visto tutta la vita passarmi davanti agli occhi. Non ho sentito profumo di limoni. Non ho visto alcuna luce. Non ho udito suono di campane né visto angeli pronti a prendermi per mano. Dicono che l'anima umana pesi 21 grammi. Mi domando, guardando il mio corpo steso in terra privo di vita, sé realmente li abbia persi.

È stato questione di pochi istanti e improvvisamente mi sono ritrovata a fissare me stessa distesa sul pavimento della mia camera da letto. Osservandomi al suolo, in una posa alquanto sgraziata, non ho potuto fare a meno di constatare con stupore una serie di piccoli difetti che non avevo mai notato prima. Ad esempio, la curiosa forma dei lobi delle mie orecchie. Oppure, l'insolito aspetto che assumono i miei gomiti quando ho le braccia distese. Anche le dita dei miei piedi sono decisamente poco eleganti, sembrano escrescenze deformate. Ho sempre pensato di essere imperfetta, ma non credevo fino a questo punto.

D'un tratto odo il rumore della chiave che gira nel chiavistello della porta di casa. Si tratta di mia madre e di mia sorella maggiore Chiara, rincasate dopo la solita routine pomeridiana che prevede due ore in palestra e una di pettegolezzi al bar. Mia madre, una volta in casa, si dedica come un automa a una serie di attività, quali posare borsa e cappotto nell'armadio dell'ingresso, tirare fuori dal freezer la pietanza di turno, mettere i croccantini al gatto e lamentarsi del disordine in cucina. Totalmente differenti sono le azioni di mia sorella, il cui primo pensiero è rivolto a mettere in carica il suo preziosissimo smartphone. Si è diretta difatti, con passo svelto, verso la camera, che abbiamo condiviso da quando sono nata, con lo scopo di prendere il caricabatteria. Una volta entrata e accesa la luce però, le si è palesata di fronte la mia salma stesa sul pavimento in terracotta. Delle grida sovraumane hanno rotto quella apparente quiete.

La cosa che mi ha colpito maggiormente della reazione di mia sorella è stato il fatto che le è scivolato il cellulare dalla mano. Lei, che non si era separata da quella rettangolare scatolina tecnologica neanche quando a dodici anni si era operata di appendicite, adesso l'aveva fatta cadere senza prestarvi alcuna attenzione. Il telefono è rimasto steso in terra con lo schermo scheggiato a causa della caduta per tutta la serata.

Mia madre, sentendo quelle urla, è subito accorsa verso la stanza, domandando cosa stesse accadendo. Sicuramente il suo pensiero era rivolto ad un classico litigio tra sorelle. Giunta nella stanza tuttavia ha dovuto ricredersi. Anche lei ha iniziato a gridare e piangere.

A causa di quel incessante frastuono, i vicini si sono palesati sulla soglia di casa. Non si sarebbero mai privati del piacere di impicciarsi degli affari altrui.

Di lì a poco ha iniziato un incessante via vai di persone. Prima i carabinieri, poi l'ambulanza, in seguito svariati parenti e amici di famiglia e, infine, le pompe funebri. Tutti desiderosi di parlare con mia madre che, accomodatasi su una sedia in sala da pranzo, concedeva udienza come se fosse il Papa.

Mio padre, fuori casa per un viaggio di lavoro, è giunto solo la mattina dell'indomani. Avvisato dal nonno sull'accaduto, aveva preso immediatamente l'unico treno disponibile. Il suo primo pensiero, una volta entrato nell'appartamento, è stato rivolto a me. Dopo recite scolastiche mancate, saggi di danza a cui non aveva assistito, e un'altra serie gli eventi importanti della mia vita a cui non era mai potuto venire a causa del suo preziosissimo lavoro, finalmente adesso avevo tutta la sua inestimabili considerazione.

È rimasto immobile, seduto sul bordo del letto dove ero stata riposta, fissando il vuoto senza emettere un fiato. L'ho osservato con attenzione. Non ha versato neanche una lacrima. Dopo circa un'oretta di imperscrutabile oblio, è uscito dalla stanza alla ricerca di mia madre e di Chiara.

Non posso fare a meno di ascoltare l'incessante chiacchiericcio di tutte le persone che si aggirano nella casa in cui sono nata e ho sempre vissuto. Si susseguono una serie di frasi del tipo: «povera ragazza», «era così giovane...», «che tragedia!», «perché l'avrà fatto?», «soffriva di depressione». Fino a ieri mi avrebbero dato estremamente fastidio. Adesso invece, queste frasi non suscitano in me alcun sentimento. Ho sempre detestato i pettegolezzi e la gente che non si fa gli affari propri, ma ora tutto sembra aver perso di importanza. Il mio pensiero è rivolto alla giornata di domani, ovvero al mio funerale. Non riesco a fare a meno di pensare alla canzone di Enzo Jannacci "Vengo anch'io, no tu no!", quando a un certo punto dice: "si potrebbe andare tutti quanti al mio funerale, e vedere se la gente poi piange davvero". Chissà sé e chi piangerà veramente per me.

Nel giorno del mio funerale il sole risplende fiero nel cielo, come se fosse venuto a salutarmi anche lui. La messa è stata abbastanza noiosa. Non sono per niente d'accordo con la predica fatta dal parroco sull'importanza di amare la vita. Il colore della bara scelta dai miei genitori, un insipido marroncino chiaro, lo trovo decisamente bruttino. Anche la processione fino al cimitero è stata alquanto austera. Sembravano tutti distrutti da un dolore indescrivibile, come sé le loro esistenze dovesse cessare quel giorno. Perfino le compagne di classe che fino a due giorni prima mi avevano presa in giro, come ordinaria amministrazione, per i miei vestiti e il mio taglio di capelli, adesso si disperavano per la mia scomparsa. Forse il loro dolore è dovuto all'improvvisa perdita del loro preferito capro espiatorio.

Morire a sedici anni non è la più grande delle tragedie. Mi domando sé avrei potuto vivere meglio o più allungo. Ora che sono morta nulla sembra avere la stessa importanza di prima. Tutti sono fermamente convinti che io mi sia tolta la vita perché affetta da un'inspiegabile e costante depressione. I medici e i carabinieri hanno stabilito che la mia morte è stata voluta e causata dall'ingerimento di veleno. Essendo sempre stata una persona timida e riservata, abbastanza solitaria e poco incline a fare amicizia, la sentenza di un suicidio era il risultato più logico al quale si poteva giungere. Il mio carattere diametralmente opposta a Chiara, solare, socievole e gioiosa, è stato la mia condanna. Sé avessi avuto tanti amici come mia sorella, sé mi fosse piaciuto spettegolare al bar con mia madre, sé fossi stata amichevole con ogni singolo essere umano incontrato nella mia esistenza, forse tutti non sarebbe giunti a tale risultato. Ma in tal caso non sarei stata più io.

Nessuno infatti ha compreso che il veleno non l'ho ingerito volutamente. Mia madre aveva riposto dentro lo stanzino, all'interno di una bottiglia di succo di frutta al mirtillo, del veleno per animali. Non ricordo se mi avesse avvisata di questo travaso. Avrei dovuto prestare più attenzione quando mi parlava. Convinta che si trattasse di semplice succo di frutta, l'ho bevuto senza prestarvi attenzione. Sentito l'enorme sgradevole sapore, ho tentato di sputare ciò che restava nella mia bocca di quella orribile sostanza. Ma essendo adesso morta immagino di non esservi riuscita.

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