Luca

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«Come sono andati gli allenamenti?»

Non lo guardo in faccia, fingo di mangiare e mi stringo nelle spalle. «Bene. Come al solito.»

Posso quasi sentire sulla mia pelle il suo sorriso soddisfatto. «Bene», calca. «Domenica mattina giocate in casa?»

Deglutisco. «No, a Sora.»

Lui sbuffa. «Che rottura di coglioni.»

«Già», mormoro, riempiendomi il bicchiere, e continuo a tenere gli occhi distanti dai suoi. «Il Sora è primo in classifica.»

Capisco di aver detto la cosa sbagliata quando la sua mano sbatte sul tavolo. Cazzo. Stringo le dita attorno al bicchiere, per impormi di non sobbalzare e mostrargli il mio spavento. Potrei peggiorare la situazione.

«Che cazzo vuol dire? Che perderete?»

Mi inumidisco le labbra. Mi obbligo a non tremare. «No. Ma sono molto forti, quindi sarà una partita difficile.»

È uno scatto e la mano di mio padre mi stringe il mento, me lo solleva fino a imporsi nei miei occhi, fatti della stessa sostanza dei suoi. Rafforza la presa, con l'intento di farmi male, e io quasi digrigno i denti. Si avvicina al mio viso, la punta del naso tocca il mio.

«Tu non perderai, Luca. E sai perché? Perché noi Diamante non siamo dei perdenti. Noi siamo dei vincenti, i migliori. I cazzo di perdenti non li accettiamo», mi ringhia in faccia. «Sono stato chiaro?»

Annuisco frettolosamente, per non farlo incazzare ancora di più, e gli dico che ho capito anche a parole. Solo dopo pochi secondi lui lascia la presa e io posso tornare a respirare normalmente, sicuro di avere il mento arrossato e il segno delle sue dita impresso. Fottuto stronzo.

«Vai a prendermi un'altra birra», ordina, scocciato.

Eseguo e zitto. Gli prendo la sua stupida Nastro Azzurro, gliela stappo con la forchetta e gliela poggio davanti. Dopo inizio a sparecchiare, mentre lui si alza e va a stendersi sul divano. Lavo i piatti, asciugo, pulisco i fornelli e sospiro. Ogni giorno la stessa storia.

Rimango ad aspettare, nascosto in cucina come un rifugiato, finché non sento le voci provenire dalla televisione venire coperte dal suo insopportabile russare.

Sono libero.

Corro nella mia stanza, dove mi cambio le scarpe e indosso una felpa nera con il cappuccio. Chiudo a chiave la porta, spalanco la finestra e mi calo giù.

Come da programma, Christian è già qui ad attendere; Andrea è in auto in fondo al viale e Jennifer la notte resta a casa, perché i suoi genitori non la fanno uscire di sera durante la settimana e di certo non può calarsi dal quarto piano del palazzo in cui vive.

«Tutto okay?», mi domanda Chris, nascondendo tacitamente il vero significato della sua domanda.

«Tutto okay», rispondo.

Oggi no, vuol dire.

Lui mi batte una mano sulla spalla, sorridendo dolcemente, e ci incamminiamo per raggiungere Andrea.

Christian è la parte più importante della mia vita; lui c'è stato in ogni momento, a ogni livido, ogni schiaffo e si è preso cura di me quando nessuno voleva farlo, quando nemmeno io ne ero capace. Lui è la mia famiglia. Tutto quello che ho, oltre Jennifer e Andrea.

«Che hai detto a Giulia, ieri? In cucina intendo», dice d'un tratto, fermandomi qualche passo prima di raggiungere la Panda nera.

Deglutisco, avvertendo i miei muscoli tendersi e lo stomaco aggrovigliarsi dolorosamente. 'Fanculo quella ragazzina. Sbava dietro Christian dal primo giorno in cui l'ha visto.

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