Prova Ingresso- Traccia 4

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Nome, Alaska.

Maggio '29.

Il ragazzo non guardava nessuno. Restava fermo, immobile, fissando il vuoto.
Assente.
Giaccone pesante chiazzato di rosso chiuso fino alla gola, guanti imbottiti bucati sulla punta delle dita, stivali incrostati di ghiaccio alti fino al ginocchio.
Era quasi anonimo, pelle pallida, occhi scuri, zigomi sottili, mento rotondo, fronte sfuggente, naso storto. Solo i capelli restavano impressi nella memoria. Neri come carbone, portati a ciocche spesse striate di rosso e bianco sulle punte.
Un uomo normale, insospettabile.

«Chi sei? Lo ricordi?» chiese il capitano.
Il ragazzo non si voltò a guardare l'agente, ma rispose con voce afona. «Mi chiamo Shay Cormac, nato da qualche parte nel Nebraska, trasferito in Alaska all'età di due anni. Non ho mai conosciuto mio padre, mia madre si chiama Chantal Ackermann, risposata e vedova da poco. Faceva la spogliarellista in qualche strip club giù a sud, ora fa la cassiera al negozio di alimentari. Lavoravo come musher, mi stavo preparando per l'Iditarod dell'anno prossimo. La mia prima edizione dell'Iditarod.»
«Dicci qualcos'altro, Shay. Cosa stavi facendo due giorni fa? Ti stavi allenando?»
«Due giorni fa?» mormorò aggrottando la fronte. «Due giorni fa ... sì, sì probabilmente mi stavo allenando lungo la spiaggia. Ma non la sera. No, la sera no. Era la prima notte bianca dell'anno. Sapete come vanno queste cose, no? Fiumi di birra per tutta la notte, falò ardenti e corse con le slitte intorno al villaggio fino all'alba. Matt non c'era. Lui non veniva mai alle feste.»
Guardò il suo compagno e annuì. Il ragazzo aveva citato il ragazzo morto di sua spontanea volontà.
Lo conosceva. Potevano procedere.
«E Matt Petrikoff? Come lo conoscevi, Shay?» chiese in modo rassicurante il collega in divisa.
«Matt ...» Se possibile, la sua espressione divenne ancora più vuota, ma il ragazzo parlò lo stesso, lento. «Matt ... era il mio migliore amico da quando avevo tre anni. Non ricordo nemmeno come siamo diventati amici, di punto in bianco le nostre vite si sono intrecciate.» «Eravate molto legati, quindi.»
«Era più di un fratello, per me. Lo amavo più della mia stessa vita. Avrei fatto di tutto per lui.» la voce del giovane aveva preso una sfumatura più calda, come se la mente del giovane stesse finalmente riemergendo dall'apatia.
«Sarai rimasto molto scosso alla notizia della sua morte» mormorò dolcemente.
«Era una parte di me. La migliore parte di me. Ed era il mio allenatore. Mio e della mia muta. Balto, Genna,Kike,Zanna,Aurora,Tormenta, Borea, Fiamma,Sirio. La mia muta. La mia bellissima muta.» Si interruppe, serrando le palpebre. Poi il ragazzo si sporse verso il poliziotto, mormorando con sguardo febbrile «Almeno finché le orche non l'hanno divorata.»
«Orche?» il suo collega lo guardò stranito.
«Orche, sì. Quelle bellissime creature del mare, i lupi degli abissi.»
Una luce sinistra brillava negli occhi nocciola del giovane Shay, mentre annuiva esaltato.
La situazione stava decisamente sfuggendo di mano. Intervenne deciso, cercando di riportare il discorso sul binario che gli serviva. La morte del giovane Petrikoff.
«Ok. Orche. Animali bellissimi. Hai ragione. Ma ora, mi piacerebbe sapere cos'è successo a Matt.»
Gli occhi del moro tornarono spenti, cupi.
«Non è successo niente con Matt. Sono solo andato a trovarlo, come faccio di solito. Non l'avrei mai ucciso, lo giuro. Sarebbe come strapparmi un braccio.» il giovane si agitò, a disagio. «Io non ho mai detto che tu l'avessi ucciso, Shay. Voglio solo capire cos'è successo»
Shay Cormac rimase spiazzato. Il suo volto divenne una maschera di sale. «Non lo so. Ricordo solo di essere andato a trovarlo. Avevo freddo, tanto freddo.» Shay Cormac si strinse ancora di più nel giaccone sporco, scosso da brividi nonostante il riscaldamento acceso. «Sentivo un freddo gelido avvolgersi intorno alla colonna vertebrale, tentacoli brucianti che seguivano il sangue nella sua corsa forsennata. Se lo avessero raggiunto, sarei morto. Me lo sentivo nella pancia, nel profondo della mia anima.»
I due rappresentanti delle forze dell'ordine si scambiarono occhiate preoccupate. Il giovane Shay sembrava in preda ad un ansia divorante, come se sentisse qualcosa che lo inseguiva.
«La neve brillava come le anime del Paradiso, mi accecava. E avevo fame. Tanta, tanta fame. Matt era così appetitoso, così vicino. Il rombo del suo sangue era una traccia salata, succulenta come una bistecca alla brace, quasi ne avvertivo il sapore mentre mi accarezzava voluttuosamente il palato. Il profumo di cuoio e nylon dei suoi abiti era denso come una nube e altrettanto inconsistente, non bastava a mascherare il sangue. Sentivo il suo respiro tranquillo fluire dai suoi polmoni, riversandosi fuori dalla bocca con un fischio basso e sottile, una fiumana di calore bollente. Era troppo invitante per resistere. Appena aprì la porta, mi scagliai contro di lui. Lo morsi alla gola, squarciandoli la carotide e sentendo il sangue caldo zampillarmi tra le fauci. Quale delizia, quale ristoro dopo il freddo. Avrei continuato a berlo finché non avessi sentito il suo cuore fermarsi. Sarebbe morto tra le mie braccia, non riverso nella neve. Ma non potevo. Ho dovuto farlo. Ho dovuto! La mia Signora mi avrebbe punito se mi fossi rifiutato di offrirle il suo cuore. Di offrirle l'ultimo legame che mi legava al'umanità. Ho dovuto strapparglielo dal petto e sprofondarlo nella neve. Ho dovuto! Piantai la mano nel petto del mio migliore amico, accarezzandoli il cuore, sentendolo scalciare tra le mie dita. Avrei dovuto stringerlo fino a fermarlo, ma alla Signora piacciono ancora pulsanti. Lo strappai di colpo, rosso e compatto come una caramella gommosa alla ciliegia. E lo offersi in dono alla mia splendida e terribile Signora.»
Il Capitano era scioccato; Shay Cormac stava confessando l'omicidio del suo migliore amico come se fosse un film horror di terza categoria e lui fosse l'assassino. E ne era convinto. Non c'era traccia di dubbio, di menzogna nei suoi occhi allucinati. In fondo a quegli occhi splendeva una luce folle, feroce. Il volto del moro fu percorso da uno spasmo.
«Troppi rumori, troppi rumori!» Il ragazzo passò dall'immobilità assoluta a dimenarsi sul pavimento tenendosi la testa tra le mani, disperato. «Non senti la corrente che ronza rabbiosa nei cavi? Il vapore che fischia irato nei tubi? Li senti i latrati dei cani? Li senti come rimbombano? Valanghe, valanghe nella mia testa!» si mise in ginocchio, le pupille dilatate a divorare l'iride.«I battiti! I battiti del cuore! Pulsano, riverberano, rimbalzano!» si tirò in piedi, barcollando.«Il cuore, il cuore si è trasformato! Non più motore di vita, non più! Solo uno scacciapensieri fradicio, solo questo. Tump. Flushh. Tump. Flushh. Ogni battito riverbera sordo nel mio petto, Tump. Flushh. Tump. Flushh. È ossessionante, martellante, spaventoso, stupendo!» il giovane prese a percuotersi il petto, prima di smettere e fissare i due poliziotti. I capelli spettinati cadevano scomposti davanti agli occhi, lucidi come se il giovane fosse in preda alla febbre, un sorriso folle a deturpargli il volto.
«È come il canto di caccia delle orche. È così, vi assicuro. Un suono che risveglia le vostre paure più ancestrali, che fa vibrare le corde più nascoste delle vostre dolci, luminose anime. Una melodia di sangue e violenza, di gelida astuzia e rovente ferocia. Le orche! Le orche! Corpi lucidi che nuotano veloci nelle acqua profonde,fedeli segugi ai miei ordini, uno spettacolo selvaggio, sconosciuto per i vostri occhi umani. Misteriosi per voi, ma non per me. Per me, è una vista famigliare come i miei artigli.» rise sguaiato, alzando il braccio sinistro e indicandoli con due dita serrate insieme.
"Artigli? Il ragazzo è un minorato mentale, un folle. Và internato, immediatamente. Ma prima ... prima devo calmarlo"
«Tu non hai artigli. Gli esseri umani non hanno artigli. Guarda, guarda la mia mano.» l'agente tese cautamente la sua mano da uomo d'arme, calli sulle nocche e dita lunghe.
«Vedi? Niente artigli. Guarda la tua. Togliti un guanto. Avanti. Vedrai che non avrai artigli ma semplici unghie.» «No. No! Voi, voi non avete artigli. Io sì. Io ho artigli ferali scuri come notte e letali come il gelo. Affilate lame adunche di falco, capaci di strappare e trattenere voi, morbide creature di sangue e polvere, bocconcini prelibati per me e la mia Signora. Le vostre mani sono ricoperte di pelle rosea e delicata, deboli e inutili. Le mie sono adornate da folte piume nere come le profondità oceaniche, e la pelle è blu e squamosa come quella del Leviatano, spessa e invulnerabile. Le vostre hanno cinque dita, le mie solamente tre, come i grandi gufi della steppa» .
"Nessun dubbio, ormai. Il ragazzo và messo in sicurezza, è fuori di sé, ha bisogno di un aiuto valido. Uno psicologo, uno psichiatra, qualcosa del genere." Una strisciante inquietudine si attorcigliò intorno alle vertebre del poliziotto. Forse era qualcosa al di là delle loro possibilità, forse dovevano chiamare rinforzi.
Shay Cormac si sfilò un guanto imbottito, con rabbia, strappandoselo di dosso e gettandolo via, lontano da sé.
«Ammirate, sciocchi umani! Ammirate le superbe armi di un predatore al vertice della catena alimentare!»
Guardarono. Guardarono la mano nuda del giovane. Una mano chiaramente, inequivocabilmente, umana. Rosea, solcata dal reticolo in rilievo di vene e capillari, le dita corte, tozze, terminanti in unghie rotte contornate da pellicine rosicchiate a sangue. Normale, assolutamente normale. Una solita, comune mano. Cinque dita, non tre. Pelle rosa e cheratina inoffensiva. Niente piume nere, pelle blu, artigli acuminati.
Nient'altro. Nient'altro.
Il giovane si pose la mano davanti al naso, come a volerla scrutare meglio. Il volto fu trasfigurato dalla rabbia incredula di un lupo in trappola.
«No! No! Dove sono le mie regali armi? Dove le punte aguzze che hanno strappato il cuore di Matt Petrikoff? Dove?! Mia signora! Ti offersi il cuore ancora pulsante dell'insulso umano che questo corpo amava, perché mi hai abbandonato? » urlò selvaggiamente il ragazzo.
I due agenti si scambiarono un'occhiata d'intesa. Shay Cormac era indubbiamente pazzo, ma aveva appena ribadito di aver ucciso il giovane Petrikoff.
Con una conoscenza di dettagli tale da non lasciare dubbi sulla veridicità dell'azione. Certamente la sua visione distorta aveva modificato il modo in cui l'aveva ucciso, ma era lui l'assassino.
Doveva essere imprigionato.
Subito. Prima che uccidesse ancora. Avanzarono cautamente ai fianchi del giovane, cercando di circondarlo e renderlo inoffensivo.
«Mia Signora! Mia Signora! Cosa succede? Perché non sei al mio fianco? Dove sono le mie vere sembianze?» Shay Cormac urlava al soffitto, le braccia aperte, le mani distese come un bimbo a chiedere di essere preso in braccio. Girava in tondo, senza prestare alcuna attenzione al mondo che lo circondava, fuori di sé e perso nella sua follia.
I due uomini, entrambi alti e robusti, riuscirono facilmente ad avere ragione della difesa incredula del giovane smilzo. Le braccia bloccate, Shay Cormac gettò la testa all'indietro, i suoi stravaganti capelli a frustare le spalle, prima di urlare verso il cielo versi grotteschi, disarticolati.
Lo spinsero in ginocchio, ammanettandolo. Shay invocò ancora, le vene del collo turgide e sporgenti, la bava che volava dalla bocca
«Regina delle Tempeste Ghiacciate! Sublime Signora del Nord, fredda come la neve, asciutta come una lama, solleva il tuo umile servo con possenti ali bianche di civetta, portalo tra le nubi cariche di grandine del tuo regno! Strappa la vita da questi miseri esseri che minacciano il tuo servo! Artigli possenti e crudeli come quelli di un orso bianco adornano le tue livide mani, lamenti di soave agonia fuoriescono dalle tue delicate labbra nere. Rendi il tuo umile servo al suo palazzo incastonato nelle gelide profondità marine, alle colonne di tormalina e granito nero come il peccato, ai giardini di kelp della stessa sfumatura verdastra dei cadaveri, alle colonne di zolfo e acqua bollente che si innalzano fino alla superficie generando gorghi letali, terrore dei naviganti. Riportami nel mio regno, lontano dalla terra ferma, nel gelo liquido dei tuoi domini! Liberami da questo involucro, libera il Dominatore dell'Abisso da questo debole corpo umano!»
All'invocazione del pazzo seguì un istante di silenzio.
Poi, il pavimento prese a tremare, oscillare, rollare come il ponte di una nave travolta dai marosi. Note oscure risuonarono dentro il cranio degli agenti, così struggenti da farli lacrimare come neonati. Gocce di luce azzurre come ghiaccio esplodevano nelle profondità delle loro anime, lacerandole. Troppo, troppo! La testa esplodeva ogni istante, un cerchio di filo spinato intorno alle tempie era l'unica cosa che impediva ai frammenti della psiche di disperdersi in un freddo vuoto.
Quello che stringevano per le braccia era Shay Cormac, figlio di nessuno, pazzo ed assassino ed era qualcos'altro. Qualcosa di potente, oscuro, sanguigno. Qualcosa che stava risucchiando il calore dai loro corpi, dalla stanza, che li stava strappando da loro stessi e da ciò che li circondava.
Il corpo del ragazzo crebbe, crebbe, crebbe. Li sovrastò di un palmo, poi di due, poi di tutta la testa. Una sagoma scura si dibatteva sotto la pelle di Shay, divenuta trasparente come vetro, il reticolo di vene e arterie come solchi di fuoco nella notte. La pelle si spaccò di colpo. Sulle braccia, sulle spalle, sulle gambe, sulla gola pulsante. Dagli squarci, piume nere di corvo emerso umide di sangue, arruffate e lucenti. Spuntoni di osso spessi e acuminati bucarono le ossa del cranio e degli omeri, creando creste e corone di un bianco bruciante. Ali membranose, simili a pinne di tonno, eruppero dalle scapole, gettando gli agenti a terra, squarciando i loro visi, intingendosi del loro sangue. Le labbra sottili del ragazzo divennero blu prima che l'intera bocca si allargasse in un ghigno satanico di zanne acuminate come scalpelli e lingua biforcuta di serpe. Quelle fauci furono l'ultima cosa che vide.

E l'ultima cosa che pensò fu:

"Shay Cormac non è pazzo.

Semplicemente,

non è umano."

Spazio Autore:  @Chrysalism_Agape_, @EllaSnufkin,@MiaRomi,@FedeWrite_

(2261 parole)



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