Le pecore non sono mai sole

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Il sole tramontava lento dietro le cime della Maiella, sprofondando la valle nelle ombre della notte.
Il profumo di erba montana, pietra riscaldata dal sole e pecora, quasi copriva il sentore di iodio che veniva dall'Adriatico, trasportato su alle cime da una lieve brezza simile al sospiro di un gigante.
Il gregge stava brucando gli ultimi ciuffi prima del riposo notturno, una marea bianca che ricopriva il pascolo in quota, ancora immerso in lame di luce che chiazzavano di rosa le schiene lanose.

Stefano alzò la reflex e scattò rapidamente una serie di foto a quello spettacolo che sembrava appena uscito da un quadro dell'ottocento. Sarebbe venuto un bel servizio, indubbiamente. Quei paesaggi e quella luce erano il sogno di ogni fotografo, oltre ad essere un'esperienza unica. Stefano sorrise e si passò una mano tra i corti capelli castani, lasciando la macchina fotografica penzoloni a tracolla.
Con un latrato Laika gli corse incontro, scodinzolando e ficcando il muso sotto la mano in cerca di coccole. Stefano le diede un grattino dietro le orecchie scure, incontrandone lo sguardo luminoso e franco. Laika era una femmina di quattro anni di pastore belga Malinois che teneva il gregge compatto durante il pascolo e gli spostamenti, la prima, dei cinque cani che accompagnavano il gregge, ad averlo accettato. Le aveva scattato centinaia di foto che catturavano la sua essenza dinamica e giocosa, immortalandola mentre guizzava come una folgore intorno alle pecore, veloce e ubbidiente. Ma ancora non era soddisfatto del risultato.
Con un latrato Laika si sottrasse alle carezze e riprese il suo instancabile operato di custode.
Mentre la cagna correva via verso un gruppetto di pecore che si stava allontanando, Stefano sentì la voce di Nataniele risuonare tra i campanacci. Avanzando tranquillamente tra le pecore, si mosse verso il suo amico, scattando qualche foto ai giochi di luce creati dalla Maiella.

Avrebbe trascorso quasi un mese in viaggio con Nataniele lungo le antiche vie della transumanza, i Tratturi, percorrendo a piedi 244 km, da Foggia a L'Aquila, sfidando i suoi stessi limiti, con solo il quieto belato delle pecore e i latrati dei cani come compagnia, per documentare quell'antica tradizione che lo stesso D'Annunzio aveva omaggiato in una delle sue poesie e che ancora sopravviveva nonostante l'avvento dei mezzi meccanici.

E chissà, magari avrebbe acquietato i dubbi che lo tormentavano da un po'. Dicevano che la montagna era il posto perfetto per riflettere sulla vita e sentirsi più vicini al cielo e in effetti il cielo era sempre stato così limpido e vicino da sembrare che solo alzando la mano lo si potesse afferrare e tirare giù come se fosse un tendone celeste steso tra i picchi rocciosi e le colline dell'Appennino.
Il grosso montone cornuto di nome Varys trottò via davanti a Stefano, scuotendo il testone e avviandosi verso la parete rocciosa adibita a rimessa, immediatamente seguito da una decina di pecore con gli agnelli al seguito.
Varys era il montone castrato e addestrato quasi come un cane che guidava gli altri ovini durante gli spostamenti, il capofila praticamente, il cosiddetto "Manzir". Gli ultimi giorni avevano messo a dura prova l'intelligenza ovina di Varys e Stefano ne era rimasto veramente colpito.
Avevano viaggiato bene fino a Vasto, ma poi il Tratturo Regio, come veniva chiamato, era stato interdetto per colpa di una frana che aveva cancellato il sentiero, costringendoli a deviare dal solito percorso. Il loro viaggio si era allungato, avevano speso due giorni solo per superare la frana, prima dirigendosi verso il mare e poi risalendo le colline per tornare sul tracciato, accampandosi più volte alle pendici della Maiella.

«Ohè Stefano! Vieni, vieni che sto facendo il formaggio. Volevi vedere come si fa,no? Dai sbrigati!» La voce potente di Nataniele, detto Nele, era inconfondibile. Una voce con un timbro da baritono, scura e potente, si spandeva sui pascoli più forte dei belati e dei latrati rassicurando le pecore e guidando i cani con precisione, sempre pacata e dignitosa. Stefano si avvicinò al fuoco che Nele aveva acceso, accanto a dei macigni più o meno lisci.
Sedendosi su un'altra pietra, chiese abbastanza perplesso: «Ma non dovevi fare il formaggio solo tra un paio di giorni?» A Nele non piaceva cambiare i piani. Sosteneva che la natura stessa della pastorizia richiedeva costanza. Le pecore dovevano essere portate a pascolare alla stessa ora, munte alla stessa ora e ricoverate alla stessa ora ogni giorno, precisi come l'alternarsi delle stagioni.
«Sì dovevo, ma siamo rimasti troppo tempo qui e ho dovuto mungere le pecore al volo. Non hai sentito come si lamentavano? Belavano da spezzare il cuore. Ed è meglio portarsi dietro delle formaggelle che secchi di latte, no? Meno faticoso per me e per Biagio.» sorrise Nele attraverso la spessa barba crespa, una barba che in città sarebbe stata facilmente considerata una "barba hipster" ma che lì tra gli Appennini sembrava più che appropriata, una medaglia d'onore e un segno di appartenenza conferito dalla roccia stessa.

Concorso Perle d'Inchiostro- Raccolta Di OsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora