Tidèo gli uccise
tutti, ed un solo per voler de' numi,
il sol Meone rimandonne a Tebe.
Tal fu l'etòlo eroe, padre di prole
miglior di lingua, ma minor di fatti.
Non rispose all'acerbo il valoroso
Tidìde, e rispettò del venerando
rege il rabbuffo; ma rispose il figlio
del chiaro Capanèo, dicendo: Atride,
non mentir quando t'è palese il vero.
Migliori assai de' nostri padri a dritto
noi ci vantiam. Noi Tebe e le sue sette
porte espugnammo: e nondimen più scarsi
eran gli armati che guidammo al sacro
muro di Marte, ne' divini auspìci
fidando e in Giove. Per l'opposto quelli
peccâr d'insano ardire e vi periro.
Non pormi adunque in onor pari i padri.
Gli volse un guardo di traverso il forte
Tidìde, e ripigliò: T'accheta, amico,
ed obbedisci al mio parlar. Non io,
se il re supremo Agamennóne istiga
alla pugna gli Achei, non io lo biasmo.
Fia sua la gloria, se, domati i Teucri,
noi la sacra cittade espugneremo,
e suo, se spenti noi cadremo, il lutto.
Dunque a dar prove di valor si pensi.
Disse, e armato balzò dal cocchio in terra.
Orrendamente risonâr sul petto
l'armi al re concitato, a tal che preso
n'avrìa spavento ogni più fermo core.
Siccome quando al risonante lido,
di Ponente al soffiar, l'uno sull'altro
del mar si spinge il flutto; e prima in alto
gonfiasi, e poscia su la sponda rotto
orribilmente freme, e intorno agli erti
scogli s'arriccia, li sormonta, e in larghi
sprazzi diffonde la canuta spuma:
incessanti così l'una su l'altra
movon l'achee falangi alla battaglia
sotto il suo duce ognuna; e sì gran turba
marcia sì cheta, che di voce priva
la diresti al vederla; e riverenza
era de' duci quel silenzio; e l'armi
di varia guisa, di che gìan vestiti
tutti in ischiera, li cingean di lampi.
Ma simiglianti i Teucri a numeroso
gregge che dentro il pecoril di ricco
padron, nell'ora che si spreme il latte,
s'ammucchiano, e al belar de' cari agnelli
rispondono belando alla dirotta;
così per l'ampio esercito un confuso
mettean schiamazzo i Teucri, ché non uno
era di tutti il grido né la voce,
ma di lingue un mistìo, sendo una gente
da più parti raccolta. A questi Marte,
a quei Minerva è sprone, e quinci e quindi
lo Spavento e la Fuga, e del crudele
Marte suora e compagna la Contesa
insazïabilmente furibonda,
che da principio piccola si leva,
poi mette il capo tra le stelle, e immensa
passeggia su la terra. Essa per mezzo
alle turbe scorrendo, e de' mortali
addoppiando gli affanni, in ambedue
le bande sparse una rabbiosa lite.
Poiché l'un campo e l'altro in un sol luogo
convenne, e si scontrâr l'aste e gli scudi,
e il furor de' guerrieri, scintillanti
ne' risonanti usberghi, e delle colme
targhe già il cozzo si sentìa, levossi
un orrendo tumulto. Iva confuso
col gemer degli uccisi il vanto e il grido
degli uccisori, e il suol sangue correa.
Qual due torrenti che di largo sbocco
devolvonsi dai monti, e nella valle
per lo concavo sen d'una vorago
confondono le gonfie onde veloci:
n'ode il fragor da lungi in cima al balzo
l'atterrito pastor: tal dai commisti
eserciti sorgea fracasso e tema.
Primo Antiloco uccise un valoroso
Teucro, alle mani nelle prime file,
il Taliside Echèpolo, il ferendo
nel cono del chiomato elmo: s'infisse
la ferrea punta nella fronte, e l'osso
trapanò: s'abbuiâr gli occhi al meschino,
che strepitoso cadde come torre.
Ghermì pe' piedi quel caduto il prence
de' magnanimi Abanti Elefenorre
figliuol di Calcodonte, e desïoso
di spogliarlo dell'armi, lo traea
fuor della mischia: ma fallì la brama;
ché mentre il morto ei dietro si strascina,
Agenore il sorprende, e a lui che curvo
offrìa nudati di pavese i fianchi,
tale un colpo assestò, che gli disciolse
le forze, e l'alma abbandonollo. Allora
tra i Troiani e gli Achei surse una fiera
zuffa sovr'esso: s'affrontâr quai lupi,
e in mutua strage si metteano a morte.
Qui fu che Aiace Telamonio il figlio
d'Antemion percosse il giovinetto
Simoesio, cui scesa dall'Idee
cime la madre partorì sul margo
del Simoenta, un giorno ivi venuta
co' genitori a visitar la greggia;
e Simoesio lo nomâr dal fiume.
Misero! Ché dei presi in educarlo
dolci pensieri ai genitor diletti
rendere il merto non poteo: la lancia
d'Aiace il colse, e il viver suo fe' breve.
Al primo scontro lo colpì nel petto
su la destra mammella, e la ferrata
punta pel tergo riuscir gli fece.
Cadde il garzone nella polve a guisa
di liscio pioppo su la sponda nato
d'acquidosa palude: a lui de' rami
già la pompa crescea, quando repente
colla fulgida scure lo recise
artefice di carri, e inaridire
lungo la riva lo lasciò del fiume,
onde poscia foggiarne di bel cocchio
le volubili rote: così giacque
l'Antemide trafitto Simoesio,
e tale dispogliollo il grande Aiace.