«C'è qualcuno?»
La voce le uscì incerta e sottile, in qualche modo le sembrò estranea.
Un nodo d'ansia le chiudeva la gola.
«Sì» mormorò una voce.
Rose sussultò di sorpresa, perché non aspettava nessuna voce in risposta. La sua stanza era immersa nell'aria soffocante e scura delle notti d'estate, quando fa troppo caldo per riuscire a dormire e le stelle brillano chiare attraverso la finestra spalancata. Rose aveva sedici anni. I suoi lunghi capelli erano ricci e scuri, e gli occhi, di un azzurro pallido come il cielo d'inverno, incorniciati dalle ciglia nere e dalle sopracciglia allungate, avevano il fastidioso potere di mettere a disagio la gente.
Tutti dicevano che Monica, sua sorella, fosse la sua copia identica. Ciò che non aggiungevano era che Monica era la copia venuta meglio. Sembrava che la natura si fosse divertita a cercare di comporre, con gli stessi colori, le due tele più diverse possibili. Con Rose aveva fatto un pasticcio irregolare di capelli arruffati e un naso troppo lungo. A Monica invece aveva dato capelli naturalmente ondulati e lucenti, grandi occhi e lineamenti regolari, e le fossette. Più simpatica, più gentile, sorrideva molto spesso, sapeva sempre rispondere a tono e non prendeva niente troppo sul serio.
Abitavano con i genitori ed i nonni in una casa a tre piani, alta e stretta, in cui ogni cosa era rotta o in disordine o aveva bisogno di una ripulita. Rose da bambina la adorava. Da qualche anno aveva ottenuto il permesso di trasferirsi al terzo piano, nel sottotetto, in una piccola stanza asciutta e luminosa, che odorava di legno e vernice. Nell'angolo c'era un vecchio, ampio dondolo di legno, e lei l'aveva coperto con un materasso, cuscini e coperte; dormiva lì quasi ogni notte, mentre sul suo vero letto si accumulavano vestiti stropicciati, libri di scuola e incarti di plastica. La sera scivolava dentro al suo letto sospeso, si dava una leggera spinta e cullata dal dondolio si perdeva in mille pensieri, prima di sprofondare nel sonno.
Da qualche sera però faticava ad addormentarsi. Non appena si sdraiava le nasceva in petto un'agitazione inspiegabile, e a volte lacrime le nascevano agli angoli degli occhi, e le ore passavano lente, immerse in una malinconia viscosa.
Anche quella notte Rose aveva dormito male. Si era svegliata e addormentata a ripetizione, mentre sul quadrante luminoso della sveglia i minuti scivolavano via con una lentezza logorante.
Distesa a contare i secondi, in attesa di sprofondare finalmente nel sonno, le era sembrato di sentire un suono, un movimento quasi impercettibile.
La presenza di qualcun altro nella stanza.
«Chi sei?» chiese Rose in un sussurro.
Il cuore le batteva fortissimo contro lo sterno.
«Mi chiamano Asar»
Rose attese un istante.
Prese un respiro per darsi coraggio.
Poi la sua mano corse all'interruttore accanto al letto, e la stanza fu inondata dalla luce calda della lampada.
Rose fece vagare lo sguardo per la stanza. Non c'era nessuno. Tutto sembrava in ordine. Rimase in attesa per minuti, immobile e col cuore in gola, ma non sentì alcun suono.
«Sei ancora qui?»
«Sì.»
«Dove sei?»
«Per potermi vedere, devi prima chiudere gli occhi»
Trascorsero parecchi minuti in silenzio. Che voleva dire? Poi Rose fece come la voce chiedeva, vinta dalla curiosità.
Chiuse gli occhi.
Schiocchi di luce le danzarono davanti finché il suo campo visivo non ne fu invaso. Attraverso le palpebre chiuse, Rose vide; e fu come se vedesse per la prima volta. I colori della sua stanza erano così vivaci e brillanti da essere quasi fastidiosi. Nel cielo, stelle grandissime e candide che sembravano occhi fiammeggianti si spostavano lentamente in circolo.
Poi Rose vide il coniglio. Era enormemente grosso, dal pelo bianco, e stava raggomitolato sul suo petto. La fissava; i suoi occhietti neri scintillavano di intelligenza. I denti giallastri erano scoperti in una smorfia. Le zampe candide terminavano in unghie acuminate, curve e affilate come quelle dei gatti, e lunghe il doppio.
Rose spalancò gli occhi, inspirando bruscamente. Si guardò intorno in fretta. Tutto era tornato alla normalità, la sua stanza era di nuovo immersa nella penombra e le stelle erano piccole e bianche. Nessun coniglio. Allungò una mano sopra le coperte e incontrò qualcosa di soffice. Lo afferrò. Sentì le unghie dell'essere affondarle nel petto e graffiarla, mentre cercava di staccarselo di dosso senza poterlo vedere.
Udì un tonfo. Chiuse gli occhi e si alzò dal letto. Il coniglio era nell'angolo più lontano della stanza, sotto la finestra, riverso di lato. Una zampa posteriore gli tremava violentemente, scalciando nell'aria. C'era una donna china su di esso; aveva lunghi capelli bluastri che spazzavano terra e le coprivano il profilo del viso. Sollevò entrambe le mani sul coniglio e quello smise immediatamente di tremare. La superficie del suo corpo sembrò incresparsi e ribollire, fino a perdere forma e sciogliersi. Scivolò nella piega fra pavimento e muro e scomparve.
La donna si voltò nella sua direzione. I lunghissimi capelli le scendevano ai lati del viso minuto, interamente dominato dagli occhi, che erano grandi, dal taglio dolce, ma di un giallo intenso, dorato nella parte più vicina all'iride, simili a quelli di una bestia selvatica.
«Se n'è andato» disse la donna. Avanzò verso di lei, scivolando a mezz'aria nel suo abito bianco. Rose si ritrasse.
«Cosa sei?» le chiese con un filo di voce. «Faresti meglio a chiedere chi sono» disse la donna. «Mi chiamo Grace»
«Sei un fantasma?»
«Non proprio. Sono un terade.»
«E cos'è un...»
«E' piuttosto difficile da spiegare, e non c'è tempo. Ora vai a fasciare le ferite e cambiati gli abiti. Dobbiamo andare via. Subito.»
Rose aprì gli occhi e si guardò il petto, lì dove il coniglio l'aveva graffiata. La maglia era macchiata di sangue. Aprì l'armadio, afferrò dei vestiti alla rinfusa ed uscì dalla stanza. «Fai in fretta» la voce vicina di Grace, invisibile, la fece sobbalzare. Scese le scale. Chiuse gli occhi per controllare che il bagno fosse libero da nuovi fantasmi, ed incontrò la sua immagine nel grande specchio a parete. Aveva le palpebre abbassate, ed era strano guardare i propri movimenti ad occhi chiusi. Sembrava di osservare un'estranea che copiasse ogni suo gesto.
I graffi sul petto catturarono la sua attenzione.
Le unghie del coniglio avevano strappato la maglia, lasciando tre leggeri tagli verticali e sanguinanti. Il tessuto visto ad occhi chiusi, però, non era solo sporco di sangue: da esso colava anche un fluido denso e nerastro, dall'aria malsana e disgustosa. Rose riaprì gli occhi per non vederlo. Staccò a fatica la stoffa del pigiama, che si era appiccicata alla pelle, e si controllò i graffi. Le sembrarono piuttosto superficiali. Li disinfettò cercando di ignorare il bruciore finché non restò traccia del liquido scuro, e li coprì con delle garze.
Dalla finestra spalancata entrava una brezza tiepida. «Ricordati, è meglio non aprire gli occhi» disse Grace. Poi afferrò Rose sotto le braccia e la sollevò in aria. Rose si lasciò sfuggire un grido. Fluttuarono per un attimo all'interno della stanza, poi uscirono dalla finestra. Volarono per minuti attraverso il cielo carico di stelle e i tetti vermigli delle case addormentate. Dopo un tempo che sembrò eterno, Grace atterrò su una piccola barca che galleggiava dolcemente nell'aria.
«James, puoi partire!» gridò la donna. «Cerca di dormire» disse a Rose, mentre la barca salpava con un breve scrollone.
«Come faccio a dormire ˗ mormorò lei ˗ se quando chiudo gli occhi ci vedo comunque...» ma la vista le si annebbiò, e sprofondò nel sonno mentre ancora concludeva la frase.
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CHIUDI GLI OCCHI
Viễn tưởng«Dove sei?» «Per potermi vedere, devi prima chiudere gli occhi» Trascorsero parecchi minuti in silenzio. Che voleva dire? Poi Rose fece come la voce chiedeva, vinta dalla curiosità. Chiuse gli occhi. Schiocchi di luce le danzarono davanti finché il...