Si lasciò andare, stremato, sulla sedia dietro la scrivania. Allentò il nodo della cravatta, quanto bastava perché riprendesse a respirare regolarmente. La seta gli scorreva tra le dita e lo calmava. Sì, ne aveva bisogno. Chiuse gli occhi e provò a immaginare l'ufficio in cui era e in cui non sarebbe rimasto per molto. Quanto aveva sofferto lì dentro, quante volte aveva dovuto fare da mediatore dimenticando completamente se stesso. Eppure, molto in fondo, gli era piaciuto. Per una volta aveva una porzione di coltello dalla parte del manico, una fetta di potere da dividere con due bambini inetti. Era troppo orgoglioso per ammetterlo, ma gli sarebbe piaciuto rimanere ancora un po' in quell'ufficio. Però aveva già dato le dimissioni, consapevole di aver fatto la scelta giusta. Si era preso una grossa soddisfazione nello strapazzare il responsabile di tutto ciò, Matteo Salvini. O, come preferiva chiamarlo lui, Shrek. Grande, grosso e verde. Non trattenne un sorriso ripensando al suoi gesti, ai suoi movimenti da sbruffone per far capire a tutt'Italia che nessuna di quelle parole lo stesse ferendo, quando, in realtà, lo facevano eccome. In quanto a Di Maio? Beh, stavolta era stato particolarmente bravo, non aveva detto una parola, né aveva battuto ciglio. Era come impietrito, il che era strano per uno come Luigi, abituato a contestare e a far capire bene la propria opinione. Forse si stava sentendo male? O forse dormiva ad occhi aperti perché, non avendo fatto granché, non si sentiva in colpa per la caduta del governo?
La sua cravatta purpurea giaceva come un serpente senza vita sul bracciolo della sedia e la giacca era ormai per terra, quando sentì bussare alla porta. Fece un respiro profondo e nascose il viso tra le mani. Non aveva voglia di vedere nessuno, quella strana mescolanza di sollievo e nostalgia gli aveva stretto un nodo in gola, proprio non se la sentiva di avere a che fare con della gente. Bussarono di nuovo. L'ex premier chiese chi fosse e la porta si aprì. Entrò Luigi Di Maio, ancora in giacca e cravatta, con un'espressione sollevata che gli restava in faccia leggera come carta velina attaccata con lo scotch. Giuseppe Conte lo osservava da dietro la scrivania, ammirandone l'ingenuità. Aveva aperto la porta ed era entrato quando lui gli aveva solo chiesto di identificarsi. Era quasi stupido, ma gli faceva tenerezza. Un giovane qualunque non sarebbe riuscito a gestire tali pressioni da tutti e la gente continuava a prenderlo in giro per il congiuntivo... Beh, avevano ragione, ma in fondo non era poi così male...
"Ciao, hai bisogno di qualcosa?", ruppe il ghiaccio l'ex premier.
"No, nulla di che... Ero venuto a vedere se stavi bene... Sei un po' rosso in faccia, tutto a posto?"
"Luigi..."
"Ah, ho sbagliato di nuovo? Scusa..."
Mentre le guance del giovane pentastellato prendevano una punta di colore, Conte si specchiò di sfuggita nello schermo del cellulare. Sì, a forza di sfregarsi il viso, effettivamente era rosso anche lui...
"Non importa, Luigi. Lo capisco, fai fatica."
"È che... Non so, proprio non riesco a parlare in modo corretto. Mi riesce meglio stare zitto, ma faccio il politico e devo parlare."
"Non è solo perché sei un politico."
"Sì, lo ammetto... Sono un gran contestatore"
"Ma oggi sei stato veramente bravo, complimenti!"
"Forse perché non c'era nulla che sarei potuto contestare..."
Conte si alzò in piedi e si avvicinò al collega. Lo guardò dritto negli occhi, come un maestro guarda il suo protetto, dunque gli parlò.
"Luigi. Questo è proprio grave. Prova a correggerti."
Di Maio sgranò gli occhi, quasi impaurito al pensiero di non riuscire a trovare una risposta, quindi di perdere quella poca stima che, a suo avviso, Conte aveva nei suoi confronti. Dopo cinque minuti di silenzio imbarazzante, alzò lo sguardo verso l'ex premier, ma non troppo, come farebbe un cane bastonato.
"Non preoccuparti. Sarai sicuramente in grado di correggere il prossimo. Comunque era avrei potuto. A parte questo, che stavamo dicendo?"
"Ti stavo dicendo che... Beh... Il tuo discorso era impeccabile e..."
Il giovane si fermò con lo stesso imbarazzo di chi deve interagire e aprirsi con la persona per la quale si prova qualcosa di più profondo della semplice stima. La paura che l'ex premier lo ferisse reagendo gli bloccava la gola, come il groppo che aveva Pietro Grasso prima del famoso quattro marzo. L'ultima cosa che voleva in quel momento era che il suo cuore facesse la fine di Liberi e Uguali.
"Oh, grazie mille. Per me la tua opinione conta molto, sai?"
"E..."
"Cosa? Stai cercando di dirmi qualcosa? Qualunque cosa sia, puoi dirmela.", gli disse Giuseppe appoggiandogli una mano sulla spalla. Luigi avvertì la pressione leggera e dovette combattere l'impulso di prendergli la mano e baciarla, e baciare tutto il corpo di quell'uomo meraviglioso...
"Volevo ringraziarti, lavorare con te è stato un vero onore, sei una perla rara, Giuseppe. L'unica persona con un po' di logica e preparazione in questo governo."
"Oh, mi fa molto piacere. Per me è stato lo stesso, tutto sommato abbiamo lavorato bene. Beh, suvvia, non ero proprio l'unico decente, anche tu ti sei impegnato in confronto agli altri..."
Di Maio cominciò a respirare affannosamente, talmente tanto che Conte se ne accorse e cominciò a scrutarlo preoccupato. Sudava freddo, la percentuale di acqua nel suo corpo era scesa all'85%, mentre pensava a quanto gli riuscisse facile dire baggianate tutto il tempo ma, quando aveva qualcosa di importante da comunicare, rimanesse muto.
"Luigi?"
Aveva le pupille dilatate, non riusciva a muoversi, nella sua testa turbinava un tornado di pensieri sgrammaticati.
Il governo ormai era caduto.
Non l'avrebbe mai più rivisto.
Lui si sarebbe scordato della sua esistenza.
No, non poteva permetterlo.
O la va o la spacca
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perla rara [conte x di maio]
Fanfiction20 agosto. Luigi Di Maio a Giuseppe Conte: "Sei una delle scelte di cui vado più fiero nella mia vita. Sei una perla rara, un servitore della Nazione che l'Italia non può perdere." [FINITA] #1 - governo 15/3/2020