Sei mesi fa una sconosciuta mi disse che nella mia vita c'era qualcuno che voleva la mia morte. La incontrai durante un volo Nuova Delhi-Madrid. Aveva problemi di vista e mi chiese di leggerle il menu e di indicarle il bagno.
<<Ho perso di nuovo quei maledetti occhiali>> , disse infilando la testa in un'enorme borsa bianca. Il suo peso, sui cento chili e qualcosa, la obbligava a viaggiare in business. Agli organizzatori del congresso cui aveva partecipato l'esborso non faceva piacere, ma cosa poteva farci, in un sedile della classe turistica non ci entrava. Sorissi vagamente e non feci nessun commento perché non volevo infilarmi in una conversazione di dieci ore. Mi aprii una rivista sulle ginocchia e mi misi a guardare il cielo e la luce fuori, con la fronte attaccata al finestrino. Non c'erano nuvole, solo qualcuna, piccola e sperduta, che faceva pensare alla solitudine. Una sensazione meravigliosa dopo tanti giorni di sfilate, agitazione, cambi d'abito, punture di spilli, tonnellate di trucco, ciglia finte lunghe un metro e pettinature troppo creative.
l'agenzia di moda per cui lavoravo mi aveva chiesto di sfilare a Nuova Delhi per una griffe indiana e di partecipare alle feste nella residenza dell'imprenditore Karim e di sua moglie Sharubi, il cui corpo minuto era sempre avvolto nella seta, e i polsi nell'oro fino al gomito. E adesso, finalmente, il vuoto e la libertà.
Mi tolsi le scarpe e le spinosi con il piede sotto il sedile davanti a me. Non volevo essere disturbata, perciò avevo scelto di sedermi accanto al finestrino. Ma capii subito che non sarebbe stato così facile: mi accorgevo delle occhiate della mia vicina che mi scivolavano lungo i capelli, e a un certo punto avrei dovuto girarmi e affrontare la sua voglia di chiacchierare. Con la coda dell'occhio vidi che faceva un cenno alla hostess e le chiedeva un gin con una fettina di cetriolo, qualche grano di pepe e una spruzzata di acqua tonica. Sembrava che avesse dei gusti molto precisi. Per qualche secondo si sentirono soltanto i cubetti che sbattevano contro il bicchiere di plastica e il gin che sciabordava contro il ghiaccio, mentre iniziavamo a sorvolare enormi ammassi di nuvole che coprivano le montagne e le case, i fiumi, le persone e gli animali come un manto di cotone. Era impossibile sapere dove fossimo.
<<Non le andrebbe di farmi compagnia?>> chiese alzando il bicchiere, sorretto da dita piene di anelli. Uno era un teschio turchese, un altro una cosa strana con le ali;alcuni le sprofondavano nella carne.
Siccome di lì a breve avremmo dovuto cenare, accetai e optai per un calice di champagne che a dire il vero mi fece bene, mi fece rilassare. Finalmente avrei potuto chiudere gli occhi e lasciarmi trasportare. Chiesi altro champagne e la mia vicina un altro gin, questa volta senza lo spruzzo di acqua tonica. Sembrava che anche lei si lasciasse trasportare. Il suo naso era lucido, come il mento e la pelle all'attaccatura dei capelli. Aveva un po' di sudore dappertutto. I capelli erano tinti di un color mogano e divisi completamente a caso, più scuri da una parte, più chiari dall'altra, un disastro; gli occhi erano di un azzurro scolorito quasi trasparente, come se mancassero due mani di vernice.
Mi chiesi a che tipo di congresso potesse aver partecipato. Probabilmente era una professoressa o magari una scrittrice, ma aprii la bocca soltanto per bere un altro sorso. Lei sospirò molto profondamente e si girò con un certo sforzo verso di me.Disse che era miope, presbite e astigmatica e, sfortunatamente, senza quei maledetti occhiali non mi vedeva bene, ma aggiunse che gli altri suoi sensi facevano un lavoro complementare a quello della vista e, se in futuro ci fossimo incontrate di nuovo, avrebbe potuto riconoscersi dalla voce, dal calore, dalle vibrazioni di più sottile e più sicuro dei tratti fisici.
<<E come si vedono queste cose?>> chiesi, pensando che fino a quel momento della mia persona spiccavano soltanto la mia taglia quaranta, l'uno e settantotto di statura, una figura armonica e un viso che reggeva bene l'obiettivo di una macchina fotografica a dieci centimetri di distanza, cose a cui in fondo nessuno dà veramente valore.
<<Non si vedono, si sentono>> , precisò. <<Chiunque può sentirle se non si ferma a ciò che vede.>>
Per non metterla in difficoltà non le chiesi com'erano le sensazioni che le trasmetteva una modella dedita a vendere stile e apparenza, non una filosofa né una scienziata, nè una persona che passa la giornata a pensare. Io percepivo lei come la lava di un vulcano, che si scioglieva lungo i lati del sedile, copriva a poco a poco la moquette, saliva lungo le pareti di plastica rigida dell'aereo e si fondeva con tutto.
<<Mi chiamo Viviana>>, disse.
Aveva una voce molto bella,calda, setosa, sensuale.
Portava i pantaloni, un camicione indiano di cotone e scarpe bianche. Non se le tolse per timore che le si gonfiassero i piedi. Fin dall'inizio incrociò una caviglia sull'altra e poi si mosse appena, soltanto la testa e le mani.
Ne allungò una verso di me e si avvolse una ciocca dei miei capelli tra due dita grosse, quello del teschio turchese e quello della cosa strana con le ali.
<<Che morbidezza>> , disse avvicinando la sua miopia verso di me di qualche centimetro. <<Di che colore hai gli occhi?>>
<<Castano chiaro.>>
<<Probabilmente sono molto belli>> , azzardò lei. Non c'era bisogno che le rispondesse. Non avevo motivo di ricambiare il complimento, non dovevo venderle niente.
<<Io sono Patricia>> , dissi con il mio quarto o quinto calice di champagne in mano.
<<Patricia>> , ripeté tra sé e sé con il suo quarto i quinto bicchiere di gin.
Ci portarono insalata, curry di agnello, riso basmati, tramezzini, un pasticcino, una tazza per il caffè o il tè,
un bicchiere e le posate, tutto su trenta centimetri di tavolino. Mangiai senza pensare alle calorie nè al sapore, un'azione istintiva quando la sopravvivenza dipende da un vassoio di plastica. Viviana, invece, non toccò neanche un boccone. Più che aprirlo, distrusse il sacchetto trasparente con forchetta, cucchiaio e coltello e, dopo averli sparpagliati sul vassoio, sospirò smuovendo tutta l'aria dell'aereo e si mise a guardare la spalliera del sedile davanti senza battere ciglio, come se stesse vedendo molto più che una semplice stoffa grigia.