prologo

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Il finestrino era appannato dal calore delle mie mani e del mio fiato, gelavo e tremavo mentre dalla mia bocca usciva un urlo senza voce, costringendo il conducente a frenare improvvisamente.
Guardavo quel che rimaneva del veicolo fuori dalla careggiata, fumante nonostante la pioggia.
Annaspando, feci scivolare il mio sguardo sul finestrino del lato posteriore e...

La luce del giorno mi fece aprire lentamente gli occhi, probabilmente era mattina ed io ero in ritardo.
Sentii le mani tremare e le ginocchia molli quando mi alzai dal letto, cercando perlomeno di coprire quello stato indecente in cui mi ritrovavo.
Ora ero al sicuro, lontano da quel giorno, lontano dal fragore delle macchine, dei clacson, dalle urla disperate e pianti.
Ero da solo, nel silenzio della mia camera, davanti ad uno specchio, tutto era normale, tutto andava bene.
Guardando il mio riflesso, cercai inutilmente di aggiustarmi i capelli, quando capii che non ci sarei riuscito, sbuffai e andai in cucina, per fare colazione e i convenevoli ai miei genitori così che io potessi andarmene il più velocemente possibile.
Presi l'autobus per culo, c'era troppa gente e io entrai a malapena, schiacciato a destra e a manca da sconosciuti che cercavano di farsi largo con gomitate e sbuffi, come cavalli.
Quindi, mi ritrovai a pochi minuti da scuola, che, ad essere sincero, non faceva schifo, era molto modesto come edificio, sì, forse anche un po' troppo; un po' scarabocchiato da graffiti e i pezzi d'intonaco svolazzanti qua e là con pericolo di caduta.

La gente non era male, stavano per conto loro, fumavano come delle ciminiere e si sentiva decisamente puzza di erba, ma poteva andare peggio, poteva piovere o potevano esserci dei drogati e spacciatori.
Non che non ci avessero provato, certo, qualche volta cercando di spacciare farina, gesso e qualche schifezza, ma durarono poco - forse qualche mese - e i quattordicenni che ancora puzzavano di latte, smisero presto di cascare in queste trappole per infanti.
Mi infilai il cappuccio in testa e le mani in tasca, così che io potessi avere un'aria da duro, avevo la mia reputazione e dovevo assolutamente mantenerla, e così mi avvicinai al gruppo di amici, riconoscendo tra loro una testolina bionda che tanto amavo.
Mi avvicinai furtivo, dall'esterno sembravo veramente un rapinatore ed ero anche inquietante, un metro e ottanta piegato sulla spalla di una ragazza di almeno una testa più bassa; non che mi importasse.
Picchiettai sulla sua spalla e lasciai un bacio sulla sua guancia gelata, che mannaggia tutto, tra poco le labbra mi rimanevano incollate e dovevo andare in giro come un vecchio con i denti in fuori.
Si girò e rise piano ed elegantemente, prima o poi avrei dovuto chiedere delle lezioni su come ridere piano e soprattutto in modo elegante, prima di conoscerla non pensavo nemmeno fosse possibile.
La guardai negli occhi e mi venne da sorridere, era più bella del solito, anche con un brufolo sotto al sopracciglio, che immagino dovesse fare pure male.
«oggi sei proprio brutta, inoltre credo tu abbia un vulcano in faccia» la salutai, beccandomi una sberla.
Oggigiorno non si può nemmeno scherzare, mandai via il pensiero con una scrollata di spalle, quella bastarda mi aveva pure fatto male, «stronza».
Prima che Letizia potesse rispondermi, vidi una mora aprire la bocca coperta da almeno due dita di lucidalabbra, sembrava c'avesse la colla su quei canotti, «beh, te lo sei meritato, Stefano.»
Girai gli occhi al solo sentire quella voce da stramaledetta gallina, ma poi, chi era? L'avevo mai vista prima di ora?
«Tu saresti?» non che mi importasse, infatti senza aspettare risposta salutai i due amici vicino Letizia, che - nel frattempo dell'amichevole chiacchierata - mi ero dimenticato di loro, e in modo virile gli strinsi la mano, stabilendo così la dominanza.
Sempre se si potesse fare.
«dai rega, non cominciate, sono appena le otto der mattino», mi squadrò, oh no, quell'espressione, quella "r" romana, la mia peggiore nemica, «inoltre andiamo, sei arrivato in ritardo come al solito», feci un'altra scrollata di spalle, le abitudini erano dure a morire, soprattutto quelle del conducente, che doveva assolutamente rimorchiare qualsiasi donna salisse sull'autobus.
Nemmeno a dire che non ci fu una volta in cui riuscì nell'intento - ovviamente oltre a quello di far arrivare tutti disgustati e non precisamente in orario, ma questo a Letizia non interessava e mi annotai di non farla mai salire su quel mezzo con quell'uomo di mezz'età.
Le misi un braccio sulla spalla e cominciammo a camminare verso l'aula, la 4E; era da un po' che non vedevo la mia ragazza fuori dall'istituto, sprecando la prima settimana di scuola per recuperare i compiti o qualche libro che, a quanto pare, ci era stato detto di leggere.
Tutto il resto non fu interessante, anzi, quasi mi abbioccai, avendo come unico passatempo il tiro delle palline di carta alla mia biondona preferita, che si trovava un po' spostata da me e prendeva diligentemente gli appunti, con quale voglia, ancora non lo so.
Senza dimenticare la mia più grande fortuna; un nano alto un metro e sessanta e fastidioso quanto una zanzara, era tutto proporzionato, a quanto pare.
Si girava ogni tre per due ed era l'unico a parlare vivacemente e a gesticolare con quelle cicciotte mani lentigginose, tutti gli altri probabilmente semi addormentati dalla cantilena della professoressa di italiano, e come biasimarli? Era una martellata là sotto ogni volta che apriva le labbra tinte di rosso, in contrasto con gli ombretti sgargianti, e decisamente di poco gusto, che macchiavano- niente scherzi, erano delle macchie, anche io sarei riuscito a fare di meglio - le sue palpebre grinzose.
Distratto, voltai lo sguardo verso la finestra, pioveva e pioveva, fino a che non tornammo tutti a casa, bagnati come cani bastardi.
Buttandomi sul letto, me ne fregai della possibile macchia di pioggia e sudore che si sarebbe formata sulle coperte - mi pentii amaramente di questa scelta poco dopo - e nel silenzio ascoltai solo i battiti risonanti nelle mie orecchie.
La sentivo, nella pelle d'oca, nei tremori del freddo, nella pesantezza del petto dove il cuore sembrava congelato dall'orrore e dalla paura, quella sensazione di star sbagliando, di aver dimenticato qualcosa e andava solo peggiorando più guardavo la grosse gocce contro il vetro.
Probabilmente mi ero semplicemente preso la febbre a causa di quella pioggia bastarda.



Note: ao rega, ce l'ho fatta.
Rileggendolo, ho appena pensato che effettivamente per lo stile di questo libro ho ripreso molto da "Il giovane Holden", libro che vi super consiglio.
Boh, non sono super soddisfatta di come è venuto fuori, ma si va avanti. Probabilmente lo modificherò.
Bella.

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