Se anche una sola persona avesse osato dirmi: "ma tutto bene? Hai un diavolo per capello", probabilmente non avrei risposto delle mie azioni e avrei cominciato a giocare a pallacanestro, dove il canestro era il suo bulbo oculare e la palla la mia saliva.
Quella mattina non appena riacquisii la vista da quel damerino di Morfeo, screanziato che mi stordiva ogni notte con le sue letali braccia soporifere, avevo già capito che oggi non sarebbe stata giornata e tutto questo veniva solo che confermato dalla sveglia malfunzionante con le lancette che avevano superato di almeno venti minuti le sette e mezza.
Nonostante il mio cervello fosse ancora in un sonno profondo, ebbe la decenza di recapitarmi l'idea di mandare un messaggio a Letizia e chiederle - nel caso non fosse bastato anche pregarla e supplicarla o farle quattro sacrifici di coniglietti - di passarmi a prendere così che io potessi clandestinamente infilarmi nella macchina di suo padre e arrivare in orario per la prima volta in tutta la mia carriera da delinquente.
Quando mi giunse il suo assenso, colmo di avvertimenti di non metterci troppo e di minacce nel caso succedesse, mi decisi che la prossima volta le avrei lustrato le scarpe e messo al collo una ghirlanda.
Mi catapultai dentro l'armadio per cercare qualsiasi cosa fosse indossabile e indossarla, ovviamente; infilandomi così dei calzini bucati - il mio trillice ci teneva al ricambio d'aria, infatti pubblicò più volte sul sito della Geox "la scarpa che respira" delle recensioni negative sulla linea del "ma non hanno i polmoni, solo menzogne pur di vendere!" - , mi finii quindi di vestire e con lo zaino in spalla e un cruccio in volto, salutai la mia calorosa famiglia di stoccafissi nordici con un cenno della testa e scesi per aspettare la mia bella biondona, già davanti al cancello, incarognita.
Mi avvicinai alla macchina e vi ci scivolai dentro il più velocemente possibile, dando un fievole e a malapena udibile buongiorno al padre di Letizia, uomo spaventoso che mi ricordava il Caronte dantesco e che borbottò un saluto sotto i lunghi baffi albini, dopo a Letizia stessa, con il suo fastidio reso palese da quella grossa spaccatura - ricordava il Gran Canyon - che si era formata in mezzo alle sue sopracciglia, e infine a Damiano, particolarmente gioioso quella mattinata che mi diede un colpettino alla spalla.
Evitai di chiedergli "che cosa diamine toccasse" e perché fosse proprio nella macchina del padre della mia ragazza, in favore del silenzio, così da cercare di non peggiorare l'atmosfera piuttosto cupa e pesante, oserei dire quasi in sovrappeso, generata probabilmente dall'uomo al volante e dalla figlia al suo fianco.
Con la guida abbastanza spericolata e illegale percorremmo il tragitto e mi venne quasi un infarto quando prese la rotonda al contrario - non so come sia possibile che in quel momento non ci fosse nessuno nei paraggi, ma ringraziai tutti i filosofi greci per questo -, e finalmente Letizia disse le sue prime parole da quando ci eravamo visti: «Pa', accendili però 'sti cazzo di fari», ricevendo solo un grugnito dal cosiddetto "Pa'" e una mortale sbandata sulla sinistra che mi buttò addosso a Damiano e di quest'ultimo la guancia al finestrino.
«Accendiamo direttamente i ceri, qua, altro che fari» borbottai sottovoce mentre mi rialzavo, sperando di non morire sia per l'incapacità di chiunque avesse dato la patente a questo pirata della strada sia per lo sguardo fulminante dell'uomo che mi aveva sentito.
Tossicchiai e mi raddrizzai, sentendo delle risatine, non ben soffocate, provenire dal moro.Barcollai quando scesi da quella macchina di schifo e giurai solennemente che non ci avrei mai più messo piede, potesse cascare il mondo e l'Olimpo e i suoi dei.
Salutammo tutti e tre il Caronte terrestre, io e Damiano con un leggero movimento della mano, Letizia con solo un dito alzato, probabilmente stava risparmiando.
Rimasi a fissare il veicolo clandestino sgasare e partire ad alta velocità, quando esso scomparve dalla mia vista, divenni relativamente curioso, «quanto ha pagato per avere la patente? Mi salto direttamente il corso».
Letizia mi bruciò, manco fossi una strega nel Cinquecento, con gli occhi chiari, in netto contrasto con l'ardore che possedevano e che volevano impremermi sulla pelle, «taci, Stefano» e girò i tacchi, andandosene.
« Ma che diamine di problemi ha pure lei? Ma che è uguale al padre?»
«Lascia stare, sono tutti e due matti come cavalli» Damiano continuò ad adocchiarla per un paio di secondi, «inoltre, le hai fatto fare tardi.»
Sbuffai, sai quanto me ne poteva fregare che la signorina in rosa non avrebbe avuto il tempo di incipriarsi il naso e tingersi gli zigomi nei bagni della scuola per fare colpo sul professore di religione della prima ora, scrollando quindi le spalle, attraversai la strada per arrivare alla sede della scuola, prontamente seguito dal moretto come un cagnolino con il padrone.
Ripresi il discorso, «e pace, insomma, ma come mai stavi in macchina con loro?»
Ridacchiò, ammazza, aveva dei denti perlati che accecavano, quasi mi coprii gli occhi «perché mi hanno accompagnato, mi sembra ovvio.»
Alzai gli occhi al cielo, senza sapere se sarebbero mai tornati al loro posto, «e grazie al cazzo, ma perché lei?»
«Ti interessa?», era divertito il bastardo, bisognava solo vedere se avrebbe trovato la cosa esilarante quanto me dopo un bel gancio destro, «Ovvio che sì, è la mia dannata ragazza.»
Continuò a camminare senza fiatare, e tra poco, oltre a quei bambini nel cortile con le canne in mano, sarei stato io a fumare, dalla rabbia, sentivo quasi il cervello surriscaldarsi e porsi nel frattempo mille domande, chi era questo?, perché non rispondeva?, ma ho detto qualcosa di sbagliato?, Letizia lo conosceva già da prima?, ma è scemo?, all'ultima, probabilmente, avevo già trovato risposta.
«Quindi,» pensai a qualsiasi domanda per riempire il silenzio imbarazzante, «in che classe stai?»
Ghignò e ripeté «ti interessa?», sì, era senza la più pallida ombra di dubbio scemo.
«No, si chiama fare conversazione.»
Proprio quando tacqui, tornando ad essere il solito me, con una personalità introversa e schiva, considerando strano anche che io avessi spiccicato tante parole, Damiano si decise a chiacchierare, «quindi tu e Letizia uscite insieme?», annuii con un cenno del capo, «da quanto?», ma che era un interrogatorio? Che gli fregava poi?, «un mese», mi guardò pensieroso senza proferire parola.
«Cosa c'è, ti dispiace per caso?» quasi gli ringhiai contro e cessai ogni movimento, «Damiano, non provarci nemmeno a fottere con me».
Anche eli si fermò e voltandosi a guardarmi, confuso e spaesato, incatenò i suoi occhi con i miei, e avrei preferito essere buttato in una vasca piena di squali piuttosto che distogliere il mio sguardo e mostrare il minimo segno di debolezza, di paura, di sottomissione o reticenza.
Non avrei permesso al primo cazzone che capitava di entrare nella mia vita e rovinarla, non dopo che avevo finalmente trovato un equilibrio, e quell'equilibrio consisteva nell'avere Letizia al mio fianco, finché - perlomeno - ella lo avesse voluto.
L'espressione da imbecille del suo volto fu rimpiazzata quasi subito da un ghigno, «tu pensi che io ti voglia fottere? Lo vorresti?» e allacciò ferreo un braccio sopra le mie spalle, con la mano afferrando senza alcuna esitazione il mio collo, come si faceva con gli animali, e si abbassò alla mia altezza, così come io abbassai lo sguardo sul pavimento.
Vermiglio sullo stesso collo e guance, strinsi i denti, e sibilai, «intendo, mi vuoi fottere la ragazza, bastardo?»
Diminuì lo spazio che separava i nostri corpi e portò le sue labbra vicino al mio orecchio, «non hai capito un cazzo, non me ne può fottere di meno di Letizia».
Gli diedi una spinta, o meglio, mi concesse di allontanarlo con una spinta, senza opporre resistenza, e a gran passo mi voltò le spalle, confondendosi con gli altri studenti, se non fosse stato per la sua altezza da gigante.
Provai un fastidio viscerale, un'ira funesta che avrei potuto corrergli dietro e ammazzarlo di botte.
Come poteva uno arrivato qui da appena due settimane ad essere così bastardo e narcisista?
E ancora peggio, trattarmi come fossi un cane, e nemmeno un doberman, che se gli fai un dispetto, non ti ritrovi più la testa, ma più un cagnolino da compagnia.
Poi come se a me fregasse di un dannato damerino che va dietro alle ragazze fidanzate, semplicemente patetico.
Fumante di rabbia, ero stato lasciato così in mezzo al cortile, quasi abbandonato a me stesso come aveva fatto Teseo con Arianna, indignato, dopo averlo perso di vista, pensai di dirigermi verso la mia aula, ma, guardando l'orologio da polso, che segnava già le nove meno un quarto, decisi a malincuore che avrei saltato la mitica ora di religione.
In quel momento avevo bisogno di una sola cosa: di una bella dose di THC, facilmente reperibile, sparata nel cervello per spegnerlo e godermi questa giornata da inferno.
Così, mi avvicinai a passo lento e furtivo nella parte di scuola adibita allo spaccio: aggirai la scuola, fino al cortile più isolato di questa, dove una casetta accroccata, e che si teneva in piedi per miracolo, era nascosta ad occhi più superficiali, di qualcuno che non sapeva né cosa cercare né dove cercarlo.
Protetta dal campo da calcio della scuola, per arrivarci bisognava farsi strada superando una rete metallica ormai vecchia e rotta, probabilmente da vecchi studenti con l'intenzione di scappare dallo sguardo indagatore dei supervisori.
Scavalcai la rete e mi infrattai tra la vegetazione sempre più fitta, girando intorno al campo di calcio trovai finalmente l'edificio di legno, nel punto più nascosto, come se fosse un locus amenus, ma di ameno aveva solo l'erba.
Sentii delle voci ridursi in sussurri, fino ad acquietarsi completamente una volta che mi avvicinai e mi ritrovai davanti alla porta.
Bussai tre volte, con distanza di secondi diversa, una dall'altra e prontamente una voce chiese: «cosa cerchi?»,
«Gli artisti caduti come foglie di autunno.»
Si udì uno scatto, la porta della baracca venne aperta ed entrai prontamente, senza farmi aspettare un secondo di più.
Una buona parte degli sguardi adesso ricadde sulla mia figura, «guardate chi è tornato, il nostro caro Stefano» urlò un ragazzo che si avvicinò per salutarmi.
«Grande fra, era da 'n botto de tempo che 'n veniva qua, ch'è successo? Te stavano a beccà?» altro amico che non ebbe alcuna risposta perché subito fui raggiunto da Luca che mi trascinò un po' in disparte, in un luogo più appartato, così da sentire la mia richiesta sopra le casse che pompavano Paky che cantava "Rozzi" a tutto volume «fra, che cerchi oggi? Quarcosa de leggero o te voi pippà er cervello?»
«No, Luca, me vojo solo fa na canna, che oggi è iniziato popo demmerda e me devo scioje.»
«Daje, allora viè qua che ce la stavamo a fumà giusto quarcuna.»
Così andammo nella seconda stanza, leggermente più piccola, dove vi erano cinque ragazzi, chi seduto per terra, chi sdraiato sul divano mentre aspirava, chi chiacchierava e brindava.
Tutte figure familiari, ma una più delle altre, e questa stessa stava parlando animatamente con un altro ragazzo, Alessandro, un tipo che ci sta abbastanza con la testa, e stavano bevendo birra.
Incatenai i miei occhi sbarrati con i suoi aurei e sghignazzanti, «Damiano?».
Ma dio-N.A.: we belli ragassuoli.
Di metà capitolo un pezzo venne scritta (ai tempi) da una mia amica.
Purtroppo, essendo un'anima perfezionista, non riesco a sopportare che su un lavoro mio ci sia la mano di qualcun'altro, soprattutto se alla fine non viene reso secondo i miei desideri.
Così l'ho modificata, riscritta da capo, e resa mia, spero vi piaccia.
Il dialogo, la dinamica tra Damiano e Stefano è cambiata.
Inoltre sto facendo una piccola revisione dei pochi capitoli pubblicati. Ho in mente già come continuare e anche un colpo di scena, ma non vi assicuro nulla :)
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tripletta d'amore
Teen FictionStefano e Letizia sembravano una coppia perfetta, ma tutto cambierà con l'arrivo in città del nuovo studente, uno misterioso e pieno di segreti. Attenzione: storia trash ;)