Alan continuava, ostinandosi con lo stesso straccio imbevuto e zuppo, a raccogliere bava e birra versati sul bancone. Ogni passaggio della sua mano lasciava una striscia che sembrava diramarsi o spezzarsi e cercare di dissolversi, finché lui non ci ripassava di nuovo quello straccio troppo impregnato per assorbire altri liquidi.
Ogni tanto alzava lo sguardo incavolato per fissare la sua bettola, come la chiamava suo fratello Ron, laureato nel Wisconsin. Era avvocato, lui, e non si bagnava il becco nelle bettole. Emise un grugnito al ricordo di suo fratello che ora lo chiamava solo per snobbarlo e vantarsi di chissà quale barca venuta via per due soldi.
Le luci su di lui, quelle classiche da bar con la copertura verde, erano tre. Solo che quella centrale tendeva a diventare più fioca illuminandosi come nei film dell’orrore. Quel lampeggiare continuo dava ad Alan un’aria inquietante. Ma lui era ancora intento a osservare il tavolo da biliardo dove ora stavano giocando due dei suoi clienti fissi. Emise un risolino… Lì una volta aveva fatto l’amore con Jodette. Smise di pulire il bancone e si dedicò ai bicchieri. Prese lo straccio giallognolo e cominciò a passarlo dentro i boccali. Riusciva nonostante il lercio strofinaccio, a farli uscire non proprio splendenti, ma che almeno si potesse guardare quale liquido aleggiasse all’interno. Quando si alzava il boccale e la birra scendeva, perché il novantanove per cento degli avvenenti beveva quello, raramente qualcuno entrava con l’intento di chiedere un bicchiere d’acqua, si potevano vedere gli aloni che lo decoravano schifosamente, soprattutto sul fondo. Posò l’ultimo dei suoi boccali e lanciò un’altra occhiata ai due clienti rimasti. Ridevano sguaiati seduti, ora, al loro tavolo, facendo schizzare birra dalle bottiglie in terra.
Poi la luce invase il locale. Più che altro era il bagliore dei lampioni che illuminavano la notte fredda di quell’inverno. L’ombra che entrava apparteneva a un uomo che era abitudinario di quel posto.
«Era ora, John…» disse Alan senza alcuna emozione nella voce. Riprese lo straccio e ricominciò ad asciugare il bancone cercando di grattare via delle macchie senza successo e senza la vera volontà di pulire quel legno sudicio. Sapeva che ora John gli avrebbe attaccato il solito bottone, parlando dei suoi amici immaginari. Magari esistevano davvero, chi poteva dirlo…
Erano anni ormai che lo assillava con il solito discorso sulle sue nottate brave di quando era giovane, dei suoi amici inseparabili, del bene che si volevano come fratelli, delle bevute e delle donne che aveva incontrato vivendo tutto sempre con gli stessifedeli compagni. Ad Alan non fregava niente, ovviamente. Il canticchiare di un vecchio delirante che ripeteva tutto come un disco rotto. Alcune di quelle storie però erano commoventi e Alan non era uno che era facile alla commozione. Doveva ammettere che aveva una bella fantasia; c’erano delle sere in cui la presenza di John, lì allo stesso sgabello, che iniziava con “Ti ho mai raccontato di quando io, Leonard, Rusty e Donnie…?” chissà quale storiella, nuova o già sentita, che faceva passare le serate, permetteva ad Alan di dimenticarsi della moglie che ormai non lo considerava quasi più in casa propria e di quello schifo di avvocato-fratello che odiava da quando erano ragazzini. In altre serate annuiva senza sentire una parola.
«Alan…» salutò e batté poi la mano sul bancone. Sapendo cosa avrebbe preso, il barista mollò lo straccio e gli versò una bionda doppio malto nel boccale, posizionandogliela dinanzi.
Una cosa non gli aveva mai raccontato e Alan era un po’ curioso in verità.
Dopo ogni chiacchierata John diceva sempre: «Poi ti racconterò del mio viaggio al completo». Alan non aveva mai capito quando avrebbe sentito anche quella storia. Forse doveva ancora inventarsela…
Sorseggiò il liquido ambrato degustandolo con la stessa eleganza di un sommelier con i vini pregiati. Alan lo guardava sottecchi e aspettava che iniziasse a parlare. Quel giorno era una di quelle serate buone che andavano riempite dalle storielle di John. Intanto aveva ripreso a passare lo strofinaccio ritmicamente senza alcuna convinzione.
Il vecchio cantastorie emise un grugnito. Tossì. Si pulì la bocca con il suo fazzoletto. Aveva un sorriso stampato in faccia. Poi finalmente allontanò un po’ il bicchiere e… «Ti ho mai raccontato di quando io, Leonard, Rusty, Donnie passammo una nottata in auto senza assolutamente fare nulla? Più che altro eravamo usciti da una pizzeria e non sapevamo più cosa fare. Le nostre amiche erano andate via e non potevamo fare molto altro non avendo abbastanza soldi per una discoteca». Trasse un respiro e bevve lentamente un altro sorso.
«No… non ricordo questa storia» disse Alan. Smise di passare lo straccio.
Quella sera non stava aspettando altro, e cercò di mostrare tutto il suo interesse appoggiandosi con i gomiti sul bancone e direzionando i suoi occhi in quelli di John.
Rispostando la birra indietro e come se non avesse udito minimamente Alan, continuò. Lo avrebbe fatto ugualmente se qualcuno gli avesse tappato la bocca con un nastro adesivo. Non se ne sarebbe accorto e avrebbe parlato lo stesso.
«Quella sera Rusty…» e mentre parlava teneva fisso lo sguardo sullabirra come se vedesse dentro tutte le immagini che raccontava focalizzando anche i minuziosi dettagli, «voleva provarci disperatamente con una delle nostre amiche. Susanne, se non sbaglio…» Mise un dito sotto al mento e portò lo sguardo leggermente oltre il bicchiere dinanzi a lui. Poi osservò Alan negli occhi, crucciato nel suo ricordo sfocato dal tempo. «Sì! Sì!» disse schioccando due dita. «Ne sono sicuro!».
Alan sorrise. A volte John gli metteva davvero allegria. Altre volte lo deprimeva.
«Ora, quella sera lui aveva intenzione di portarsi a letto Susanne, ma lei niente… Sai cosa gli disse? Mi viene ancora da ridere a pensarci».
Attesero un po’ entrambi, poi Alan parlò: «Cosa gli disse?»
«Gli disse: “Sei tanto bello, Rusty. E mi piace abbracciarti e tenerti sempre vicino. Ma non vorrei rovinare questo bel rapporto con te”. Gli diede un bacio sulla guancia e lo liquidò.Noi tre intanto vedevamo la scena e scoppiammo a ridere in silenzio. Lui si toccava la guancia e osservava Susanne allontanarsi verso casa propria. Si voltò, ci vide sghignazzare e ci raggiunse a passo strascicato. Il capo chino. “Allora, playboy… fai vedere? Che bella traccia di rossetto. Sei davvero grande!” lo canzonò Donnie. Ah! Dimenticavo! Donnie era un esperto con le carte. Faceva certi giochetti che ancora non capisco come diavolo poteva avere quella velocità nelle mani. E mescolava sempre le carte come in quei film western quando giocano a poker. Hai presente?»
Alan annuì.
John emise una piccola risata gracchiante facendo risuonare gli anni dalla sua gola. Una di quelle piccole risate che per un uomo di quel genere richiedevano un grande sforzo, ma che compiva con piacere.
«Eh già… Era forte Donnie». Buttò giù dell’altra birra. Sembrava che non ne avesse bevuta per niente.«Lo canzonammo ancora un po’…»
Per un attimo Alan non capì di chi parlasse, ma si ricordò che si riferiva a Rusty.
«“Che sfiga del cazzo” sbottò Rusty. Ma poi rise con noi facendo un gestaccio verso Susanne che ormai era andata via. Leonard lo rincuorò, però disse… sì, sì, ora ricordo: “dai amico, la serata mica finisce qui. Scoperai domani…” Rusty annuiva ma Leonard gli tirò la frecciata: “Anche se credo che domani farai una figura di merda peggiore”. Rusty gli diede una gomitata amichevole e rise con noi. “Fanculo Susanne” pronunciò tra sé e sé più che altro».
Ora John fissava di nuovo Alan sorridendo e annuendo.
«Bella nottata! Vagammo in auto tutti e tre fermandoci prima a un bar. Dopo aver fatto colazione, ricordo che mi mangiai due cornetti e un cappuccino bollente, ritornammo in auto e andammo ad un vecchio parcogiochi pronto per la demolizione. Sai no? Quei posti pieni di altalene e cavalli a molla… beh io e Leonard siamo saliti su tutti gli scivoli. Rusty urlava mentre cercava di toccare il cielo dalla sua altalena. Donnie era su uno di quei cavalli a dondolo, ma ci restò poco perché dato che lo cavalcava con troppa irruenza lo ruppe e si ritrovò in terra. Rimase per un po’ a gambe all’aria con le mani sullo stomaco per le risate. Noi ridevamo con lui. Si macchiò il cardigan di terra e la madre, ci raccontò poi, lo fece lavare a lui».
Buttò giù una sorsata più grande, rilasciando un gemito di soddisfazione, come quello di un assetato che si disseta da una fonte d’acqua fresca dopo aver camminato per chilometri in un deserto rovente.
Mentre teneva stretto il boccale, il volto ora mostrava lievi segni di rammarico nel suo sguardo vissuto e costellato dai solchi del tempo. Non erano le rughe sulle gote che facevano sentire il peso dei suoi racconti. Ma quegli occhi azzurri quasi vitrei… «Eravamo tornati bambini quella notte. Non ci importava che qualcuno lo potesse vedere. Avevamo vent’anni e più. Ma non in quel momento».
«Ma poi Rusty il giorno dopo cosa fece?»
John bevve ancora poi si riasciugò il labbro e sospirò «Si beccò uno schiaffo perché tastò le tette a Susanne.» si fissarono entrambi e poco dopo John scoppiò a ridere e Alan non poté non accompagnarlo. Rise anche lui. Con meno entusiasmo, ma con molto gusto.
Poi il sorriso di John assunse un tono rattristato: «Rusty fu il primo che ci lasciò».
Alan sapeva già cosa gli fosse successo. Glielo aveva raccontato così tante volte da farglielo sognare.
«Morì per mano di un marito geloso». Troppe pause per spostare quel macigno dal cuore. «Era l’amantedi una bella donna. Non ricordo più il suo nome. Il marito li beccò a letto insieme e in preda alla furia lo riempì di pugni. Lo aveva spinto sul balcone senza volerlo. Era una giornata calda e la porta era aperta, evidentemente». Il sospiro pesante fece incupire anche Alan. Si sentiva stranamente coinvolto da quel racconto quella sera.
«Si accorse di essere su quel balcone solo quando colpì l’inferriata arrugginita con la schiena. Venne via e cadde di sotto assieme a qualche mattonella e a quel cumulo di ferro rossastro». fece per bere, ma rimase con il boccale sospeso pensieroso oppure intento ad affrontare il dolore dei suoi ricordi.
«Una volta eravamo tutti insieme su una spiaggia. Facevamo un falò tutti e quattro. Io ero fidanzato, a quei tempi. Portai la mia ragazza e Leonard portò la sua. Anche le nostre ragazze portarono un paio di amiche per l’occasione. Era sera, il fuoco eravivo come non mai e il silenzio era rotto solo dalle note di Rusty. Toccava quella chitarra come fosse una donna molto delicata, e ogni suono sembrava un piccolo gemito rilassante. Avrei voluto avere il tempo di chiedere a Rusty di insegnarmi a suonare. Avrei suonato per lui al suo funerale. O magari non avrebbe avuto tempo di andarsene per donne sposate se era impegnato a farmi da maestro».
Ad Alan sembrava quasi che John si stesse incolpando di qualcosa, ma non capiva cosa di preciso, così decise di rompere quel silenzio imbarazzante che nasce spesso tra un uomo e una donna quando non si sa che dire e che mai dovrebbe esserci tra due uomini duri e vaccinati e bevitori incalliti.
«Era bravo a suonare?»
«Chi?» chiese John con uno sguardo di chi non sapeva neanche dove si trovava.
«Rusty…» rispose forse un po’ infastidito Alan.
John sorrise. «Rusty è morto». Bevve un altro sorso più lungo. «Però era davvero bravo…»
Forse era l’alcool, ma ad Alan sembrava che il vecchio fosse più rincitrullito rispetto alle ultime volte che era entrato in quel bar. Intanto riprese a pulire qualche boccale e a menare occhiate ai due clienti che con un’altra birra si sarebbero addormentati lì. Osservava John senza farsi notare. Ora il vecchio era incantato sul suo liquido ambrato con un lieve sorrisetto da ebete. Sperava che non gli sarebbe toccato portarlo a casa come era già successo una volta. Era talmente ubriaco che più che tirare alitate marce e sbavare sul sedile non era in grado di fare altro.
«Che bel colore ha questa birra…» Ruppe il silenzio così, ma continuò: «A Leonard sarebbe piaciuta molto. Adorava birre di questo colore».
«Leonard?» chiese Alan quasi sisentisse obbligato a domandarglielo.
«Sì… non faceva altro che bere. Beh, noi non eravamo così astemi dopotutto, ma lui esagerava davvero. Beveva anche quando non c’era bisogno. Ogni tanto lo vedevi alle otto del mattino con una Budweiser in mano». Continuò. «Eravamo in Texas. Ci restammo una settimana, noi quattro, quando ancora Rusty era tra noi. Io non ero più fidanzato mentre Leonard lo era ancora e di lì a poco si sarebbe sposato. Diciamo che quella settimana era come il suo addio al celibato. Io andai a letto con una del ranch che ci ospitava. Una bella ventenne. Credo ne avesse venticinque. Io ne avevo circa trentacinque. Forse poco meno, boh. Leonard invece rifiutò le avances di una bella mora con una quarta da farti bollire il sangue. Era un uomo molto fedele e giusto nonostante il suo vizio. Noi però volevamo che si divertisse un po’». Aveva sete e allora buttò giù un’altra sorsata. Ormai era sotto la metà delboccale. «Convincemmo la mora a entrare in camera sua e ad aspettarlo nuda nel letto. Quella sera cenammo nella trattoria lì vicino e, all’ora pattuita con la donna, ci avviammo ognuno per la sua stanza. Dopo esserci salutati, fingemmo di entrare nelle camere e seguimmo Leonard fino alla sua. Lui aprì e noi ci nascondemmo dietro la porta per origliare. Non fu necessario. Appena vide la donna lanciò un urlo da far crepare le finestre. Continuava a urlare: “Copriti! Copriti! Mi devo sposare tra due giorni! Copriti, cazzo!”. La donna uscì stizzita dalla stanza e, trovandoci fuori, ci prese a calci e schiaffi a tutti e tre. Poi se ne andò urlandoci contro insulti e bestemmie».
Alan sorrise alla storiella. Sentiva in ogni parola il legame che il vecchio aveva con i suoi amici, fantasmi di un passato perduto e riesumato nelle nubi del suo bar. «Magari se viene qui vi offro da bere a entrambi. La mia birra sai che è una delle piùbuone. Così sentirò la storia raccontata da lui. Immagino sia un po’ meno divertente la sua versione».
Chinò la testa e sorrise ancora lievemente, ma con un alone di tristezza o malessere negli occhi.
«Credo che stia bevendo il nettare degli dei ora, e non ne stia lasciando neanche una goccia ai santi per bagnarsi il becco».
Alan capì ma non seppe cosa dire. Stava per scusarsi quando fu interrotto da John.
«È morto quasi otto anni fa. Un idiota ubriaco lo ha investito ed è morto sul colpo. Ironico vero? Lui che beveva così tanto che probabilmente eri più fortunato a trovarlo ubriaco che senza un bicchiere in mano. La moglie è ancora viva ma in uno stato che definire “depresso” sarebbe come dire che fa crociere ogni weekend. Mi chiedo come mai non si sia ancora tolta la vita».
«Mi dispiace, John…»
«Anche a me… Ma più che ricordarmi dei miei amici e delle nostre bravate o delle nostre passeggiate noiose non posso fare. Mi è rimasto solo il ricordo e lo posso vivere solo raccontandolo».
Alan ora lo guardava un po’ imbarazzato.
John, come se sentisse il peso della situazione, continuò a parlare come se nulla fosse. Come se solo si stesse ricordando una barzelletta o vicende unicamente piacevoli che poi sarebbero rientrate nella sua vita reale subito dopo. Ma erano solo reminiscenze e forse anche sfumate dall’alcol.
«Donnie non finiva mai di giocare a carte».
A volte Alan faceva fatica a seguirlo per il suo modo di raccontare, passando da un amico all’altro all’improvviso. John spostò lo sguardo sul barista fissandolo intensamente. Alan notò gli occhi un po’ lucidi. La birra? L’aria angusta della bettola? O il cuore che si spezzava?
«Aveva ogni volta un diavolo ditrucco nuovo. Ci faceva pescare ogni santa volta delle carte, noi le guardavamo, lui le rimescolava e le tirava fuori dal suo diabolico mazzetto. Non ci hai mai spiegato nessuno dei suoi giochetti, ne era molto geloso». Si passò una mano tra i capelli bianchi e morbidi come le spugne ferrose con cui si puliscono i lavandini.
Ormai il suo boccale era quasi vuoto e forse riusciva a scorgere gli aloni del fondo che Alan non riusciva mai a togliere. Magari la luce forte della lampadina avrebbe nascosto la macchia mentre alzava il bicchiere per bere.
«Una volta un trucco me lo svelò. Eravamo in vacanza, non ricordo dove però…» e nel precisarlo fece un gesto con la mano come se stesse scacciando una mosca fastidiosa, come se gli impedisse di vedere il suo passato nitidamente. O in realtà era una povera farfalla che chiedeva solo un po’ di riposo dopo tanto volare negli anni. Ma la mente di John eratroppo vecchia per permettere che altri ricordi continuassero a vivere e bruciare. Doveva farli volare via tutti. «Gli altri dormivano nella casa che ci era stata data. Casa è una parola grossa. Un cesso e quattro brande. Ma non passavamo altro che le ore buie lì dentro. Una notte rimanemmo fuori, io e Donnie. Avevamo un piccolo tavolino e due sedie e lì noi due bevemmo e giocammo fino all’alba. Eravamo alla sesta o settima birra. Un paio di bicchierini di spumante offerto dalla barista del villaggio turistico ci fece rintronare del tutto. Ricordo solo gli occhi arrossati di Donnie e il suo sorriso stupido spiccicato in faccia perché tutto l’alcol che aveva in corpo lo obbligava a sorridere e ad avere quell’espressione. Finita una partita delle tante mi fece uno dei suoi giochetti. Ovviamente non ci capii nulla e alla fine, come quasi ogni volta, gli domandai: “Donnie, ma come fai? Spiegamene almeno uno”».Fermò il racconto bruscamente, forse per ricordare meglio la storia o per rivivere il momento e il minuto e il secondo rivedendo al rallentatore ogni parola o espressione o sentire addosso ogni flebile alito di vento di quella notte.
«Sai cosa disse?» ruppe l’attesa di Alan quasi spaventandolo.
«Cosa, John?» era sinceramente curioso. Era di nuovo con i gomiti appoggiati intento a sentire le storie del vecchio.
«Amico mio… è solo illusione. Come del resto quasi tutto ciò che vedi su questo pianeta o nei volti delle persone. Un’illusione, un gioco, un trucco chiamalo come ti fa più comodo, ma è solo questo. Sai perché non spiego mai i miei giochini? Perché dopo svelato il segreto, cosa c’è a renderlo così interessante? Non vedresti più un uomo con qualcosa che lo rende affascinante o divertente, vedresti un mazzo di carte senza alcun valore e uno sciocco che ci giocastupidamente. Questo nei miei giochi come in ogni giorno».
Passarono alcuni minuti prima che John riattaccasse a parlare. In quel momento Alan vide nelle parole di Donnie qualcosa che lo riguardava. Non sapeva bene cosa, ma qualcosa lo aveva colpito casualmente nel profondo, toccandolo.
«Anche lui era un’illusione. Il mio migliore amico con cui ho fatto il viaggio era un trucco anche lui probabilmente. Ma è stato davvero un bel trucco finché non è andato via…»
«È morto anche lui?»
«No, no… Cioè, ora probabilmente sì. Ma circa sei anni fa è partito per non so quale posto dell’Europa ed ho perso le sue tracce. Sapevo che stava male, me lo disse in un paio di lettere che mi mandò. Io risposi ovviamente, ma a un certo punto aveva smesso di scrivermi». Un lieve sorriso amaro passò sul volto.
Si sorride perché piangere a volte è più doloroso.E lo si fa a qualsiasi età.
Finì il boccale in un ultimo grande sorso. Si pulì la bocca con il polso.
«Alan, come sempre è stato un piacere fare quattro chiacchiere con te». Pagò e si alzò.
Alan pensieroso raccolse i soldi ma non riuscì a trattenere la domanda: «Ma… John, aspetta…»
Il vecchio si voltò: «Dimmi…»
«Il viaggio…hai dimenticato di raccontarmelo. Qual è questo viaggio che hai fatto?» Era vecchio ed era normale che si dimenticasse le cose, suppose.
«Eh… Alan, con chi ho parlato sinora?»
Sorrise, ma Alan non comprese.
«Questo è stato il viaggio migliore della mia vita. Come potrei averne altri? Non so quanti, ma credo quasi sessant’anni di momenti con i miei compagni. E ora non riesco a vivere senza che non mi senta ogni notte solo. Spero di raggiungerli presto così potrò continuare a viaggiare conloro, Alan. Il viaggio di noi quattro finirà con me. Ma è stato un bel cammino durato una vita. A domani sera».
Nell’ombra Alan non riuscì a vederne il viso, ma la voce incrinata dimostrava più sofferenza di quanta ne volesse sentire, nonostante il suo tono volesse esprimere ancora quel sorriso, cercando inutilmente di mascherare il dolore nel volto, nella pelle, nelle ossa e nell’anima.
Forse la vita ci mette alla prova e alcune cose apparentemente brutte possono avere una ragione in un futuro molto lontano.
Forse la vita ha uno strano modo di fare ironia.
Forse era solo giunta l’ora del vecchio di andare a trovare la sua felicità perduta altrove.
Passarono alcuni giorni e John non portava più i suoi racconti nella bettola.
«Ehi, Alan!»
Berrie era il chiacchierone di zona.Ogni quartiere ne ha uno o anche di più.
«Berrie… il solito?» disse con noncuranza Alan.
«Sì, sì, il solito…»
Parlarono del più e del meno, di sport, di donne, di cavolate. Poi, senza un motivo ben preciso, Berrie fece caso alla poca affluenza del posto da un paio di giorni.
«Cavolo, Alan, stai messo maluccio… almeno prima c’era il vecchio cantastorie che veniva a trovarti…» e bevve.
«Già, è una settimana che non si fa vivo» rispose il barista inumidendo lo straccio sotto il lavabo.
«E come potrebbe? L’hanno trovato morto in casa sua un po’ di giorni fa».
«Come?!» L’espressione di stupore e forse rabbia sul volto di Alan fecero cambiare tono a Berrie.
«Sì… non l’hai saputo? Morto nel sonno, dicono… Poveraccio».
«Cazzo Berrie, spari tante stronzate su tutti e l’unica cosa importante non ti sei ricordato di dirla?!»
Berrie rimase perplesso. «Ehi, Alan… Non credevo fosse amico tuo. Sapevo che lo detestavi perché ti annoiava con le sue chiacchiere… Mi spiace».
«Non lo detestavo affatto.».
Non sapeva cos’altro dire. Non lo detestava, era vero, ma solo da quella sera l’aveva considerato in un modo diverso dal solito. Aveva sentito nel vecchio ciò che sentiva da tempo dentro di sé.
«Era solo un pover’uomo che chiedeva una birra e qualcuno che parlasse con lui».
Berrie sembrava non lo avesse neanche sentito. Continuò a bere senza più proferire parola, però.
Ed ecco la vita come funziona… Un altro esempio di ironia macabra e inutilmente sadica.
Alcuni giorni dopo la notizia, un uomo si presentò al bancone di Alan.
«Mi darebbe un pinta rossa?»«Certamente».
Alan notò che era un uomo anziano, con un bel soprabito marrone e un cappello di quelli che ormai non si vedono più neanche nei robivecchi.
«È davvero un bel bar». Era uno dei pochi ad apprezzare una bettola del genere.
«La ringrazio» rispose in modo distaccato Alan.
L’uomo stava sorridendo. «Il mio amico lo avrebbe sicuramente apprezzato più di me».
Continuò a bere la sua rossa come un vampiro fa con il collo candido e dolce di una bella donna sorseggiandone avidamente il sangue. Emise un sospiro di piacere una volta buttato giù un sorso consistente di birra.
Il barista vedeva tanta gente andare e venire e sapeva riconoscere a prima vista un forestiero.
«Siete di passaggio?»
«Sono venuto qui per trovare un amico con cui non ho più contatti da anni. Ho dovuto cambiare luogo incontinuazione per via del mio lavoro, ma ormai sono in pensione e mi godo gli ultimi anni tra una bevuta e l’altra. Credo abiti in questo quartiere».
«Capisco». Alan mise il bicchiere pulito, o quasi, sotto il bancone insieme agli altri.
«Ehi, vuole fare un gioco?» domandò lo straniero.
«Prego?»
Prese qualcosa dal cappotto e gliela mostrò. Era un mazzo di carte in una scatola consunta e sporca. Le tirò fuori e cominciò a mescolarle.
«Forza, prenda una carta…» disse sorridendo.
Non poteva essere vero, pensò Alan. “Non è lui. È solo una coincidenza…”
«Certo…» disse riluttante.
Prese l’asso di picche e, dopo averlo osservato, lo rimise nel mazzo senza farlo vedere allo sconosciuto. Lui sorridendo mescolò le carte. Le cominciò a mettere una dopo l’altraa faccia in giù formando una fila lunghissima. A un certo punto si bloccò. Prese l’ultima carta che aveva posizionato e mostrandola ad Alan disse: «Eccola. Scommetto che è lei».
«Impressionante…» rispose turbato.
«La ringrazio». Fece un lieve inchino e si tolse il cappello.
«Posso chiederle il nome del suo amico? In un bar si ferma sempre tanta gente. Potrei esserle d’aiuto».
«Non le nascondo che sono qui proprio per questo. Questo mio amico, come le ho già detto, credo abiti in questo quartiere. Le lettere mi arrivavano da qui. Si chiama John Leonardi».
«Cognome italiano…»
Il vecchio si chiamava John, ma non era sicuro di sapere il suo cognome.
«Già… Comunque il mio nome è Donnie Martins. Scusi la maleducazione» sorrise e gli porse la mano.
Alan la strinse al rallentatore.Continuò a bere dal boccale il suo amaro sangue chiedendo speranzoso: «Allora, il nome le dice niente?»
«Mi dice troppo, signor Martins. Si sieda per favore».
Il sorriso di Donnie si affievolì man mano che il barista parlava. Lo sguardo sgomento e incredulo prese il posto del raggiante calore che poco prima emanava ed eliminò l’allegria che sprigionavano i suoi occhi voraci nonostante l’età. Chinò il capo e si tolse il cappello. Lo accartocciò al petto e farfugliò qualcosa. Alan comprese solo la parola “John” ripetuta più e più volte. Chiamava quel nome fissando Alan negli occhi, sperando stesse dicendo una menzogna, quasi odiandolo un po’ per quel dolore che gli stava recando.
«Mi dispiace».
Donnie si rialzò dal bancone dove si era chinato, poggiando la fronte sul braccio disteso sul miscuglio di birra e altri cocktail che lo straccio di Alan non avrebbero in alcun modopotuto assorbire. Il soprabito ora aveva una macchia enorme fino al gomito che partiva dal polso.
«Caro vecchio stupido John…»
Lasciò più di quanto dovuto al barista e uscì quasi tentoni dal locale. Aveva ancora il cappello in mano, ma poco prima di uscire lo rimise in testa in malo modo.
Alan fissò il vuoto nel locale e percepì quello che albergava ora dentro di sé. Dopo tanto tempo sentiva una sensazione che lo rendeva debole e ferito. Per un uomo che ogni tanto beveva al suo bar, un vecchio rintronava chiunque con le sue storie da pazzo.
«Non era un pazzo…» si sentii parlare a se stesso, volendo difendere quel cantastorie da accuse che nessuno aveva fatto. «Il viaggio non era finito con te, John. Credo che ti sia perso un piccolo tratto di strada…»
Berrie per farsi perdonare fece sapere ad Alan dove avevano seppellito il vecchio. Andò al cimitero e cercò lasua tomba per portargli dei fiori. Era come se si sentisse in obbligo quasi e non sapeva perché. Aveva persino chiuso prima quella sera, appositamente.
Trovò la tomba dell’uomo, ma prima che si avvicinasse vide una figura con il soprabito e il cappello, in ginocchio vicino alla lapide. Si stava portando un braccio al volto per poi strusciarlo come un bambino all’altezza degli occhi. Dopodiché prese una bottiglia che aveva lì con sé e trangugiò avidamente un lungo sorso. Terse il resto sulla pietra sepolcrale, facendo colare del liquido sulla terra che scaldava il letto di morte del vecchio amico. Donnie si voltò e andò via.
Alan non lo vide più da quel giorno.
Quando Donnie era lontano, uscito dal cimitero da un’altra uscita rispetto alla sua posizione, si avvicinò alla tomba. Il liquido che la bagnava era birra. La loro ultima bevuta assieme.
Alan si fermò dinanzi alla lapide edelicatamente pose i fiori in terra. Rialzandosi vide cosa era stato scritto nella pietra.
“John Leonardi.
Nato _/_/_
Morto 25/10/2013”
Non sapeva nessuno quando fosse nato. Probabilmente nessuno sapeva nulla di lui e del suo “viaggio” quando era in realtà solo una vita passata forse troppo in fretta per lui. Capiva quanto dovesse sentirsi solo per affidare la cosa più importante a un barista sconosciuto che approfittava di lui come un passatempo, a volte.
«Il Viaggio per te è finito, John. Felice di averti conosciuto e ti ringrazio per le tue storie».
Un viaggio è per molti un modo di passare da un luogo a un altro. Oppure è il tragitto che dura un sogno nelle notti più stanche. Un viaggio che si può fare sulle note di un jazz lento e apparentemente triste, ma che in realtà suona al ritmo del nostro malessere e culla delicatamente la nostra anima. Un viaggio sono i ricordi di una vita che noi abbiamo trascorso con le persone più care. Accompagnata dalle sue avventure, le più noiose, le più belle, le più dolorose, le più strane: tutte formano un unico grande viaggio che nessuno sa che sta percorrendo o vivendo. La maggior parte di noi può lamentarsi di un dolore o godere di una gioia, ma pochi gustano ogni singolo momento ricordandosi che in realtà sono su una strada senza fine e che potranno passarci sopra finché vorranno o finché le ossa li regge in piedi. Non si vede la fine, ma solo terra e asfalto. Un’auto abitata dai cuori e dalle menti che scegliamo per farci compagnia, corre quanto basta indipendentemente dal nostro volere. Alcuni di questi cuori andranno via, alcune menti si perderanno per strada o cambieranno e vorranno scendere, i posti nell’auto si svuoteranno. Guideremo per un po’ soli, senza nessuno, con il lato passeggero libero. Ma qualcuno farà l’autostop e ci chiederà un passaggio. Per dove? Ovunque noi vogliamo andare lui o lei ci seguirà. E si viaggia ancora finché il destino lo permette. Alcuni lo sanno.
John lo sapeva.
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Il Viaggio
Short StoryTroverete le altre storie nella mia raccolta di racconti su Amazon " Visioni sotto un anfratto di stelle". Vi vorrei ricordare che sono online anche "Dopo il Tramonto" ( anche versione cartacea e on inglese) e "Nel limbo del buio" Buona lettura