Riecheggiava in tutta la casa la sonata per violino numero 7 a Kreutzer, di Beethoven.
Risuonava sì, ma non come Jimin voleva.
Continuava, perpetuo, a scorrere l'archetto sulle corde appena cambiate, nuovissime, fatte aggiustare dal suo Maestro, e si era cimentato in quel brano complesso che lui non sarebbe mai riuscito ad imparare.
Il suo sguardo era aggrottato, concentrato, ma prima di tutto sconfortato all'idea che quella non fosse una sonata per lui.
E perché mai studiarla se lui la musica non riusciva a sentirla così vicina come avrebbe voluto?
E perché mai continuare a suonare se ora era grande, non costretto dalla figura paterna a proseguire gli studi, autonomo, in una nuova casa e libero di fare ciò che voleva?
La risposta che aveva trovato in quegli anni era quella di essere rimasto intrappolato in essa.
In cosa? La musica.
Eppure lui la musica l'amava così tanto, tanto delicata pareva sulle sue dita che tenevano salde lo strumento che per quei pochi anni lo avevano accompagnato in un periodo che però lui avrebbe tanto voluto lasciare nel passato.
Ma no, era ancora lì.
Che fosse passato o presente, lui era ancora incollato a quello strumento e cercava di suonarlo, tanto bello quanto anonimo, per colui che amava.
Il violino forse non era il suo strumento.
E quell'opera ora gli riusciva così difficile, come se già non lo fosse stata, e si trovava ad interrompersi e ad imprecare, per poi riprendere, ricominciare daccapo.
Quella sonata che durava all'incirca quaranta minuti, e che stava ripetendo ormai da due ore.
Ed era snervante, ed era angustiante.
E no, lui non si concedeva a pause.
E perché mai suo padre avesse insistito tanto a fargli suonare il violino, non lo capiva, non lo comprendeva.
Aveva insistito tanto, a lungo, come se ci perdesse la vita a non veder suo figlio suonare.
Ma cosa aveva ottenuto in cambio? Suo figlio non sapeva farlo, neanche dopo anni, neanche dopo pomeriggi interi di studio.
- Cazzo! -
L'ennesima imprecazione, seguita da un abbassare di getto le braccia, lasciandole morte lungo i fianchi, guardando il vuoto davanti a sé con rabbia, ma soprattutto tristezza immensa, come se si sentisse un fallimento, come se fosse un fallimento.
Quasi aveva le lacrime agli occhi, se non si considera il sudore che gli imperlava il viso e la pelle, quello che asciugava con un gesto lesto del polso.
Sul suo collo già era comparso un livido da un'ora buona, per tutte le volte che per sbaglio aveva poggiato con troppa prepotenza lo strumento contro la sua pelle; ma aveva fatto finta di niente ed il dolore in quella parte così delicata del suo collo non sembrava scalfirlo.
Ed ora si ritrovava a respirare affannosamente, tirando su col naso come se chissà quale fatica avesse compiuto.
I muscoli delle sue braccia erano tesi e gli tremavano le mani e il corpo per i nervi e per lo sforzo.
Era stanco, ma stanco non solo da due ore.
Avrebbe smesso, avrebbe potuto farlo, ma volle riprendere.
Fu a quel punto che una voce dietro di lui, qualcuno che lo aveva osservato da tempo, decise di prendere parola e in qualche modo fermarlo.
- Hai un po' rotto i coglioni. -
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Cervelli Riciclati || yoonmin os
Conto[ YOONMIN ONE SHOT ] Chi non sa usare il cervello, lo prende e lo getta nella pattumiera. Qualcun altro ha il compito di ricomporlo con altro materiale, lo riassetta, sperando di fare un buon lavoro: ma peggiora solo le cose. Questo è un cervello r...