Ne: Il faro di Mussolini Alberto Alpozzi pennella in maniera sintetica ma comunque esaustiva tutta l'esperienza coloniale italiana in Somalia a partire dal 1889, contestualizzandola nello scenario internazionale che con l'apertura del Canale di Suez cambia totalmente le prospettive e gli obiettivi delle nazioni europee. Prima ancora di arrivare alla storia effettiva del faro, Alpozzi rievoca lo scontro tra gli eredi dei Mille – Francesco Crispi su tutti – e i burocrati dell'italietta liberale. I primi uomini d'azione, sognatori e avventurieri che volevano portare l'Italia ad essere protagonista attiva della storia e farla affacciare in Africa per non perdere i nuovi sbocchi portati dall'apertura del canale di Suez, i secondi invece tecnocrati reazionari spaventati da ogni rischio e da ogni nuova avventura, che preferiscono l'attesa passiva all'azione. I discorsi di Crispi davanti al parlamento per spingere l'Italia in Africa richiamano subito al lettore i toni e le parole che meno di mezzo secolo dopo avrebbero caratterizzato i discorsi mussoliniani e bastano quelle poche righe riportate dall'Autore per mettere un punto definitivo alla polemica su chi effettivamente siano stati gli eredi del Risorgimento. Ma il libro è anche la rievocazione e il ricordo degli avventurieri ed esploratori italiani che con il loro esempio e spesso anche con il loro sacrificio hanno aperto la strada per il Corno d'Africa – e anche qui notiamo come i primi furono proprio eroi del Risorgimento, da Nino Bixio a Manfredo Camperio – e dei comandanti e dei soldati che hanno difeso il capo Guadafui dalle incursioni dei banditi che per anni hanno terrorizzato le navi di ogni nazione che si affacciavano in quel pericolosissimo sbocco verso le Indie. Ma forse l'aspetto più interessante del libro è l'analisi del ruolo italiano in Africa, dapprima timido e a tratti incompetente anche se coraggioso e poi totalmente rivoluzionato con l'avvento del Fascismo, che per primo risolse il trentennale problema della costruzione del faro sul capo di Guadafui – intitolato proprio a quel Francesco Crispi che volle l'Italia in Africa – e che da anni veniva richiesto da tutte le nazioni europee che in quel punto perdevano navi, uomini e investimenti. Nella seconda parte del libro Alpozzi esamina tutti i lavori tecnici, urbanistici, stradali e tutte le opere e infrastrutture che il governo mussolinano realizzò in Somalia, trasformando un paese inospitale e temuto da tutte le nazioni in un vero e proprio faro – anch'esso – di tutto il mondo coloniale tanto da diventare meta per crociere turistiche e per studiosi. L'elenco di dati, minuziosamente riportati dall'Autore, sulle opere italiane in Somalia e sulla politica adottata per far progredire la Somalia basta da solo a demolire anni di slogan usati dalla vulgata che ha voluto demonizzare il comportamento italiano in Africa. Come anche le parole di un inglese, tutt'altro che fascista, come Evelyn Waugh che dopo il suo viaggio in Abissinia nel 1936 ebbe a dire "l'idea di conquistare un Paese per andarci a lavorare, di trattare un Impero come un luogo dove bisogna portare delle cose, un luogo che deve essere fertilizzato, coltivato e reso più bello invece che un luogo da cui le cose è possibile portarsele via, un luogo da depredare e spopolare. L'idea di lavorare invece che starsene sdraiati a oziare come padroni, tutto questo era estraneo ai pensieri inglesi, e invece è il principio che sta alla base dell'occupazione italiana". Come dice lo stesso Alberto Alpozzi, "le parole dell'inglese non necessitano commenti". ll primo atto ufficiale compiuto da De Bono subito dopo l'inizio del conflitto fu appunto la liberazione degli schiavi. Il 14 ottobre 1935 ad Adua promulgò il bando che metteva fuori legge lo schiavismo nella regione del Tigrè. E non poteva non farlo: l'abolizione della schiavitù era il principale motivo con cui l'Italia giustificava l'aggressione all'Etiopia davanti alla Lega delle Nazioni. Nel corso della guerra appena iniziata assunse una tattica prudente e fu per questo sostituito con Pietro Badoglio.Indro Montanelli, giovane sott'ufficiale in quella guerra coloniale fuori tempo, testimone oculare che giurava di non aver mai visto usare armi chimiche, non parlava tanto da storico, ma da "testimone", da "piccolo ufficiale subalterno" che aveva partecipato a quella guerra rovinosa se ci furono, vennero usati solo a scopo sperimentale in episodi marginali, forse da Graziani a Neghelli. Lo testimoniano il colonnello Spelorzo, Giovanni De simone, Pietro Romano, Generale Bastiani, (non dimentichiamo i proiettili esplosivi Dum-Dum banditi dalle convenzioni internazionali del 1901, usati per la caccia agli elefanti
In realtà gli italiani usarono armi chimiche, ma esse non furono determinanti in un conflitto dove le forze in campo erano davvero sproporzionate.
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COLONIALISMO ITALIANO DURANTE IL FASCISMO
Historical Fictionciò che vedrete scritto non è realizzato da me ma da una pagina Instagram che per evitare che venga chiusa. (cosa successo molto di recente con altre pagine) non dirò il nome buona lettura.