Venticinque Aprile 2016.
"Incidente a Roma sulla tangenziale: una ragazza è rimasta ferita e in stato di incoscienza" queste furono le parole della conduttrice del telegiornale, che come ogni sera passava in rassegna i titoli. È facile raccontare queste storie quando la narrazione parte da un punto di vista spassionato. Angela era a casa, mostrando compassione per la malcapitata; il telefono squillò, e quella chiamata le avrebbe sconvolto la vita: quella ragazza era sua figlia. La sua auto blu era distrutta dall'autista di una Jeep che guidava contromano, fuggito subito dopo. Avvisò suo marito e si diressero immediatamente sul posto: la macchina era fumante e l'ambulanza era già sul posto. I paramedici fecero i soliti controlli di routine, ma la ragazza non dava segni di vita, nemmeno alle urla di sua madre. Il poliziotto afferrò la povera donna, allontanandola dalla scena. L'agente spiegò ai genitori la dinamica dell'incidente. Era stata soccorsa da alcuni passanti, ma non rispondeva già più. Angela sentì la terra scomparire sotto i suoi piedi, lasciandosi andare tra le braccia di suo marito. Non gli restava altro che dirigersi in ospedale, dove passarono le prossime due ore, che sembravano quaranta ai due poveri genitori che vagavano per il corridoio, avanti e indietro, senza darsi pace tra quelle pareti alabastro che riflettevano lo stato d'animo dei due malcapitati. Improvvisamente, la porta della sala operatoria si aprì mostrando l'infermiera che ancora indossava la divisa apposita, mascherina e guanti. Ella si avvicinò alla madre seduta vicino al termosifone. La povera Angela, nel vederla arrivare, balzò in piedi:
- Mi dica, dottoressa, come sta? – chiese la donna disperata, mentre stringeva a sé l'icona della Madonnina che sua madre le aveva dato apposta per l'occasione.
- Sono l'infermiera che ha affiancato il dottore. Siamo riusciti a fermare l'emorragia, ma non sappiamo cosa comporterà questo incidente alla ragazza. Tutto ciò che dobbiamo fare è aspettare – disse l'infermiera dispiaciuta. In cuor suo avrebbe voluto fare di più, per consolare quella povera madre; allo stesso tempo non voleva riempirla di false speranze – vi chiedo di compilare dei moduli, di scrivere le generalità della ragazza – concluse, consegnando la cartellina azzurra con il logo dell'ospedale stampato sopra.
La madre l' afferrò e si sedette vicino a quel termosifone che nel frattempo si era spento. Le sue gambe tremavano e non faceva altro che aprire e chiudere la penna. Era sua figlia e non avrebbe di certo avuto problemi nel completare gli spazi vuoti. Nella sua mente si fecero spazio le parole che la ragazza, ora sotto anestesia le avrebbe detto: "puoi farcela". Si ripeteva questo monito nella sua testa: "posso farcela". Un velo di positività addolcì le lacrime che solcavano il suo viso. Ma la povera donna non sapeva cosa stava per accadere. L'inchiostro incominciava a fissarsi sulla carta: Hester Morale, ventiquattro anni, nubile, nata il 25 Luglio del 1994. Nessuna patologia. Disoccupata. Nello scrivere quei dati, Angela ricordò ogni secondo della vita di Hester, come se fosse ad un passo dal dirle addio per sempre. Ricordò quando lesse "La lettera scarlatta" di Nathaniel Hawthorne; era incinta di Hester e voleva che sua figlia fosse forte come la protagonista di quel romanzo che amava tanto. Ci era riuscita. Hester era una donna forte e condivideva con sua madre la passione per quel libro. Ricordò quando sua figlia si avvicinò ai romanzi di Sepulveda e di Isabel Allende; quando incominciò il suo part-time nella libreria e stava per laurearsi. Questo incidente aveva interrotto dei capitoli non ancora conclusi.
All'altro estremo del corridoio, il dottore consumava il suo solito ginseng. A quel punto l'infermiera si avvicinò all'uomo col camice bianco, seduto nella scrivania del suo ufficio. Egli, nel sentire quei passi, alzò lo sguardo verso la dolce collega che aveva nel cuore quella madre piangente per una figlia che era sospesa tra la vita e la morte e le cui sorti erano incerte, come l'esito di una partita al casinò. La donna si tolse i guanti e si sedette di fronte a lui. Il dottore passò la sua mano tra i capelli, cercando di venire a patti con le goccioline che percorrevano la sua fronte e i segni lasciati dagli occhiali protettivi e dalla mascherina.
- Ce la farà? – chiese l'infermiera, senza giri di parole.
- Sul fatto che la ragazza possa rimanere in vita sono ottimista. Sono però arrivati i risultati degli esami. Non si parla di aneurismi, ma guardi qui – disse il dottore, porgendo le lastre alla donna, che rimase impietrita. D'istinto fece il segno della croce e abbassò lo sguardo.
Ventotto Aprile 2016.
I giorni sembravano interminabili. Hester non dava segni di vita. Le infermiere del reparto di rianimazione osservavano la frequenza cardiaca, mentre le sue capacità respiratorie si affidavano ai tubi. Le tempistiche non erano certe. La ragazza avrebbe potuto aprire gli occhi anche dopo giorni, o non riaprirli affatto. Sua madre era seduta sulle sedie blu che stavano all'entrata del reparto. Passava lì giorno e notte, senza possibilità di schiodarla da parte del personale. "Non mi perdonerei mai di non esserci" così diceva. Non è possibile rimuovere una madre dal capezzale della sua bambina. Improvvisamente, la donna vide un'infermiera correre dalla rianimazione verso l'ufficio del dottore. Angela balzò in piedi, ma venne fermata dalle infermiere che erano rimaste all'entrata. Il dottore arrivò e le porte del reparto si chiusero dietro di lui. Nelle orecchie della donna solo il rumore dei battiti del suo cuore che avevano guadagnato velocità. Le mani erano tremanti e le gambe riuscivano a malapena a sostenerla. A lei si avvicinò l'infermiera che aveva assistito il dottore durante l'intervento. Prese Angela per le mani e l'accompagnò a sedere. "E' bene che sia pronta a tutto" disse, lasciando la donna singhiozzante in uno stato di agonia, che solo il responso del dottore poteva placare. Nel reparto, cinque minuti dopo, entrò anche un altro dottore; un altro ancora. Passò la prima mezz'ora. Nel frattempo, Angela era stata raggiunta da suo marito e sua madre, la nonna di Hester, che in mano teneva il suo rosario di perle, regalo del suo defunto marito. Il dottore uscì dal reparto.
- La ragazza si è svegliata – disse. Le sue parole vennero interrotte da pianti di gioia e sorrisi, che resero ancora più scomoda la posizione del dottore, che non aveva ancora finito nel riportare le notizie circa lo stato della ragazza – l'incidente ha danneggiato l'ippocampo e il lobo temporale del cervello, fondamentali per le funzioni mnemoniche dell'individuo – aggiunse.
- Cosa significa? – disse a quel punto Angela.
- Vi è la possibilità che Hester non ricordi più nulla della vita precedente – concluse il dottore.
Quelle parole suonarono come una pugnalata. Sua figlia era ancora viva, ma Angela sentiva di averla persa comunque.
- Non ha ancora chiesto di noi? – chiese la donna disperata.
- No, ma deve tener conto che l'apporto di anestetici è stato pesante. Io devo prepararvi a qualsiasi scenario. Il cervello non è una scienza esatta, o almeno non ancora – concluse il dottore, che in quel momento si rese quanto difficile potesse essere trovarsi in quella situazione, di fronte quelle risposte che non era in grado di dare – dobbiamo aspettare ancora qualche ora – e se ne andò.
Intanto i vetri del reparto scoprirono ad Angela la vista di sua figlia che scrutava le luci al neon del soffitto e il crocifisso affisso sul muro azzurro. In cuor suo, tutto ciò che voleva era che sua figlia fosse felice, e non importava se non avesse memoria del suo passato; per certi versi non sarebbe stato un male. Il solo vedere Hester con gli occhi aperti e senza l'ausilio dei tubi era già motivo di grande conforto per lei. Gli occhi di Hester si diressero verso il vetro, che nascondeva chi era dall'altro lato. Non poteva vedere sua madre; dall'altro lato Angela sentì come se i loro sguardi si fossero incontrati comunque. "L'amore non può finire nel vuoto" pensava. Aveva ragione.
- Andate a riposarvi – suggerì l'infermiera.
- Forse ha ragione – disse la madre di Angela, accarezzando le braccia di sua figlia, che non aveva ancora proferito parola.
La donna, il cui sguardo traspariva sollievo misto a ansia, si voltò verso l'anziana madre mostrando il suo consenso. Le donne si diressero verso l'ascensore, pigiando il bottoncino per raggiungere il piano terra; le porte si chiusero dinnanzi a loro.
Quindi, lettori, permettete anche a me di far calare il sipario.
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Riportami a casa.
Short StoryHester, ventiquattro anni, tornava a casa come ogni sera. Un fuoristrada contromano colpì la sua auto, scaraventando il veicolo dall'altra parte della strada. I passanti si precipitarono ad aiutare la ragazza, il cui capo era adagiato sullo schienal...