Il grande Gatsby

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Nella mia prima giovinezza, quella più vulnerabile, mio padre mi diede un consiglio su cui, da allora, non ho maismesso di riflettere."Ogni volta che ti viene voglia di criticare qualcuno" mi disse "ricorda che non tutti al mondo hanno goduto dei tuoi privilegi".Non aggiunse altro, ma capii che intendeva dire molto di più:siamo sempre stati insolitamente comunicativi, nonostante la nostra riservatezza. Da quel consiglio deriva la mia tendenza ad evitare ogni tipo di giudizio, un'abitudine che mi ha avvicinato moltipersonaggi strani, ma che al contempo mi ha reso vittima di nonpochi seccatori seriali.La mente anormale è molto sensibile verso questa peculiaritàe vi si aggrappa non appena la scorge in una persona ordinariacosicché all'università fui ingiustamente accusato di essere un politicante poiché conoscevo i segreti disperati di uomini pazzi e sconosciuti. Le confidenze, nella maggior parte dei casi, non erano dame stimolate – spesso ho finto di aver sonno, di essere preoccupatoper qualcosa, sono arrivato ad ostentare un'indifferenza ostile nonappena intuivo, da qualche segno inconfondibile, che all'orizzontesi profilava la confessione di qualche segreto intimo – perché lerivelazioni intime dei giovani, o perlomeno le parole che usano peresprimerle, difficilmente sono originali e spesso suonano implausiCapitolo PrimoIl Grande Gatsby36bili per via di evidenti omissioni. Eludere i giudizi, quindi, diventafonte di speranza infinita. Ho ancora un leggero timore di poterperdere qualcosa dimenticando che, come col suo consueto snobismo mi rammentava mio padre e come col medesimo snobismovado ripetendo io, il senso della dignità fondamentale è distribuitoiniquamente alla nascita.Ma ora, dopo essermi vantato oltremodo della mia tolleranza,tocca ammetterne i limiti. La condotta morale può poggiare sullaroccia più dura e compatta o su paludi acquitrinose eppure, superato un certo limite, non m'importa più su cosa sia fondata. Quandorientrai dall'Est, lo scorso autunno, anelavo ad un mondo in uniforme, paralizzato in una sorta di eterno "attenti" morale; ero completamente stufo delle privilegiate ed indomite incursioni nel cuoreumano. Soltanto Gatsby, l'uomo che presta il proprio nome a questa storia, era escluso da quella mia reazione – proprio Gatsby cherappresentava tutto ciò per cui nutrivo il più puro disprezzo. Se lapersonalità fosse una serie ininterrotta di scelte di successo, bisognaammettere che in lui c'era qualcosa di grandioso, una sorta di sensibilità sopraffina per quanto di meglio la vita avesse da offrirti per ilfuturo, quasi fosse una di quelle macchine in grado di registrare unterremoto a diecimila miglia di distanza. Questa sua capacità nonaveva nulla in comune con quella flaccida impressionabilità classificata come "temperamento creativo" – la sua era una straordinariapropensione alla speranza, una romantica reattività come mai prima di allora avevo riscontrato in nessuno e che, difficilmente, miriuscirà di ritrovare. No – Gatsby alla fine ne venne fuori onesto,pulito; fu ciò che lo turbava, la polvere immonda che aleggiava sullascia dei suoi sogni, a distrarmi per un po' dal mio interesse per lepiccole miserie e per gli altrettanto effimeri successi degli uomini.La mia è una famiglia conosciuta, gente benestante che vive datre generazioni in questa città del Middle West. I Carraway sono Capitolo Primo37una sorta di clan e la tradizione pare li voglia discendenti dei Duchidi Buccleuch, ma, in tempi più recenti, è al fratello di mio nonnoche si può ricondurre il nostro ramo; giunse qui nel '51, mandò unsostituto alla Guerra Civile ed avviò un commercio all'ingrosso diferramenta, impresa che oggi porta avanti mio padre.Non ho mai conosciuto questo prozio, ma pare che gli somigli– in particolare pare che rassomigli al suo ritratto, dall'espressionepiuttosto dura, che sta appeso nello studio di mio padre. Mi laureainel 1915 a New Haven appena un quarto di secolo dopo mio padre, giusto in tempo per prendere parte a quella tardiva migrazioneTeutonica nota come la Grande Guerra. Ebbi modo di apprezzare così a fondo la controffensiva che tornai irrequieto. Il MiddleWest piuttosto che il centro del mondo, mi appariva come l'orloslabbrato dell'universo – così decisi di partire per l'Est a studiareil commercio in borsa. Chiunque conoscessi lavorava in borsa, cosìimmaginai che quel settore potesse sfamare un altro uomo. Tuttele mie zie e gli zii, interpellati, rispondevano come se stessero scegliendo per me una di quelle scuole di formazione quindi concludevano "Mah siii" con facce esitanti e molto seriose. Papà accettòdi finanziarmi per un anno e, dopo svariati rinvii, partii per l'Estnella primavera del '22, credendo di andar via per sempre.La sistemazione più pratica sarebbe stata un alloggio in città,ma era una stagione calda ed io avevo appena lasciato la campagnacon praterie sconfinate ed alberi amabili così quando un ragazzoin ufficio mi propose di condividere una casa in una cittadina lìvicino, mi sembrò una grandiosa idea. Trovò la casa, un vecchiobungalow di cartone logorato dalle intemperie, ad ottanta dollarial mese, ma all'ultimo minuto l'azienda gli impose il trasferimentoa Washington ed io me ne andai da solo in campagna. Avevo uncane, o almeno lo ebbi per qualche giorno finché non se ne scappòvia, una vecchia Dodge e una domestica finlandese che mi rifaceva Il Grande Gatsby38il letto e preparava da mangiare mormorando dei proverbi finnicimentre trafficava col fornello elettrico.Provai la solitudine per un giorno o almeno fin quando non fuifermato per strada da un uomo giunto lì dopo di me.«Qual è la strada per West Egg?» mi chiese in preda alla disperazione.Gli risposi. E nel riprendere a passeggiare, sentii la solitudinesvanire. Ora ero una guida, un esploratore, un indigeno. Quell'uomo mi aveva conferito, del tutto casualmente, il diritto di cittadinanza nel quartiere.E così, con la luce del sole e le grandiose esplosioni di foglie suglialberi – esattamente come si vedono crescere le cose nei filmati accelerati – ebbi la netta percezione che la vita ricominciasse con l'estate.C'era tanto da studiare e potevo respirare a pieni polmoni un'aria fresca, giovane e salutare. Avevo comprato una dozzina di volumi sulla tecnica bancaria, sul credito e sui titoli di investimentoed ora erano tutti allineati sul mio scaffale, in rosso ed oro, simili amoneta nuova di zecca, con la promessa di svelarmi fulgidi segretiche soltanto Mida, Morgan e Mecenate avevano conosciuto. Edero convinto che dopo questi ne avrei letti molti altri ancora. Alcollege ero stato un letterato – un anno scrissi una serie di editorialiper il "Yale News" dal registro molto solenne ed esplicito – ed orastavo per recuperare tutto questo, stavo per diventare di nuovo ilpiù settoriale degli specialisti, l'uomo "ben avviato". Questo nonè soltanto un epigramma – la vita, dopo tutto, appare molto piùbrillante se la si considera da un solo punto di vista.Fu soltanto per una questione di fortuna che affittai casa in unodei luoghi più strani del Nord America. Su quest'isola slanciata erigogliosa che si estende precisamente ad est di New York, tra le altre curiosità naturali, ci sono due insoliti promontori. A venti migliadalla città, due enormi uova, identiche nella forma e separate soltanto da una baia disegnata con garbo, si gettano nello specchio d'ac-Capitolo Primo39qua salata più addomesticato dell'Emisfero Occidentale, il grandiosocortile umido di Long Island Sound. Non si tratta di ovali perfetti– come nella favola dell'uovo di Colombo, sono entrambe schiacciatesul lato dove si ricongiungono – ma di sicuro la loro somiglianza fisica deve essere costante fonte di stupore per i gabbiani che ci volanosopra. Per tutti coloro che invece sono sprovvisti di ali, il fenomeno più interessante che vi si riscontra è la profonda differenza sottoqualsiasi aspetto, eccezion fatta che per forma e dimensioni.Io abitavo a West Egg, la... beh sì, la meno alla moda delle due,anche se questa è una maniera piuttosto superficiale per esprimerela bizzarra e un po' misteriosa differenza che c'era tra loro. La miacasa si trovava sull'estremità dell'uovo, a sole cinquanta iarde dallaspiaggia, schiacciata tra due enormi edifici che venivano affittatiper dodici o quindici mila dollari a stagione. Quello sulla mia destra era qualcosa di colossale sotto ogni punto di vista – la copiaesatta di un Hotel de Ville in Normandia, con una torre su di unlato, di recentissima costruzione e ricoperta da una rada barbettadi edera ancora troppo giovane, una piscina in marmo e più diquaranta ettari di prato e giardino. Era la villa di Gatsby. O meglio,poiché ancora non conoscevo il signor Gatsby, era la villa di ungentiluomo con quel nome. Tornando alla mia casa, era un pugnonell'occhio, ma un piccolo pugno nell'occhio, quasi trascurabile,cosicché potevo godere della vista sul mare, di uno scorcio parzialesul parco affianco e della rassicurante vicinanza di gente milionaria– tutto per ottanta dollari al mese.Al di là della graziosa baia, i luccicanti palazzi bianchi dell'esclusiva Est Egg si riflettevano sull'acqua, e si può dire che la storia diquell'estate ebbe inizio la sera che l'attraversai per andare a cenadai Buchanan. Daisy era una mia cugina di secondo grado mentre Tom l'avevo conosciuto all'università. E appena rientrato dallaguerra, avevo trascorso due giorni con loro a Chicago.Il Grande Gatsby40Il marito, oltre alle notevoli doti fisiche, era stato una delle alipiù potenti che avessero mai giocato a football a New Haven – eraun personaggio di rilievo nazionale, in un certo senso, uno di quegliuomini che raggiungono una fama così ben definita e fulgida a ventun'anni che tutto, dopo, sembra essere di importanza via via decrescente. La sua famiglia era smisuratamente facoltosa – anche all'università il suo rapporto disinvolto col denaro era motivo di biasimo– ma ora aveva lasciato Chicago e se n'era venuto nell'Est con untono, uno stile che toglieva il fiato: ad esempio s'era portato dietroun buon numero di cavallini da polo, direttamente da Lake Forest.Per un uomo della mia generazione, era davvero difficile concepirequanto ricchi si dovesse essere per fare una cosa del genere.Perché se ne fossero venuti nell'Est non lo saprò mai. Avevanopassato un anno in Francia senza un motivo particolare e poi eranoandati alla deriva senza mai fermarsi, ovunque ci fosse gente chegiocava a polo e che fosse ugualmente ricca. Questa sarebbe statauna sistemazione definitiva, mi aveva detto Daisy al telefono, mafrancamente non ci credevo – certo non potevo scrutare nel cuoredi Daisy, ma ero convinto che Tom avrebbe continuato, nostalgicamente, la sua deriva in cerca di qualche squadra di football incondizioni disperate, da risollevare.E fu così che, in una serata animata da un bel vento caldo, mirecai a Est Egg per incontrare due vecchi amici che a malapenaconoscevo. La loro casa era addirittura più grandiosa di quantopotessi immaginare. Un vivace palazzo rosso e bianco in perfetto stile coloniale Georgiano che dominava la baia. Il prato partivadalla spiaggia e correva verso l'ingresso principale per un quarto dimiglio, superando di slancio meridiane, viottoli in mattoni e giardini sfavillanti – per esaurire poi la sua corsa, una volta raggiuntala casa, risalendo sul fianco sotto forma di brillanti tralci di vite. Lafacciata era interrotta da una fila di finestre a tutta altezza, che a Capitolo Primo41quell'ora riflettevano la luce dorata del tramonto, aperte al ventocaldo del pomeriggio e Tom Buchanan, in abiti da cavallerizzo, erain piedi a gambe divaricate sulla veranda.Era cambiato dai tempi di New Haven. Adesso era un uomorobusto sulla trentina, dai capelli color paglia, una bocca dura edall'aria altezzosa. Due occhi scintillanti e superbi si erano imposticome tratto dominante sul suo volto, conferendogli un'espressione perennemente aggressiva verso chiunque avesse di fronte. L'eleganza un po' effimera del suo abbigliamento da cavallerizzo, nonriusciva minimamente a mascherare l'enorme potenza di quel corpo – sembrava quasi che stipasse a forza quei suoi stivali luccicantiprima di assicurarli con i legacci e si poteva scorgere una gran massadi muscoli in movimento quando agitava una spalla al di sotto dellagiacca. Era un corpo capace di grandi sforzi: un corpo crudele.Aveva una voce aspra dal tono roco che accresceva l'impressioned'irritabilità che emanava. C'era in essa come una nota di disprezzopaternalistico, anche nei confronti delle persone che apprezzava– e alcuni, a New Haven, lo avevano odiato per questo suo atteggiamento."Ora non credere che la mia opinione su questa faccenda siadefinitiva..." sembrava voler dire "...soltanto perché sono più fortee virile di te". Eravamo entrambi nel 'club degli anziani' e, nonostante non ci fosse mai stata una grande intimità tra noi, ho sempreavuto l'impressione che mi stimasse e volesse riuscirmi simpaticoanche se con i suoi modi rozzi ed arroganti.Parlammo per alcuni minuti al sole sulla veranda.«Ho trovato davvero un bel posticino» disse con occhi fiammeggianti ed irrequieti.Avvolgendomi con un braccio mi fece voltare mentre con unadelle sue grandi mani disegnava l'orizzonte indicandomi in lontananza il giardino all'italiana, un ettaro di rose dal profumo pene-Il Grande Gatsby42trante e un motoscafo dalla prua schiacciata che affrontava le ondeverso il mare aperto.«Apparteneva a Demaine, il petroliere.» Poi mi rigirò di nuovo,sempre con quei suoi modi garbati ma bruschi. «Andiamo dentro.»Camminammo attraverso un corridoio alto e pervaso dalla lucedel tramonto, unito alla casa soltanto attraverso delle portefinestrealle due estremità. I battenti erano socchiusi e rilucenti di un biancobrillante in netto contrasto con l'erba fresca del prato che sembrava quasi stesse crescendo, per un piccolo tratto, anche dentro casa.Soffiava una leggera brezza attraverso la stanza, gonfiava le tendespingendone un'estremità all'interno e l'altra in fuori, facendole somigliare a delle pallide bandiere ora su, verso la torta nuziale delsoffitto – e quindi giù a sfiorare il tappeto color vinaccia, creandocisopra un'ombra come il vento è solito fare sul mare.L'unico oggetto realmente immobile in quella stanza era unenorme divano sul quale erano distese due giovani donne come sesi trovassero sulla navicella di un pallone frenato. Erano entrambevestite di bianco e i loro abiti apparivano drappeggiati e fluttuanticome se fossero rientrate in quel momento da un breve volo attorno alla casa. Devo essere rimasto per qualche istante immobile adascoltare le frustate e i colpi secchi delle tende e il gemito proveniente da un quadro sulla parete. Poi ci fu un grande boato quandoTom Buchanan chiuse le finestre alle mie spalle facendo cadere ilvento catturato nella stanza e d'un tratto le tende, i tappeti e le duegiovani donne atterrarono lentamente.La più giovane delle due, non l'avevo mai vista. Era completamente distesa sul suo lato del divano, immobile, col solo mentoall'insù come se ci tenesse sopra qualcosa in equilibrio. Se puresi accorse della mia presenza con la coda degli occhi, non lo feceintuire in alcun modo – anzi, fui piuttosto sorpreso nel ritrovarmi amormorare qualche scusa per averla disturbata, entrando.Capitolo Primo43L'altra ragazza, Daisy, fece un timido accenno ad alzarsi – si protese leggermente in avanti con un'espressione premurosa – quindirise, una risata surreale ed elegante, poi anch'io risi e finalmentemossi qualche passo in avanti nella stanza.«Sono pa-paralizzata dalla felicità.»Rise di nuovo, come se avesse detto qualcosa di molto spiritoso, emi tenne la mano per qualche istante, guardandomi negli occhi, quasia volermi assicurare che nessun altro al mondo le fosse più gradito dime in quel momento. Era un suo modo di fare. Accennò, in un sussurro, che il cognome dell'equilibrista era Baker. (Ho sentito dire che Daisy fosse solita sussurrare per fare in modo che la gente le si inchinassedi fronte; una critica insignificante che nulla toglie alla sua eleganza).Ad ogni modo la signorina Baker mosse le labbra, un segnaleimpercettibile della sua attenzione e, rapidamente, rigettò la testaall'indietro – l'oggetto che teneva in equilibrio si era chiaramentemosso creandole un po' di timore. Mi ritrovai a bisbigliare, nuovamente, qualcosa di simile a delle scuse. Ho sempre apprezzatomoltissimo le dimostrazioni di completa autosufficienza.Tornai a osservare mia cugina la quale mi stava ponendo delle domande con la sua voce bassa ed inebriante. Era il tipo di voce che l'orecchiotende a seguire come se ciascuna frase fosse una melodia da non ripetersimai più. Il suo volto era triste e amabile con tutto ciò che ci brillava su,degli occhi brillanti e una bocca anch'essa brillante e passionale – ma c'era qualcosa di così eccitante in quella sua voce che difficilmente un uomoche si fosse preso cura di lei, avrebbe potuto dimenticare: una pulsionevocale, un "Ascoltami" sussurrato, la promessa che lei avrebbe reso piacevoli le ore a seguire come lo erano state quelle appena trascorse.Le raccontai che avevo fatto tappa a Chicago per un giorno, nelmio viaggio verso Est e che una dozzina di persone le inviavano messaggi di affetto.«Dici che sentono la mia mancanza?» mi chiese euforica.Il Grande Gatsby44«L'intera città è un deserto. Tutte le auto hanno la ruota posteriore sinistra dipinta di nero in segno di lutto e c'è un lamento continuo, tutte le notti, lungo la North Shore.»«Oh è fantastico! Dobbiamo tornarci Tom. Domani!» Poi aggiunse distrattamente «Dovresti vedere la bambina.»«Con molto piacere.»«Sta dormendo. Ha due anni. Non l'hai mai vista?»«Mai.»«Beh, devi vederla. Lei è...»Tom Buchanan, che era rimasto un po' assente nella stanza, sifermò appoggiandomi una mano sulla spalla.«Di cosa ti occupi, Nick?»«Lavoro in borsa."«Per chi?»Glielo dissi.«Mai sentiti nominare» osservò con decisione.Questo mi diede un po' fastidio.«Li conoscerai...» risposi piccato «Ne sentirai parlare se resterai nell'Est.»«Oh, resterò qui nell'Est, stai tranquillo» disse osservando primaDaisy quindi tornando su me come se fosse preoccupato per qualcos'altro. «Sarei un dannato scemo se pensassi di andare a vivere altrove.»A questo punto la signorina Baker esclamò «Assolutamente!» inmodo così inaspettato e rapido che ne rimasi scosso – era la primaparola che pronunciava da quando ero entrato in quella stanza.Evidentemente lei stessa ne fu sorpresa almeno quanto me poichésbadigliando si destò con una serie di movimenti rapidi ed agili.«Sono indolenzita» si lamentò. «Non ricordo più da quantotempo stavo distesa su quel divano.»«Non guardare me» le ribatté Daisy «è tutto il pomeriggio chesto cercando di portarti a New York.»Capitolo Primo45«No grazie» disse la signorina Baker rifiutando i quattro cocktailche in quel momento arrivavano dalla dispensa «Devo necessariamente mantenermi in allenamento.»Il suo ospite la guardò incredula.«Dici sul serio!?» Mandò giù il suo drink come se fosse unagoccia sul fondo del bicchiere. «Come tu riesca a portare a termineuna cosa, non arriverò mai a capirlo.»Guardai la signorina Baker, domandandomi cosa mai «avesseportato a termine.» Mi piaceva guardarla. Era una ragazza slanciata, dal seno minuto e portamento eretto che accentuava tirandoindietro il corpo nelle spalle come un giovane cadetto. I suoi occhigrigi e striati dal sole risposero al mio sguardo con educata e reciproca curiosità da un viso triste, attraente ed insoddisfatto.Fu allora che mi ricordai di averla già vista, o almeno di avervisto una sua fotografia, da qualche parte.«Lei abita a West Egg» osservò in modo sprezzante «conoscoqualcuno da quelle parti.»«Non conosco anima viva...»«Conoscerà di sicuro Gatsby.»«Gatbsy?» domandò Daisy. «Quale Gatbsy?»Prima che potessi rispondere che si trattava del mio vicino dicasa, fu annunciata la cena; incuneando con forza il suo braccioteso sotto il mio, Tom Buchanan mi spinse fuori dalla stanza, quasistesse muovendo una pedina in un'altra casella.Esili, languide, con le mani poggiate delicatamente sui fianchi,le due giovani donne ci precedettero fuori, sulla veranda coloratadalla luce del tramonto dove quattro candele tremolavano sulla tavola al lieve soffio di una brezza ormai calata.«Perché mai le candele?» obiettò Daisy aggrottando le ciglia. Lespense rapidamente con le dita. «Tra due settimane sarà il giornopiù lungo dell'anno.» Ci guardò tutti raggiante. «Vi capita di aspet-Il Grande Gatsby46tare il giorno più lungo dell'anno per poi perderlo? Io aspetto sempre il giorno più lungo dell'anno e poi me lo perdo.»«Dovremmo organizzare qualcosa» sbadigliò la signorina Bakersedendosi a tavola come se si stesse infilando a letto.«Bene» disse Daisy. «Che cosa organizziamo?» si voltò versome in cerca di aiuto: «che cosa organizza di solito la gente?»Ancor prima che potessi rispondere i suoi occhi caddero, conun'espressione di spavento, sul suo dito mignolo.«Guardate!» si lamentò. «Me lo sono ferito.»Tutti ci voltammo a guardare... la nocca era scura e bluastra.«Sei stato tu, Tom» disse con tono accusatorio. «Lo so che non l'haifatto apposta, ma sei stato tu. Questo è ciò che mi tocca per aver sposato un bruto, un grande, grosso, mastodontico esemplare fisico di...»«Odio la parola mastodontico» obiettò Tom con stizza «anchequando la si usa per scherzo...»«Mastodontico» insisté Daisy.Alle volte lei e la signorina Baker parlavano con discrezione dibanalità sarcastiche, ma non si trattava mai di un cicaleccio, eraqualcosa di fresco come i loro vestiti candidi ed avevano sguardiimpersonali, senza alcun desiderio.Erano qui ora e accettavano Tom e me sforzandosi soltanto unpo', con garbo e simpatia, di intrattenerci ed essere intrattenute consapevoli che presto la cena sarebbe finita ed anche la serata, pocopiù tardi, sarebbe giunta al termine e casualmente messa da parte.C'era una profonda differenza, in questo, col West dove unaserata veniva sospinta di fase in fase verso la sua conclusione, inun'aspettativa costantemente delusa o anche in una tensione assoluta per l'attesa di quel momento stesso.«Mi fai sentire un incivile, Daisy» confessai al mio secondo bicchiere di bordeaux, notevole ma dal sapore un po' di tappo. «Nonpotresti parlare di raccolti o di qualcosa del genere?»Capitolo Primo47Non alludevo a nulla in particolare, ma questa mia osservazionefu accolta in una maniera piuttosto inattesa.«La civiltà sta cadendo a pezzi,» proruppe Tom bruscamente.«Sono diventato piuttosto pessimista sulla faccenda. Hai letto L'ascesa degli Imperi di colore di quel tale Goddard?»«Per la verità, no» risposi un po' sorpreso per il suo tono.«Beh, si tratta di un bel libro, credo che dovrebbero leggerlotutti. Il concetto di fondo è che se non ci guardiamo attorno, larazza bianca sarà... sarà completamente annientata. È tutta robascientifica; è provato.»«Tom sta diventando molto profondo» disse Daisy con un'espressione triste e distratta. «Legge dei libri profondi con tanti paroloni... Com'era quella parola che...»«Beh, questi libri sono tutti scientifici» rilanciò Tom squadrando Daisy con impazienza. «Lo studioso ha analizzato tutta la faccenda. Ora sta a noi, che siamo la razza dominante, stare in guardiao le altre razze avranno il controllo della situazione.»«Dobbiamo annientarli» sussurrò Daisy strizzando gli occhi conferocia verso il sole ardente.«Dovresti vivere in California...» esordì la signorina Baker, maTom la interruppe muovendosi pesantemente sulla sedia.«L'idea è che noi siamo Nordici. Lo siamo io e te, lo sei tu e...»Dopo un istante di esitazione incluse anche Daisy con un cenno delcapo, e lei mi strizzò di nuovo l'occhio. «... e siamo noi che abbiamocreato la civiltà... oh, la scienza e l'arte, e tutte le altre cose. Mi segui?»C'era qualcosa di patetico nella sua concentrazione come seil suo compiacimento, indubbiamente più acuto che in passato,non gli fosse più sufficiente. Quando, di lì a pochissimo, squillòil telefono all'interno e il maggiordomo si ritirò dalla veranda,Daisy approfittò di quella momentanea interruzione per chinarsiverso di me.Il Grande Gatsby48«Ti racconterò un segreto di famiglia» bisbigliò con entusiasmo.«Riguarda il naso del maggiordomo. Vuoi sentire la storia del nasodel maggiordomo?»«È per questo che sono venuto qui, stasera.»«Beh, non è stato sempre un maggiordomo; si occupava di lucidare l'argenteria per certa gente di New York, che aveva un servizio per duecento persone. Doveva lucidarlo dalla mattina alla serafinché un giorno non ebbe un fastidio al naso...»«Le cose andarono di male in peggio» suggerì la signorina Baker.«Si, le cose andarono peggiorando di giorno in giorno finchénon fu costretto a rinunciare al posto.»Per un istante l'ultimo raggio del sole al tramonto le sfiorò, conromantica devozione, il viso luminoso; la sua voce mi costrinse aprotendermi verso di lei col fiato sospeso per continuare ad ascoltarla... poi il bagliore si attenuò, ciascuna luce abbandonò il suovolto con disperata lentezza come dei bambini che si ritirino dauna strada amena al crepuscolo.Il maggiordomo tornò e mormorò qualcosa all'orecchio di Tomil quale aggrottò le sopracciglia, spinse indietro la sua sedia e, senzadire una parola, entrò in casa. Quasi come se la sua assenza avesseaccelerato qualcosa dentro di lei, Daisy si protese in avanti nuovamente con la sua splendida voce melodiosa.«Che bello vederti alla mia tavola, Nick. Mi ricordi una... unarosa, una rosa purissima. Non trovi?.» Si voltò verso la signorinaBaker per averne conferma. «Una rosa purissima?»No, non era vero. Non somiglio neanche lontanamente a unarosa. Stava semplicemente improvvisando, ma lasciava fluire uncalore appassionato come se il suo cuore stesse cercando di raggiungerti, celato in una di quelle parole sussurrate, frementi. Poi,improvvisamente, gettò il tovagliolo sul tavolo e, scusandosi, entròin casa.Capitolo Primo49La signorina Baker ed io ci scambiammo una breve occhiata consapevolmente priva di significato. Stavo per dire qualcosa quandosi alzò cautamente e mi zittì con un "Sss!" in tono di avvertimento.Un mormorio sommesso ed appassionato proveniva dalla stanzaaccanto e la signorina Baker si protendeva in avanti senza alcunritegno cercando di origliare qualcosa. Il mormorio per qualcheistante fu quasi comprensibile, poi scese di tono per rimontare appassionatamente e, quindi, cessare del tutto.«Quel signor Gatsby di cui parlava è il mio vicino di casa...» dissi.«Non parli. Voglio sentire cosa succede.»«Sta succedendo qualcosa?» chiesi con aria innocente.«Intende dire che non sa nulla?» rispose la signorina Baker sinceramente sorpresa. «Credevo lo sapessero tutti.»«Io no.»«Beh...» disse con esitazione «Tom ha una donna a New York.»«Ha una donna?» ripetei con aria assente.Lei annuì. «Potrebbe avere la decenza di non telefonargli ad oradi cena. Non crede?»Qualche istante prima che riuscissi a cogliere il senso di ciò cheaveva inteso dirmi, ci fu lo svolazzo di un vestito e lo scricchioliodegli stivali di cuoio e Tom e Daisy tornarono a tavola.«Non si poteva evitare!» si lamentò Daisy con nervosa allegria.Si sedette, osservò con aria interrogativa la signorina Baker e poime, quindi continuò: «Ho dato uno sguardo fuori per qualche minuto, ed è davvero romantico. C'è un uccellino sul prato, credo siaun usignolo arrivato con il Cunard o con la White Star Line. È lì checanta...» poi con voce melodiosa: «è romantico, non è vero Tom?»«Davvero molto romantico» rispose e poi tristemente si rivolse a me:«se c'è ancora luce, dopo cena, voglio portarti a vedere le scuderie.»Il telefono riprese a suonare, inaspettatamente, e mentre Daisy scuoteva con energia la testa verso Tom, la faccenda delle scuderie, come del Il Grande Gatsby50resto tutti gli altri argomenti sfiorati, svanirono nell'aria. Tra i frammentiinfranti degli ultimi cinque minuti a tavola, ricordo le candele che vennero riaccese senza alcun motivo ed il desiderio di guardare ciascuno direttamente, senza però incrociare lo sguardo di nessuno. Certo non potevointuire cosa stessero pensando Daisy e Tom, ma credo che la stessa signorina Baker, che pure ostentava un forte scetticismo, non fosse in grado diignorare del tutto la penetrante urgenza metallica di questo quinto ospite.A persone d'indole diversa, forse, quella situazione sarebbe potuta sembrare affascinante... il mio istinto fu di telefonare immediatamente alla polizia. Dei cavalli, va da sé, non si parlò più.Tom e la signorina Baker, con alcuni centimetri di crepuscolo traloro, rientrarono mestamente verso la libreria come fossero direttia una veglia davanti ad un corpo perfettamente tangibile mentre,cercando di apparire piacevolmente interessato e un po' insensibile, io seguii Daisy lungo una sorta di catena di verande collegate traloro fino a quella della facciata principale. Nella profonda oscuritàci sedemmo accanto su un divano di vimini.Daisy si prese il viso tra le mani, quasi a saggiarne i lineamentistupendi, e i suoi occhi riemersero pian piano nel crepuscolo vellutato. Notai che era animata da forti emozioni, così le rivolsi qualchedomanda rilassante sulla bambina.«Non ci conosciamo poi così bene, Nick» disse improvvisamente. «Anche se siamo cugini. Non sei venuto al mio matrimonio.»«Non ero ancora rientrato dalla guerra.»«È vero.» Esitò un po'. «Beh, ho attraversato un periodo piuttosto difficile, Nick, ed ora sono diventata cinica su tutto.» Evidentemente aveva le sue ragioni per esserlo. Attesi un po' ma non dissenient'altro, quindi tornai sull'argomento di sua figlia con poca convinzione. «Immagino che parli e... che mangi e tutto il resto.»«Oh, si.» Mi guardò con aria assente. «Ascolta, Nick; lascia cheti racconti cosa dissi quando nacque. Ti va di ascoltarmi?»Capitolo Primo51«Con molto piacere.»«Così capirai perché ho preso a pensarla così... sulle cose. Bene, nonaveva ancora un'ora e Tom Dio solo sa dov'era. Mi risvegliai dall'eterecon una sensazione di totale abbandono e chiesi subito all'infermeriase fosse un bambino o una bambina. Mi rispose che era una bambina e così voltai la testa e piansi. 'Va bene' dissi 'mi fa piacere che siafemmina. E spero che sarà una stupida... è la cosa migliore per unabambina, a questo mondo, una bella e piccola stupida.' Vedi, sonopenso che tutto sia terribile, comunque» continuò con convinzione.«Lo pensano tutti... tutte le persone più istruite. E ne sono convintaanch'io. Sono stata dappertutto e ho visto e fatto tutto.» Gli occhi lebrillavano in modo provocante, un po' come quelli di Tom, e rise conallarmante disprezzo. «Complicata... Oh Dio, sono complicata!»Nel momento stesso in cui la sua voce si spense, cessando dicatturare la mia attenzione, compresi la profonda falsità di quanto mi aveva detto. Mi fece sentire a disagio quasi come se l'interaserata altro non fosse stato che un espediente per carpire in me unsentimento favorevole.Attesi qualche istante e, come previsto, mi guardò con un sorriso affettato su quel viso delizioso, quasi avesse appena confessatodi far parte, con Tom, di un'esclusiva società segreta.Dentro, la stanza cremisi fioriva di luce.Tom e la signorina Baker sedevano ai due lati del lungo divano,lei gli stava leggendo a voce alta un articolo dal Saturday EveningPost... Le parole, borbottate senza modulazione, si susseguivano inun tono rilassante. La luce della lampada, che brillava sugli stivalidi lui mentre era spenta sui capelli gialli come le foglie d'autunnodi lei, scintillò lungo la carta quando voltò la pagina con uno scattodei muscoli slanciati delle braccia.Quando entrammo ci tenne in silenzio per qualche istante conuna mano alzata.Il Grande Gatsby52«Continua...» disse lanciando la rivista sul tavolo «...sul prossimonumero.» Il suo corpo s'impose con un movimento repentino delginocchio ed ella si alzò. «Le dieci in punto» osservò, quasi stesseleggendo l'ora sul soffitto. «Si è fatta l'ora, per questa brava ragazza,di andare a letto.»«Jordan domani parteciperà ad un torneo» spiegò Daisy «su aWestchester.»«Oh... lei è Jordan Baker.» Ora capivo perché il suo volto mi erafamiliare; la sua espressione piacevole ed altezzosa mi aveva scrutato dalle fotografie di molti rotocalchi sulla vita sportiva di Asheville, Hot Springs e Palm Beach. Avevo anche sentito qualche storiasul suo conto, qualcosa di poco lusinghiero, ma di cosa si trattassel'avevo dimenticato da un pezzo.«Buonanotte» disse dolcemente. «Ti prego, svegliami alle otto.»«Se ti sveglierai.»«Lo farò. Buonanotte, signor Carraway. Ci rivedremo presto.»«Certo che vi rivedrete» confermò Daisy «In effetti credo che combinerò un matrimonio. Vieni a trovarci spesso, Nick, e io vi... oh... vi butteròtra le braccia l'uno dell'altra. Si... vi rinchiuderò, per caso, dentro un guardaroba, vi metterò su una barca e vi spingerò a largo, tutte cose così...»«Buonanotte» gridò la signorina Baker dalle scale. «Io non hosentito una parola.»«È una ragazza molto carina» disse Tom un momento dopo. «Nondovrebbero lasciarla correre su e giù per il paese in questo modo.»«Chi dovrebbe impedirlo?» domandò Daisy freddamente.«I suoi.»«I suoi sono una zia di quasi mille anni. E poi ci penserà Nicka lei, non è vero Nick? Trascorrerà molti fine settimana qui da noiquest'estate. Credo che l'aria di casa le gioverà molto.»Daisy e Tom si guardarono per un istante in silenzio.«È di New York?» chiesi frettolosamente.Capitolo Primo53«Di Louisville. Ci abbiamo trascorso la nostra candida adolescenza. La nostra bella e innocente...»«Hai fatto un discorsetto intimo a Nick sulla veranda?» chieseTom improvvisamente.«L'ho fatto?» Si voltò verso di me. «Non me ne ricordo, macredo che abbiamo parlato della razza nordica. Si, ne sono sicura.Questa cosa ci ha preso di sorpresa e poi...»«Non credere a tutto ciò che ascolti, Nick» mi avvertì Tom.Dissi distrattamente che non avevo sentito una sola parola e qualcheminuto dopo mi alzai per tornarmene a casa. Vennero alla porta conme e si fermarono l'uno accanto all'altra in un allegro angolo di luce.Non appena avviai il motore, Daisy gridò perentoriamente:«Aspetta! Ho dimenticato di chiederti una cosa, ed è importante.Abbiamo sentito dire che sei fidanzato con una ragazza del West.»«È vero» aggiunse Tom gentilmente. «È girata voce che sei fidanzato.»«Si tratta di una calunnia. Sono troppo povero.»«Ma noi l'abbiamo sentito» insisté Daisy, sorprendendomi colsuo aprirsi nuovamente come un fiore. «L'abbiamo sentito da bentre persone perciò dev'essere vero.»Ovviamente avevo ben chiaro a cosa si riferissero, ma non eronemmeno lontanamente fidanzato. Il fatto che quei pettegolezzifossero giunti alle pubblicazioni di matrimonio, era una delle ragioni per cui me ne ero venuto all'Est. Non puoi smettere di frequentare una vecchia amica per via delle dicerie e, d'altra parte, nonavevo alcuna intenzione di diventare il protagonista dei pettegolezzi con un matrimonio.Questo loro interesse, in un certo senso, mi commuoveva e li faceva sembrare meno distanti per la loro ricchezza... ciononostanteero confuso e un po' disgustato andando via. Pensavo che la soluzione per Daisy fosse fuggire da quella casa, bimba al collo... ma, aquanto pareva, non erano queste le sue intenzioni.Il Grande Gatsby54Quanto a Tom, il fatto che "avesse una donna a New York" era,in realtà, meno sorprendente del crederlo depresso per un libro.Qualcosa lo stava costringendo a rosicchiare la cornice delle vecchie convinzioni, quasi che il suo possente egotismo fisico non fossepiù sufficiente a sostenere un cuore dispotico.L'estate era già piena sui tetti delle case, dei bar e dei distributoriai lati della strada dove le nuove pompe di benzina, rosse, eranoimmerse in cerchi di luce e quando raggiunsi la mia abitazione aWest Egg, infilai l'auto nella rimessa e sedetti, per un bel po', ingiardino su di un rullo per prati abbandonato.Il vento aveva soffiato a lungo, lasciando una notte brillante e rumorosa, col battito delle ali sugli alberi e un suono persistente di organo: la possente voce della terra che si manifestava attraverso le ranegracidanti e piene di vita. La sagoma di un gatto in movimento ondeggiò contro il chiaro di luna e, voltandomi per seguirne i movimenti,mi accorsi di non essere solo... una decina di metri più in là, era emersa dall'ombra della villa del mio vicino, una figura che ora se ne stavacon le mani in tasca a contemplare la polvere d'argento del mantostellato. Qualcosa in quei movimenti rilassati e la presa ben salda deisuoi piedi sul prato mi suggerirono che si trattasse del signor Gatsbyin persona, uscito a controllare quale fosse la sua quota di cielo locale.Pensai di chiamarlo. La signorina Baker mi aveva parlato di luia cena e questo sarebbe bastato per una presentazione. Ma non lochiamai, poiché diede un'improvvisa dimostrazione di essere felicedi trovarsi da solo... allungò le sue braccia verso il mare scuro inun modo strano e, per quanto fossi piuttosto lontano, avrei potutogiurare che stesse tremando.Senza volerlo mi trovai a guardare verso il mare... e non distinsinulla ad eccezione di una sola luce verde, piccola e distante, forsel'estremità di un molo. Quando tornai a cercare con lo sguardoGatsby era svanito e fui di nuovo nell'oscurità irrequieta.55A metà percorso tra West Egg e New York, l'autostrada si affianca alla ferrovia e la costeggia per un quarto di miglio,quasi volesse ritrarsi da una certa area desolata del territorio. Questa è la Valle delle Ceneri – una landa irreale nella quale leceneri crescono come il grano sulle colline, sui crinali e nei giardinigrotteschi, dove prende la forma di case, comignoli e volute di fumoe, infine, con uno sforzo trascendentale, di uomini che si muovononella luce fioca e già si sbriciolano nell'aria polverosa. Di tanto intanto una fila di carrelli grigi striscia lungo un percorso invisibileed esala un gemito spettrale arrestandosi. È allora che gli uominigrigio-cenere vi si avventano, muniti di pale di piombo, innalzandouna nube impenetrabile a protezione delle loro oscure attività.Ma, sopra questo mondo grigio dove la polvere cupa fluttua senzasosta, si avvertono subito gli occhi del Dottor T.J. Eckleburg. Sonoocchi blu e giganteschi – le retine alte una iarda. Non ti guardanoda un volto, ma da un paio di enormi occhiali gialli che poggianosu di un naso inesistente. Probabilmente qualche oculista burlone liavrà fatti mettere lì per pubblicizzare il suo studio nei Queens e poisarà piombato lui stesso nella cecità eterna o se li sarà dimenticatiandandosene altrove. Ma i suoi occhi, un po' annebbiati e sbiaditidai tanti giorni sotto il sole e la pioggia, continuano a meditare suquella solenne discarica.Capitolo SecondoIl Grande Gatsby56La valle delle ceneri è delimitata, su di un lato, da un piccolo fiumemaleodorante e quando il ponte levatoio viene alzato per far passare lechiatte, i passeggeri in attesa sui treni possono ammirare questo squallido scenario anche per più di mezz'ora. Si fa sempre sosta lì, almeno unminuto, e fu per questo motivo che conobbi l'amante di Tom Buchanan.Il fatto che ne avesse una era risaputo ovunque lo conoscessero.La gente che frequentava aveva da ridire sull'abitudine di portarlanei ristoranti più in voga dove, dopo averla lasciata al tavolo, ciondolava dall'uno all'altro chiacchierando con chiunque conoscesse.Nonostante fossi curioso di vederla, non avevo alcun desiderio diincontrarla, però accadde. Andai a New York, in treno, con Tomun pomeriggio e, quando ci fermammo nei pressi dei cumuli dicenere, lui saltò in piedi, mi strattonò per il gomito e mi costrinse,letteralmente, a scendere dalla carrozza.«Scendiamo» insisté. «Voglio farti conoscere la mia ragazza».Penso che a pranzo avesse concluso un buon affare: la sua determinazione, nel volermi affianco, rasentò la violenza. Il presupposto, tipico della sua superbia, era che la domenica pomeriggio nonpotessi avere nient'altro di meglio da fare.Lo seguii oltre lo steccato basso e imbiancato a calce della ferrovia;tornammo indietro per un centinaio di iarde lungo la strada, sotto losguardo insistente del Dottor Eckleburg. L'unico edificio in vista erauna piccola costruzione in mattoni gialli sul limitare di quella terradesolata affacciato su di una sorta di minuscola strada maestra oltrela quale c'era il nulla assoluto. Uno dei tre negozi che ospitava era daaffittare, un altro era un ristorante aperto tutta la notte, raggiungibileda un sentiero di cenere; il terzo era un garage – Officina. George B.Wilson. Compravendita di automobili – dove seguii Tom.L'interno era misero e spoglio; l'unica auto visibile era il relittocoperto di polvere di una Ford seminascosta in un angolo buio. Immaginai che quella squallida officina fosse una copertura e che al Capitolo Secondo57piano superiore si celassero dei romantici e suntuosi appartamenti,quando sulla porta dell'ufficio apparve il proprietario in personache si stava ripulendo le mani con uno straccio. Era un uomo biondo, avvilito, anemico e vagamente di bell'aspetto. Nel vederci, unlampo di umida speranza gli illuminò gli occhi azzurro chiaro.«Ehilà, Wilson, vecchio mio» esordì Tom dandogli una paccasulla spalla. «Come ti vanno gli affari?»«Non mi posso lamentare» rispose Wilson con poca convinzione. «Quando si decide a vendermela quella macchina?»«La prossima settimana; ora ci sta lavorando un mio uomo.»«Se la prende comoda, non le pare?»«No, affatto» ribatté freddamente Tom. «E ti dico di più, se lapensi così, sarà meglio che la venda a qualcun altro.»«Non intendevo questo» si scusò Wilson in fretta. «Volevo soltanto dire...»La voce gli si spense in gola mentre Tom si guardava attorno nelgarage, impaziente. Poi udii dei passi sulle scale e un attimo dopouna figura corpulenta di donna coprì completamente la luce cheproveniva dalla porta dell'ufficio. Aveva passato la trentina ed eraun po' in carne, ma riusciva a camuffare quei chili di troppo conun portamento molto sensuale, tipico di alcune donne. Il suo viso,che emergeva da un vestito blu scuro macchiato di crépe de Chine,non risaltava per alcuna bellezza, in compenso era animata da unavitalità chiaramente percepibile, sembrava quasi che i muscoli levibrassero senza sosta appena sotto la pelle. Sorrise lentamente e,superando il marito come fosse un fantasma, strinse la mano a Tomper poi guardarlo arrossire fin dentro gli occhi. S'inumidì le labbrae, senza voltarsi, disse al marito con voce molle e roca:«Porta qualche seggiola, così almeno possiamo sederci.»«Oh, certo» obbedì veloce Wilson avviandosi verso il piccolo ufficio, scomparendo quasi contro le pareti color cemento. Una polvere Il Grande Gatsby58di cenere velava la sua tuta scura, i capelli scoloriti e tutto ciò che c'eranelle vicinanze – eccetto sua moglie, che si era avvicinata a Tom.«Voglio vederti» le disse con decisione. «Prendi il prossimo treno.»«Va bene.»«Ci vedremo all'edicola al piano di sotto».Lei annuì e si scostò proprio mentre George Wilson stava uscendo con due sedie dalla porta dell'ufficio.L'aspettammo giù, per strada, lontano da occhi indiscreti. Eravamoa pochi giorni dal Quattro Luglio e un bambino italiano, grigio e magrissimo, stava disponendo alcuni petardi in un solco lungo la ferrovia.«Un posto davvero terribile, non trovi?» mi chiese Tom scambiando uno sguardo col Dottor Eckleburg.«Tremendo.»«Le fa bene venir via.»«Suo marito non dice nulla?»«Wilson? È convinto che vada a trovare sua sorella a New York.È così stupido che non sa neanche di essere al mondo.»Così Tom Buchanan, la sua ragazza ed io ci recammo insiemea New York – anzi, a dire il vero, non proprio insieme perché lasignora Wilson prese posto, discretamente, in un'altra carrozza. Sitrattava di una concessione di Tom alla suscettibilità degli abitantidi Est Egg che si fossero trovati su quel treno.Si era cambiata d'abito e ora ne indossava uno di mussolinamarrone con delle figure stampate che si tese sui fianchi un po'abbondanti mentre Tom l'aiutava a scendere sulla banchina a NewYork. In edicola acquistò una copia del "Town Tattle" e una rivista di cinema mentre nel drugstore della stazione prese una cremaidratante e una boccetta di profumo. Giunti al piano di sopra, nelgrandioso viale d'accesso pieno di suoni riecheggianti, lasciò sfilarequattro taxi prima di sceglierne uno nuovo, color lavanda e dagliinterni grigi imbottiti, col quale uscimmo dall'imponente stazione Capitolo Secondo59per andare incontro al sole ardente. D'un tratto, però, si scostò dalfinestrino per sporgersi in avanti e bussare sul vetro divisorio.«Voglio prendere uno di quei cani» disse con ardore. «Ne vogliouno per l'appartamento. È bello avere... un cane.»Tornammo indietro verso un vecchio dai capelli grigi che somigliava incredibilmente a John D. Rockefeller. In una cesta che glioscillava al collo, se ne stava rannicchiata una dozzina di cucciolidavvero piccoli e di razza imprecisata.«Di che tipo sono?» chiese la signora Wilson sempre con impazienza mentre l'uomo si avvicinava al finestrino del taxi.«Di tutte le razze. Quale le piacerebbe, signora?»«Vorrei uno di quei cani poliziotto; mica ne ha uno di quel tipo?»L'uomo sbirciò dubbioso nel canestro, poi ci infilò la mano e tiròsu penzoloni un cucciolo tutto agitato tenendolo per la collottola.«Questo non è un cane poliziotto» disse Tom.«No, in effetti non è esattamente un cane poliziotto» risposel'uomo con una punta di delusione nella voce. «Si direbbe più unairedale». Passò una mano sulla pelliccia bruna del dorso. «Guardiche pelo. Un pelo magnifico. Questo è un cane che non vi darà mainoie per i malanni da freddo.»«È carino» disse la signora Wilson entusiasta. «Quanto ci costa?»«Questo cane?» L'uomo lo guardò con ammirazione. «Questocane le costerà dieci dollari.»L'airedale – poiché indubbiamente da qualche parte un airedaledoveva esserci nonostante le sue zampe fossero di un bianco stupefacente – passò di mano e si adagiò in grembo alla signora Wilsonche prese ad accarezzargli il pelo a prova di intemperie, ormai rapita.«È un maschio o una femmina?» chiese lei in modo delicato.«Quel cane? Quel cane è un maschio.»«È una cagna» disse Tom bruscamente. «Ecco i tuoi soldi. Va' ecompratene altri dieci.»Il Grande Gatsby60Ci dirigemmo verso la Quinta Strada, così calda e soave, quasibucolica in quella domenica pomeriggio estiva; non mi sarei meravigliato nel vedere un gregge di pecore svoltare l'angolo.«Ferma» dissi «devo lasciarvi qui.»«No che non puoi» s'intromise rapidamente Tom. «Myrtle cel'avrà con te se non vieni su con noi nell'appartamento. Non è vero,Myrtle?»«Salga» insisté lei. «Telefonerò a mia sorella Catherine. La genteche se ne intende dice che è davvero carina.»«Beh, mi farebbe piacere, ma...»Proseguimmo, tagliando di nuovo il Parco verso ovest, in direzione delle West Hundred. Alla 158 Strada il taxi si fermò davantiad una fetta di una lunga torta bianca di case in affitto. Gettandouno sguardo regale, da padrona di casa che osserva il suo quartiere,la signora Wilson prese con sé il cane e le altre compere ed entròcon aria altezzosa.«Vado ad invitare i McKee» annunciò mentre salivamo nell'ascensore. «E, ovviamente, chiamerò anche mia sorella.»L'appartamento era all'ultimo piano – un piccolo soggiorno, unapiccola sala da pranzo, una piccola camera da letto ed un bagno.La mobilia del soggiorno quasi straripava dalle porte, per via di undivano e delle poltrone esageratamente grandi, cosicché muoversiin quell'ambiente, significava inciampare continuamente in scenedi gentildonne dondolanti nei giardini di Versailles. L'unico quadro era in realtà una gigantografia di una foto, che rappresentava,all'apparenza, una gallina che covava su di una roccia sfocata. Aguardarla da una certa distanza, però, la gallina si trasformava in uncappellino e l'intera stanza si riempiva dell'espressione serafica diun'anziana e robusta signora. Alcune vecchie copie del "Town Tattle" giacevano sul tavolo insieme ad una copia del "Simon called Peter" e ad altre piccole riviste scandalistiche di Broadway. La signora Capitolo Secondo61Wilson si prese subito cura del cane. L'addetto all'ascensore, anchese riluttante, andò a cercare una scatola con della paglia, un po' dilatte e, di sua iniziativa, un barattolo di biscotti duri per cani – unodei quali rimase a sciogliersi apaticamente per tutto il pomeriggioin un piattino di latte. Nel frattempo, Tom aveva tirato fuori unabottiglia di whisky da un'anta dell'armadio chiusa a chiave.In tutta la mia vita mi sono ubriacato soltanto due volte e la seconda fu quel pomeriggio, cosicché tutto ciò che accadde fu avvoltoda un alone oscuro, brumoso, anche se, fin dopo le otto, nell'appartamento ci fu un sole vivace. La signora Wilson, seduta sulle ginocchia di Tom, chiamò diverse persone al telefono; poi finirono lesigarette e scesi a comprarne al drugstore all'angolo. Quando rientrai erano scomparsi entrambi così sedetti, con discrezione, in soggiorno e presi a leggere un capitolo del "Simon Called Peter" - delledue l'una: o era terribile il libro o il whisky distorceva le cose poichénon riuscivo a comprendere davvero nulla di ciò che leggevo.Non appena Tom e Myrtle – dopo il primo bicchiere, la signoraWilson ed io prendemmo a chiamarci per nome – riapparvero, cominciò ad arrivare gente.La sorella, Catherine, era una ragazza snella e smaliziata sullatrentina con un caschetto di capelli rossi, un po' appiccicaticci, eun colorito bianco lattiginoso per via della cipria. Si era fatta togliere le sopracciglia e le aveva ridisegnate con una curva più maliziosa, ma gli sforzi della natura, per ripristinare l'originale linea,le rendevano il viso come sfocato. Nel muoversi faceva tintinnare,incessantemente, numerosi braccialetti di ceramica che le si agitavano su e giù per le braccia. Entrò con una tale aria da padronadi casa e si guardò attorno in modo così possessivo verso l'arredo,che mi chiesi se non abitasse lì. Quando, però, glielo chiesi, risescompostamente, ripeté la mia domanda a voce alta e mi disse cheabitava con un'amica in un hotel.Il Grande Gatsby62Il signor McKee era un uomo pallido e femmineo che abitava alpiano di sotto. Si era appena rasato poiché aveva una macchia biancadi schiuma da barba sullo zigomo; salutò, col massimo riguardo, tutti i presenti. M'informò del fatto che era "nel giro dell'arte" e dopoun po' capii che era un fotografo e che aveva realizzato lui quellagigantografia sfocata della madre della signora Wilson che aleggiavacome un ectoplasma sulla parete. Sua moglie era stridula, apatica,rotondetta ed orribile. Mi disse, orgogliosa, che da quando si eranosposati suo marito l'aveva fotografata ben centoventisette volte.La signora Wilson s'era cambiata d'abito poco prima ed ora eratutta attillata in un elaborato vestito da pomeriggio d'uno chiffoncolor crema che emetteva un continuo fruscio mentre si muovevaper la stanza. Sotto l'influsso del vestito, anche la sua personalitàera mutata. La vitalità intensa, così evidente nell'officina, s'era trasformata in un'alterigia impressionante. Le sue risa, i gesti e le affermazioni, erano ora sempre più violentemente affettati e, a manoa mano che si espandeva, la stanza sembrava sempre più piccola,finché parve che stesse girando su di un perno rumoroso e scricchiolante, nell'aria piena di fumo.«Mia cara» disse rivolta alla sorella con un gridolino di maniera,«La maggior parte di questi parassiti t'imbroglierà sempre. Tuttociò che vogliono è il denaro. La settimana scorsa chiamai una donna per sistemarmi un po' i piedi e, quando mi presentò il conto, amomenti c'era da credere che m'avesse tolta l'appendice.»«Come si chiamava quella donna?» chiese la signora McKee.«Signora Eberhardt. Va in giro a sistemare i piedi alla gente, adomicilio.»«Quanto mi piace il suo vestito» osservò la signora McKee, «Lotrovo delizioso.»La signora Wilson rigettò il complimento, inarcando le sopracciglia con sdegno.Capitolo Secondo63«È solo uno straccio vecchio,» disse «me lo infilo quando proprio non importa come mi vesto.»«Ma sembra magnifico su di lei, se capisce cosa intendo» insistéla signora McKee. «Se Chester potesse ritrarla in quella posa, credoche ne verrebbe fuori qualcosa.»Guardammo tutti, in silenzio, la signora Wilson che si spostòuna ciocca di capelli dagli occhi e ci ricambiò con un sorriso smagliante. Il signor McKee la guardò intensamente chinando il capodi lato, poi mosse la mano avanti e indietro, con lentezza, quasi asfiorarle il viso.«Dovrei cambiare la luce,» disse dopo qualche istante. «Mi piacerebbe far risaltare per bene i lineamenti. E vorrei cercare di prenderle tutti i capelli sulla nuca.»«Non credo che andrebbe cambiata la luce», si lamentò la signora McKee, «Penso che sia...»Suo marito la zittì con un "SH!" e tutti tornammo a osservareil soggetto, finché Tom Buchanan non sbadigliò rumorosamente e,quindi, s'alzò in piedi.«Voi McKee dovete bere qualcosa,» disse. «Porta altro ghiaccioe dell'acqua minerale, Myrtle, prima che si addormentino tutti.»«L'ho chiesto a quel ragazzo, il ghiaccio.» Myrtle inarcò le suesopracciglia, disperata, per l'inefficienza del personale di servizio,anche nell'eseguire ordini così banali. «Questa gente! La devi seguire continuamente.»Mi guardò e rise senza un motivo. Poi si gettò sul cane, lo baciòentusiasta e si diresse, ancheggiando, verso la cucina, quasi ci fossero una dozzina di cuochi ad attendere i suoi ordini.«Ho realizzato alcune cose davvero carine a Long Island», disseil signor McKee.Tom lo guardò privo di espressione.«Due le abbiamo giù, in cornice.»Il Grande Gatsby64«Due cosa?» domandò Tom.«Due studi. Uno l'ho chiamato 'Mountauk Point – i Gabbiani', el'altro 'Montauk Point – il Mare'.Catherine mi sedette affianco, sul divano.«Anche lei vive a Long Island?» domandò.«A West Egg.»«Davvero? Sono stata da quelle parti, un mese fa, per una festa.Da un tale di nome Gatsby. Lo conosce?»«Vivo alla porta accanto.»«Beh, si dice che sia nipote, o cugino, del Kaiser Guglielmo. Èda lì che vengono tutti i suoi soldi.»«Dice sul serio?»Lei annuì.«Mi fa un po' paura. Impazzirei all'idea di averlo contro.»Quest'appassionante descrizione del mio vicino fu interrottadall'improvvisa attenzione della signora McKee per Catherine:«Chester, forse potresti fare qualcosa con lei...» se ne uscì, maMcKee si limitò ad annuirle distrattamente per poi riportare la suaattenzione su Tom.«Mi piacerebbe lavorare di più a Long Island se soltanto mi presentassero. Tutto quello che chiedo è che mi lascino provare.»«Lo dica a Myrtle», disse Tom, scoppiando in una serie di risatine mentre la signora McKee entrava con un vassoio. «Lei le faràuna lettera di presentazione, non è vero Myrtle?»«Che cosa farò?» chiese allarmata.«Farai una lettera di presentazione al signor McKee, per tuomarito, così potrà fare qualche studio su di lui.» Le sue labbra simossero silenziose per qualche istante mentre inventava 'George B.Wilson alla pompa di benzina', o qualcosa del genere.»Catherine mi si chinò più vicina, sussurrandomi ad un orecchio:«Nessuno dei due sopporta la persona che ha sposato.»Capitolo Secondo65«Lei dice?»«Non li sopportano.» Guardò prima Myrtle e poi Tom. «Ma dicoio... perché continuare a viverci insieme se non li sopportano? Sefossi al posto loro, avrei già divorziato per risposarmi di nuovo.»«Neanche a lei piace Wilson?»La risposta a questa domanda fu inattesa. Giunse da Myrtle, cheaveva origliato, e fu violenta ed oscena.«Lo vede?» gridò Catherine trionfante. Abbassò di nuovo lavoce. «In realtà è sua moglie che li sta tenendo divisi. È cattolica eloro non credono nel divorzio.»Daisy non era cattolica e fui un po' sorpreso da questa elaboratabugia.«Quando si sposeranno» continuò Catherine «andranno a vivere nel West finché non si calmeranno le acque.»«Sarebbe più discreto andare in Europa.»«Oh, le piace l'Europa?» esclamò sorpresa. «Sono appena rientrata da Monte Carlo.»«Ma davvero!?»«Giusto un anno fa. Ci andai in compagnia di un'altra ragazza.»«È stata via a lungo?»«No, andammo solo a Monte Carlo e tornammo. Passammo,ovviamente, per Marsiglia. Avevamo più di milleduecento dollari,quando partimmo, ma li perdemmo tutti in due giorni, nelle saletteprivate. Fu davvero difficile rientrare, non glielo sto a raccontare.Dio, come ho odiato quella città!»Il cielo del tardo pomeriggio illuminò la finestra per un istante,quasi fosse il blu mieloso del Mediterraneo, poi fui richiamato nellastanza dalla voce stridula della signora McKee.«Anch'io stavo per commettere un errore» disse con vigore«stavo per sposare un piccolo ebreo che mi correva dietro da anni.Sapevo che m'era inferiore. Tutti continuavano a ripetermi: 'Lucil-Il Grande Gatsby66le, quest'uomo ti è inferiore!' Ma se non avessi incontrato Chester,quell'uomo mi avrebbe avuta di sicuro.»«Si, ma ascolta,» disse Myrtle Wilson, scuotendo la testa, «almeno tu non l'hai sposato.»«Lo so, non l'ho fatto.»«Beh, io l'ho sposato», disse Myrtle, in modo ambiguo. «È questa la differenza tra te e me.»«Perché l'hai fatto, Myrtle?» domandò Catherine. «Nessuno ticostrinse.»Myrtle rifletté.«Lo sposai perché pensavo fosse un gentiluomo» disse alla fine.«Credevo conoscesse un po' di educazione, ma non era degno dileccarmi le scarpe.»«Sei stata pazza di lui, per un po'» disse Catherine.«Pazza di lui!» si lamentò Myrtle incredula. «Chi ha detto cheero pazza di lui? Non sono mai stata pazza di lui più di quanto nonlo sia di quello lì.»M'indicò improvvisamente e tutti mi guardarono con aria inquisitoria. Con la mia espressione provai a dimostrare che non avevoavuto alcun ruolo nel suo passato.«L'unica volta che sono stata pazza, fu quando lo sposai. In uncerto senso lo sapevo che avrei commesso un errore. Si fece prestare, da qualcuno, un bel vestito da sposo e non mi disse nulla,finché un giorno, mentre lui non c'era, si presentò un uomo perriprenderselo.» Si guardò attorno per capire chi la stesse ascoltando. «'Oh, è suo il vestito?' dissi. 'È la prima volta che sento questastoria.' Ma glielo restituii, mi buttai sul letto e piansi per tutto ilpomeriggio, più forte di un'orchestra intera.»«Dovrebbe davvero lasciarlo», concluse Catherine per me. «Vivono da undici anni in quel garage. E Tom è il primo innamoratoche lei abbia avuto.»Capitolo Secondo67La bottiglia di whisky – la seconda – ora passava di mano in manotra i presenti, ad eccezione di Catherine che 'stava bene così'. Tomsuonò il campanello per chiamare il portiere e lo mandò a prenderecerti sandwich piuttosto rinomati che costituivano, da soli, un'abbondante cena. Volevo uscire per incamminarmi verso il parco, nel dolcecrepuscolo, ma ogni volta che provavo ad alzarmi, finivo invischiatoin qualche assurda conversazione che mi tirava indietro, come fosseuna corda, verso la sedia. Eppure, alta sopra la città, la nostra fila difinestre gialle doveva aver aggiunto la sua quota di segreti intrighi agliocchi dello spettatore, giù nella strada buia, ed io ero anche con lui,guardavo verso l'alto e mi stupivo. Ero dentro e fuori, allo stesso tempo attratto e respinto dall'inesauribile varietà della vita.Myrtle accostò la sua sedia alla mia e, improvvisamente, il suoalito caldo mi riversò addosso la storia del primo incontro con Tom.«Avvenne su quei due sediolini che stanno l'uno di fronte all'altro e restano sempre liberi sul treno. Stavo andando a New Yorkper incontrare mia sorella e passare da lei la notte. Lui indossava unabito da sera e delle scarpe di vernice ed io non riuscivo a staccargligli occhi di dosso, anzi ogni volta che lui volgeva il suo sguardo verso di me, dovevo far finta di stare guardando la pubblicità sopra dilui. Quando arrivammo alla stazione, mi si avvicinò e il suo sparatobianco mi premette sul braccio – così gli dissi che avrei chiamatoun poliziotto, ma lui sapeva che stavo mentendo. Ero così eccitatache quando salii sul taxi con lui, quasi non mi accorsi che in realtà non stavo prendendo la metropolitana. Tutto ciò che riuscivo apensare, era 'La vita non è eterna, la vita non è eterna'.»Si voltò verso la signora McKee e la stanza risuonò della suarisata forzata.«Mia cara» si lamentò «le regalerò questo vestito non appename ne sarò stufata. Ne prenderò un altro domani. Dovrei preparare una lista delle cose da fare. Un massaggio, un messa in piega, Il Grande Gatsby68un collare per il cane ed uno di quei simpatici portacenere con lamolla, una corona con il nastro nero per la tomba di mia madre,che duri per tutta l'estate. Scriverò una lista per non dimenticarmitutte le cose che devo fare.»Erano le nove in punto – ma quando guardai subito dopo l'orologio mi accorsi che erano già le dieci. Il signor McKee stavadormendo su una sedia, con i pugni chiusi in grembo, quasi fossela fotografia di un uomo d'azione. Tirai fuori il mio fazzoletto daltaschino e gli tolsi quella macchia di schiuma da barba, secca, dallaguancia: mi aveva ossessionato per tutto il pomeriggio.Il cagnolino se ne stava seduto sul tavolo e guardava, attraverso il fumo, con occhi stanchi e ogni tanto guaiva debolmente. Lepersone sparivano per poi ricomparire, programmavano di andareda qualche parte e poi si perdevano di vista e si cercavano di nuovo, ritrovandosi a pochi passi di distanza. Verso mezzanotte TomBuchanan e la signora Wilson si trovarono l'uno di fronte all'altraa discutere, animatamente, del diritto di lei a pronunciare il nomedi Daisy.«Daisy! Daisy! Daisy!» gridava la signora Wilson. «Lo ripetoquante volte mi pare! Daisy! Dai...»Con un rapido e abile movimento, Tom Buchanan le ruppe ilnaso con il palmo della mano.A quel punto ci furono asciugamani macchiate di sangue, sulpavimento, voci di donna che rimproveravano e, al di sopra di tuttaquesta confusione, un prolungato gemito, rotto dal dolore. McKeesi riebbe dal suo pisolino e si diresse, stordito, verso la porta. Quando fu a metà strada si voltò e assistette alla scena – sua moglie e Catherine rimproveravano e consolavano, mentre inciampavano quae là, in quell'ammasso di mobilia, portando dei presidi di prontosoccorso e una donna, disperata, sul divano, sanguinava copiosamente mentre cercava di sistemare qualche copia del "Town Tatt-Capitolo Secondo69le" sulla tappezzeria con le scene di Versaille. Poi McKee tornò avoltarsi e proseguì verso la porta. Prendendo il cappello dal candelabro, lo seguii.«Andiamo a cena insieme, qualche volta» mi disse mentre scendevamo nell'ascensore cigolante.«Dove?»«Dove vuole.»«Tolga la mano dalla leva» sbottò l'addetto all'ascensore.«Mi scusi» disse McKee con dignità «Non mi ero accorto diaverla poggiata lì.»«Va bene» accettai «con molto piacere.»...Ero in piedi accanto al suo letto e lui stava seduto tra le lenzuola, con indosso la sola biancheria intima, un grande album difotografie tra le mani."La bella e la bestia... Solitudine... Old Grocery Horse... Il ponte di Brooklin..."Poi mi ritrovai, mezzo addormentato, nel gelido piano inferiore della Pennsylvania Station, a fissare il "Tribune" del mattino,aspettando il treno delle quattro.71Giungeva musica, nelle notti estive, dalla casa del mio vicino.Nei suoi giardini blu, uomini e donne andavano e venivano, come falene, tra i pettegolezzi, lo champagne e le stelle.Durante l'alta marea del pomeriggio, avevo visto degli ospiti tuffarsidal pilone di ormeggio, o prendere il sole sulla sabbia bollente dellasua spiaggia, mentre due motoscafi solcavano le acque dello Stretto, trainandosi dietro degli acquaplani su cascate di schiuma. Neiweek-end la sua Rolls-Royce diventava un omnibus che trasportavagente da e per la città, a partire dalle nove di mattina fin'oltre mezzanotte, mentre la sua station-wagon scorrazzava come un vivace insetto giallo, per non perdere l'arrivo di un solo treno. Poi, il lunedì, ottopersone di servizio più un giardiniere extra, ripulivano per tutto ilgiorno con ramazze, spazzoloni, martelli e cesoie, riparando i dannidella sera prima.Ogni venerdì arrivavano, da un fruttivendolo di New York, cinque casse di arance e limoni – ed ogni lunedì le stesse arance e glistessi limoni uscivano dalla porta sul retro in piramidi di bucce senza polpa. C'era una macchina, in cucina, che era in grado di spremere duecento arance in mezz'ora, se soltanto il dito del vivandiereavesse pigiato, per duecento volte, un piccolo pulsante.Ogni paio di settimane, come minimo, un'intera squadra di allestitori arrivava con alcune centinaia di piedi di tela e luci colorate,Capitolo TerzoIl Grande Gatsby72sufficienti a trasformare in un albero di Natale l'enorme giardinodi Gatsby. Sui tavoli da buffet, guarniti con scintillanti antipasti, iprosciutti essiccati e aromatizzati si ammassavano accanto alle insalate dai disegni arlecchineschi o ai maialini e ai tacchini trasformati, come per magia, in oro scuro. Nel salone principale era statoallestito un bar, con una vera ringhiera di ottone, ricolmo di gin,liquori e cordiali dimenticati da tanto di quel tempo che la maggiorparte delle sue ospiti era troppo giovane per poterli riconoscere.Alle sette è arrivata l'orchestra – non un'orchestrina di cinque elementi ma una al gran completo con oboi, tromboni, sassofoni, violini,cornette, flauti e tamburi, sia grandi che piccoli. Gli ultimi bagnantisono rientrati dalla spiaggia e ora si vestono al piano di sopra; le autoprovenienti da New York sono state parcheggiate su cinque file, lungo il viale, mentre le camere, i saloni e le verande sono già gremiti dipersone eccentriche, vestite con colori sgargianti, dai capelli acconciati secondo le ultime mode e con scialli al di là dell'immaginazionedi un castigliano. Il bar è in piena attività, vassoi fluttuanti, ricolmi dicocktail, invadono il giardino, finché nell'aria non riecheggiano chiacchiericci e risate, allusioni casuali, presentazioni subito dimenticate eincontri entusiastici tra donne che mai si erano conosciute prima.Le luci si fanno via via più luminose mentre la terra, barcollando, si allontana dal sole; ora l'orchestra sta suonando della musicadorata da cocktail e il coro delle voci raggiunge un tono più alto.L'allegria, di minuto in minuto, è sempre più contagiosa, sparsacon prodigalità, lasciata in mancia per una parola spiritosa. I gruppi cambiano in continuazione, si allargano coi nuovi arrivi, si dissolvono e si ricreano nel tempo di un respiro – già ci sono in giroragazze sicure di sé che ondeggiano qua e là tra altre più ingessate,diventano per un breve, gioioso istante, il centro di un gruppo epoi, eccitate per il trionfo, volano via nel turbine di facce, voci ecolori sempre diversi sotto la luce cangiante.Capitolo Terzo73Improvvisamente una di queste vagabonde, in un opale tremolante, coglie al volo un cocktail, lo butta giù per prendere coraggioe, muovendo le mani come Frisco, balla da sola al centro del palco.Un momento di silenzio, il direttore d'orchestra che cambia il ritmo per lei, cortesemente, e subito esplodono i commenti, alla falsanotizia diffusa che in realtà lei sia una controfigura di Gilda Graydelle "Follies". Il party è iniziato.Credo che la prima sera che andai a casa di Gatsby, fossi unodei pochi ospiti a essere stato effettivamente invitato. La gente nonera invitata – ci andava e basta. Saltava su delle automobili dirette aLong Island e, chissà come, finiva alla porta di Gatsby. Una volta lìera presentata da qualcuno che lo conosceva e, da quel momento,si comportava come fosse a un parco giochi. Qualche volta capitava che arrivassero e ripartissero senza neanche aver conosciutoGatsby, giunti al party con una semplicità d'animo tale che quasivaleva essa stessa come invito scritto.Io ero stato davvero invitato. Un autista in livrea azzurra, comele uova di un pettirosso, aveva attraversato il mio prato, quel sabato,di buon mattino, con un biglietto sorprendentemente formale, daparte dell'uomo per cui lavorava – l'onore sarebbe stato tutto diGatsby, c'era scritto, se avessi voluto prendere parte alla 'festicciola'di quella sera. Mi aveva notato diverse volte e, da tempo, era intenzionato ad invitarmi, ma una serie particolare di circostanze glieloavevano impedito – firmato Jay Gatsby, in calligrafia maestosa.Nel mio vestito di flanella bianca, attraversai il prato poco dopole sette e vagabondai, piuttosto imbarazzato, in quei turbini e mulinelli di persone che non conoscevo – anche se qualche faccia l'avevo vistasul treno. Fui subito colpito dal numero di giovani inglesi che c'eranoin giro; tutti ben vestiti e dall'aria piuttosto affamata, tutti a parlare,con voci basse e seriose, ad americani pingui e prosperosi. Avrei giurato che stessero vendendo qualcosa: azioni, assicurazioni o automobili. Il Grande Gatsby74In fondo erano tutti consapevoli, in maniera piuttosto angosciante,dell'enorme quantità di denaro che girava loro intorno, convinti chepotessero impossessarsene con poche parole, dette nel modo giusto.Non appena arrivai, tentai di rintracciare il mio ospite, ma ledue o tre persone a cui mi rivolsi, per sapere dove potesse trovarsi,mi fissarono in modo così stupito e negarono con tanta veemenzadi averne la più pallida idea che quasi me ne sgattaiolai verso iltavolo dei cocktail – l'unico posto, in quel giardino, dove un uomosolo potesse soffermarsi, senza sembrare emarginato e sperduto.Ero sul punto di prendermi una grandiosa sbornia, per superarel'imbarazzo, quando Jordan Baker uscì dalla casa e rimase in cimaalle scale di marmo, chinandosi un po' all'indietro e mirando consdegnoso interesse giù, verso il giardino.Che fossi o meno il benvenuto, trovai necessario agganciare qualcuno, prima di finire a rivolgere frasi di circostanza ai passanti.«Salve!» ruggii, avanzando verso lei. La mia voce risuonò esageratamente alta dal giardino.«Avevo pensato che potesse essere qui», rispose con aria assente,quando la raggiunsi. «Ricordavo che abita alla porta accanto...»Mi strinse la mano in modo impersonale, quasi a promettermi chesi sarebbe interessata a me di lì a poco e diede ascolto a due ragazzedal vestito identico e giallo che s'erano fermate ai piedi delle scale.«Salve!» urlarono insieme. «Ci dispiace che non abbia vinto.»Parlavano del torneo di golf. Lei aveva perso la finale, la settimana prima.«Non si ricorda di noi» disse una delle due ragazze vestite digiallo «ma ci siamo conosciute qui, circa un mese fa.»«Vi siete tinte i capelli» osservò Jordan ma, nel mio stupore, le ragazze si erano spostate senza un motivo e la sua considerazione finì peressere rivolta alla luna prematura, anch'essa, senza dubbio, spuntatacome la cena, dal cestino degli addetti al catering. Col braccio di Jordan, Capitolo Terzo75snello e dorato, poggiato al mio, scendemmo le scale e passeggiammoun po' per il giardino. Un vassoio di cocktail fluttuò verso noi attraversoil crepuscolo e ci sedemmo a tavola con le due ragazze in giallo e treuomini, ciascuno dei quali ci fu presentato come il signor Qualcosa.«Venite spesso a queste feste?» domandò Jordan alla ragazzache aveva di fronte.«L'ultima volta è stata quando l'ho incontrata» rispose la ragazza con tono pronto e deciso. Si voltò verso la sua compagna: «è lostesso anche per te, vero Lucille?»Era così anche per Lucille.«Mi piace venirci» disse Lucille. «Non bado mai tanto a quello che faccio, così prendo tutto per il verso giusto. Quando venniqui, l'ultima volta, mi strappai il vestito su una sedia, lui mi chieseil nome e l'indirizzo e, dopo neanche una settimana, ebbi un pacchetto da Croirier con un vestito da sera nuovo.»«L'ha tenuto poi?» chiese Jordan.«Certo che l'ho tenuto. Volevo indossarlo stasera, ma era un po'grande di busto e ho dovuto farlo sistemare. È di un bel blu petroliocon delle perline color lavanda. Duecentosessantacinque dollari.»«Non c'è dubbio che sia un tipo strano, un uomo che fa cose delgenere», disse l'altra ragazza con un pizzico di invidia. «Lui nonvuole nessun problema, con nessuno.»«Chi è che non li vuole?» chiesi.«Gatsby. Qualcuno mi ha detto...»Le due ragazze e Jordan si avvicinarono chinandosi.«Qualcuno mi ha detto che si sospetta abbia ucciso un uomo,tempo fa.»Un brivido ci scosse. I tre signori Qualcosa si avvicinarono perascoltare incuriositi.«Non credo che la questione sia questa» disse Lucille scettica«più che altro lui fu una spia tedesca durante la guerra.»Il Grande Gatsby76Uno degli uomini annuì per confermare.«L'ho sentito dire da un tale che sapeva tutto di lui, poiché sonocresciuti insieme in Germania», ci assicurò con decisione.«Oh, no» disse la prima ragazza «non può essere così, perché luiera nell'esercito americano durante la guerra.» Mentre la nostra vogliadi crederle ci faceva voltare di nuovo verso di lei, si sporse in avanti, con entusiasmo. «Provate a guardarlo, qualche volta, quando nonpensa di essere osservato. Scommetterei che ha ucciso un uomo.»Socchiuse gli occhi e rabbrividì. Lucille rabbrividì mentre noitutti ci guardammo attorno, in cerca di Gatsby. La prova che luiispirasse degli intrighi romanzeschi, stava tutta nel fatto che, su dilui, spettegolavano persone che ritenevano ci fosse ben poco su cuispettegolare al mondo.La prima cena – ce ne sarebbe stata un'altra dopo la mezzanotte –stava per essere servita, Jordan m'invitò a unirmi alla sua compagnia cheera seduta ad un tavolo dall'altro lato del giardino. C'erano tre coppiesposate e il suo accompagnatore: uno studente universitario ostinatoche si produceva in pesanti allusioni, stupidamente convinto che primao poi Jordan gli si sarebbe concessa, completamente o meno. Piuttostoche vagabondare, questo gruppo aveva mantenuto una certa dignitosaomogeneità, assumendosi il ruolo di rappresentante della nobiltà originaria locale – Est Egg condiscendente verso West Egg – e cautamentein guardia contro la sua dissolutezza spettroscopica.«Andiamocene», sussurrò Jordan dopo una mezz'ora quasi sprecata inutilmente. «C'è un'atmosfera troppo educata per i miei gusti.»Ci alzammo e mi spiegò che eravamo diretti alla ricerca del nostro ospite – «non l'ho mai conosciuto» disse «e questo mi metteun po' in imbarazzo.» Lo studente annuì in maniera cinica, con unanota di malinconia.Il bar, dove deviammo in prima battuta, era affollato, ma di Gatsby non c'era traccia. Non le riuscì di avvistarlo dall'alto delle scale Capitolo Terzo77e non era in veranda. Facemmo un tentativo aprendo una portamassiccia, dall'aria pomposa, ed entrammo in un'alta bibliotecagotica, rivestita con dei pannelli di quercia inglese intagliata e, verosimilmente, trasferita per intero da qualche rovina oltreoceano.Un uomo robusto, di mezza età, con degli enormi occhiali chelo facevano somigliare a un gufo, sedeva bevendo qualcosa a lato diun enorme tavolo fissando, con instabile concentrazione, gli scaffali ricolmi di libri. Quando entrammo si voltò verso di noi e contemplò Jordan dalla testa ai piedi.«Cosa ne pensate?» chiese con impeto.«Di cosa?»Agitò la mano verso gli scaffali.«Di questa. È inutile che vi prendiate il fastidio di controllare.L'ho fatto io. Sono tutti veri.»«I libri?»Annuì.«Assolutamente reali – hanno le pagine e tutto il resto. Pensavofossero di un bel cartone resistente. Ma, neanche a dirlo, sono proprio veri. Le pagine e... andiamo, vi faccio vedere.»Dando per scontato il nostro scetticismo, corse verso la libreriae tornò col volume primo delle Letture di Stoddard.«Guardate!» urlò trionfante. «È autentica roba stampata. Mi hafregato. Quest'uomo è un vero Belasco. È un trionfo. Che accuratezza! Che realismo! Sa benissimo quando fermarsi – non ha tagliato le pagine. Ma cosa volete? Cosa vi aspettate?»Mi strappò di mano il libro e lo ripose con cura al suo postosullo scaffale, mormorando che se un solo mattone fosse stato rimosso, l'intera libreria sarebbe potuta crollare.«Chi vi ci ha portato qui?» domandò. «O ci siete semplicementevenuti? Io ci sono stato condotto. Molta gente ci viene condotta.»Jordan lo guardò attentamente, in modo allegro, senza rispondergli.Il Grande Gatsby78«Ci sono stato portato da una donna di nome Roosevelt,» continuòlui, «la signora Claud Roosevelt. La conoscete? Io ho avuto il piacereieri sera, da qualche parte. Ero ubriaco da una settimana ed ho pensatoche stare seduto in una biblioteca mi avrebbe, forse, reso più sobrio.»«Ci è riuscito?»«Un pochino, penso. Non saprei che dire. Sono stato qui soltanto un'ora. Vi ho parlato dei libri? Sono tutti veri. Sono...»«Ce l'ha già detto.»Gli stringemmo la mano, con aria grave, e tornammo fuori.Ora si ballava sul palco in giardino, degli uomini anziani facevano volteggiare all'indietro le ragazze, in continui giri sgraziati, lecoppie più distinte si tenevano strette in maniera tortuosa, seguendo la moda del momento e tenendosi ai lati, mentre tante ragazzeballavano da sole, sollevando per un momento l'orchestra dallapreoccupazione di suonare il banjo o fare delle smorfie. A partiredalla mezzanotte, l'allegria era aumentata. Un noto tenore avevacantato in italiano, un celeberrimo contralto si era esibito col jazz ela gente, tra un'esibizione e l'altra, s'era prodotta in "numeri" pertutto il giardino, mentre allegri e vacui scoppi di risa s'innalzavanoverso il cielo estivo. Una coppia di "gemelle" da palcoscenico – chepoi si seppe erano le ragazze in giallo – fecero una breve recitainfantile in costume e lo champagne fu servito in calici più grandidelle ciotole lavadita. La luna aveva raggiunto il punto più alto e,nello stretto, fluttuava un triangolo di scaglie argentee, un po' tremolanti per via del riverbero, duro e metallico, dei banjo sul prato.Ero ancora con Jordan Baker. Eravamo seduti a un tavolo conun uomo più o meno della mia età e una ragazzina piuttosto chiassosa che ad ogni minimo pretesto scoppiava in una risata incontrollabile. Ora gioivo per me stesso. Avevo bevuto un paio di "ciotolelavadita" di champagne e la scena era cambiata, davanti ai mieiocchi, in qualcosa di significativo, basilare e profondo.Capitolo Terzo79In una pausa dell'intrattenimento, l'uomo mi guardò e sorrise.«Il suo viso mi è familiare», disse educatamente. «Non era, percaso, nella Terza Divisione durante la guerra?»«Oh, si. Ero nel Nono Battaglione di Artiglieria.»«Io sono stato nel Settimo Fanteria fino al giugno del 1918. Erocerto di averti visto prima.»Parlammo per un po' dei villaggi francesi, umidi e grigi. Evidentemente abitava nei paraggi, poiché mi disse che aveva preso dapoco un idrovolante e aveva intenzione di provarlo il mattino dopo.«Non ti andrebbe di venire con me, vecchio mio? Vicino la costa, lungo lo stretto.»«A che ora?»«Quando ti pare.»Ero sul punto di chiedergli come si chiamasse quando Jordan siguardò attorno e sorrise.«Si sta divertendo, ora?» domandò.«Molto di più.» Tornai a voltarmi verso la mia nuova conoscenza.«Si tratta di una festa un po' particolare per me... Non ho neanche visto il padrone di casa. Abito oltre quella...» e mossi la miamano verso un'invisibile siepe in lontananza «e questo Gatsby, miha mandato lo chauffeur con un invito.»Per un istante mi guardò quasi come se non riuscisse a capire.«Sono io Gatsby» disse improvvisamente.«Cosa!» esclamai. «Oh, ti prego di perdonarmi.»«Credevo lo sapessi, vecchio mio. Temo di non essere un buonpadrone di casa.»Sorrise con aria comprensiva – molto più che comprensiva. Erauno di quei rari sorrisi dotati di un'eterna rassicurazione, uno diquelli in cui t'imbatti quattro o cinque volte al massimo nella vita.Fronteggiava – o almeno sembrava farlo – l'intero mondo esternoper un istante, quindi si concentrava su di te con un irresistibile pre-Il Grande Gatsby80giudizio a tuo favore. Ti comprendeva fin dove volevi essere compreso, credeva in te proprio quanto avresti voluto farlo tu stesso eti rassicurava sul fatto di aver ricevuto da te esattamente l'impressione che volevi offrire, la migliore che avessi potuto sperare. Precisamente a questo punto, svaniva – ed io mi ritrovavo a osservareun elegante e giovane proletario, di uno o due anni sopra i trenta,la cui elaborata formalità nell'esprimersi rasentava il ridicolo. Giàprima che si presentasse, avevo avuto l'impressione che scegliessecon cura le sue parole.Quasi nello stesso momento in cui il signor Gatsby finiva di presentarsi, un maggiordomo correva verso di lui per informarlo chelo stavano chiamando, al telefono, da Chicago. Lui si scusò con unleggero inchino, col quale intendeva includere tutti noi a turno.«Qualsiasi cosa desiderassi, ti basterà chiederla, vecchio mio»,mi sussurrò. «Scusatemi. Vi raggiungerò più tardi.»Quando si allontanò, mi voltai immediatamente verso Jordan –costretto a renderla partecipe del mio stupore. Mi ero immaginatoil signor Gatsby come un uomo di mezza età, florido e corpulento.«Chi è?» chiesi. «Lo conosce?»«È solo un uomo che si chiama Gatsby.»«Intendo dire, da dove viene? E cosa fa nella vita?»«Ora è lei ad essere interessato al soggetto», mi rispose con unpallido sorriso. «Bene, una volta mi disse che aveva studiato adOxford.»Uno sfondo confuso cominciava a prendere forma alle sue spalle, ma il commento successivo fece ricalare le tenebre.«Ad ogni modo, io non ci credo.»«Perché no?»«Non saprei,» continuò lei «ma non credo che ci sia stato.»Qualcosa nel suo tono mi fece tornare alla mente il commento dell'altra ragazza, "Penso che abbia ucciso un uomo" ed ebbe Capitolo Terzo81l'effetto di stimolare la mia curiosità. Avrei potuto accettare, senzariserve, che Gatsby fosse venuto fuori dalle paludi della Louisianao dal Lower Est Side di New York. Sarebbe stato comprensibile.Ma dei giovanotti, non potevano – almeno nella mia inesperienzaprovinciale credevo non potessero – saltar fuori belli freschi dalnulla e comprare un palazzo a Long Island.«Comunque, dà delle grandi feste», disse Jordan cambiando argomento con elegante disprezzo per le questioni concrete. «E io adoro legrandi feste. Sono così intime. Nelle feste più piccole, non c'è privacy.»Ci fu un forte rullo di tamburi e la voce del direttore d'orchestrasi levò, improvvisa, al di sopra dell'ecolalia del giardino.«Signore e signori» urlò «su richiesta del signor Gatsby, eseguiremo ora, per voi, l'ultimo brano di Vladimir Tostoff, che tantaattenzione ha attirato al Carnegie Hall lo scorso primo maggio. Seleggete i giornali, saprete che si tratta di un grande successo.» Risecon gioviale condiscendenza e aggiunse «Un buon successo!» alché tutti risero.«Il brano è conosciuto», concluse energicamente «come Jazz History of the World di Vladimir Tostoff.»La qualità della composizione di Tolstoff mi sfuggì poiché, nonappena la musica ebbe inizio, i miei occhi caddero su Gatsby chese ne stava da solo sulle scale di marmo a guardare i vari gruppi,ad uno ad uno, con aria d'approvazione. La pelle abbronzata e tesadonava un aspetto attraente al suo volto mentre i capelli scuri davano l'impressione di essere curati ogni giorno. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a scorgere nulla di misterioso in lui. Mi chiesi seil fatto che non stesse bevendo, lo aiutasse a distinguersi dai suoiospiti, poiché mi sembrava che col crescere dell'ilarità generale, luiassumesse un tono più composto. Quando la Jazz History of theWorld fu terminata, alcune ragazze poggiavano la loro testa sullespalle degli uomini con aria gioviale, da cucciolo, altre si lasciava-Il Grande Gatsby82no cadere scherzosamente tra le braccia di altri uomini, anche ingruppi, sapendo che qualcuno avrebbe fermato la loro caduta – manessuna si lasciava cadere tra le braccia di Gatsby, nessun caschettofrancese poggiava sulla sua spalla e non si formò nessun quartetto,con lui in testa per una strofa.«Vi chiedo scusa.» Il maggiordomo di Gatsby ci si parò dinanziimprovvisamente.«Signorina Baker?» disse «le chiedo di perdonarmi, ma il signorGatsby vorrebbe parlare con lei, da sola.»«Con me?» esclamò lei sorpresa.«Si, madame.»Si alzò lentamente, inarcando il sopracciglio verso me per lo stupore, e seguì il maggiordomo in direzione della casa. Notai che indossava il suo abito da sera, al pari di tutti i suoi vestiti, come fosseun abito sportivo – c'era un allegro dinamismo nei suoi movimenti,quasi avesse imparato a camminare sui campi da golf in mattinelimpide e frizzanti.Ero solo ed erano quasi le due. Da un po' di tempo si udivanodei suoni confusi e intriganti provenire da una stanza lunga, condiverse finestre, che si trovava al di sopra della terrazza. Evitandolo studente che accompagnava Jordan, intento a discutere di ostetricia con due ragazze del coro, implorandomi di unirmi a loro,entrai in casa.La stanza, molto grande, era gremita di gente. Una delle ragazzein giallo ora stava suonando il piano e davanti a lei una signoragiovane e alta dai capelli rossi, di un famoso coro, si esibiva in unacanzone. Aveva bevuto una gran quantità di champagne e mentrecantava doveva aver pensato, purtroppo, che tutto era davvero triste – non si limitava a cantare, piangeva anche. Ad ogni pausa dellacanzone scoppiava in singhiozzi spezzati per poi riprendere a cantare in soprano trillante. Le lacrime le scorrevano lungo le guance Capitolo Terzo83– non liberamente, però, poiché quando venivano a contatto conle ciglia, assumevano un colore scuro, come inchiostro, e proseguivano il resto della loro corsa in lenti rivoletti bluastri. Le vennesuggerito, in maniera scherzosa, di cantare le note che aveva sulviso, al ché lei alzò le mani e sprofondò su una sedia, spegnendosiin un sonno pesante, da vino.«Ha litigato con un uomo che dice di essere suo marito», mispiegò una ragazza al mio fianco.Mi guardai attorno. Molte delle donne rimaste, ora stavano litigando con degli uomini che dicevano di essere i loro mariti. Ancheil gruppo di Jordan, il quartetto di Est Egg, si era diviso per deidissensi. Uno degli uomini stava parlando, con vivace intensità, auna giovane attrice e sua moglie, dopo aver tentato di ridere della situazione con aria dignitosa e indifferente, era crollata e avevadeciso di sferrargli degli attacchi al fianco – a tratti gli apparivaimprovvisamente accanto e, come un diamante infiammato, gli sussurrava all'orecchio: «Sei impegnato!»La riluttanza a tornare a casa non era soltanto dei ribelli. La salaera, al momento, occupata da due uomini deplorabilmente sobri edalle rispettive mogli, vistosamente indignate. Le due donne stavano simpatizzando tra loro con toni un po' sovreccitati.«Ogni volta che si accorge che mi sto divertendo, vuole tornarea casa.»«Non ho mai sentito nulla di più egoistico, in vita mia.»«Siamo sempre i primi ad andar via.»«Lo stesso vale per noi.»«Beh, stasera siamo quasi gli ultimi», esordì timidamente unodegli uomini. «L'orchestra è andata via da mezz'ora.»Malgrado le mogli convenissero sull'assurdità di tanta cattiveria,la disputa finì dopo una breve lotta ed entrambe furono sollevate,scalcianti, nella notte.Il Grande Gatsby84Mentre aspettavo il mio cappello nell'atrio, la porta della librerias'aprì e Jordan Baker e Gatsby uscirono insieme. Lui si stava accomiatando, ma il suo entusiasmo si spense bruscamente, in mera formalità, con l'arrivo di un gruppo di ospiti che intendevano salutarlo.Gli amici di Jordan la stavano chiamando con impazienza dalportico, ma lei s'intrattenne ancora un po' a stringere qualche mano.«Ho appena ascoltato qualcosa di stupefacente», sussurrò. «Quanto tempo siamo rimasti là dentro?»«Beh... circa un'ora.»«È stato... semplicemente sbalorditivo», ripeté in modo assorto. «Ma ho giurato che non ne avrei fatto parola ed eccomi quia stuzzicarla.» Mi sbadigliò graziosamente in faccia. «Per favore,venga a trovarmi... Elenco del telefono... a nome della signorinaSigourney Howard... mia zia....» Stava affrettandosi verso l'uscitamentre continuava a parlare – la sua mano abbronzata si produssein un allegro saluto, quindi si ricongiunse col suo gruppo di amiciall'ingresso.Provando un po' vergogna al pensiero di essere rimasto così,fino a tardi, al mio primo invito, mi unii agli ultimi ospiti di Gatsby che gli si raggruppavano intorno. Volevo spiegargli che l'avevocercato prima, di sera, e scusarmi per non averlo riconosciuto ingiardino.«Non dirlo neanche», mi rassicurò calorosamente. «Non pensarci più, vecchio mio.» La sua espressione fu familiare quanto la manocon la quale mi sfiorò affettuosamente la spalla. «E non dimenticareche domani mattina, alle nove, proveremo l'idrovolante.»Poi il maggiordomo, alle sue spalle, disse:«Philadelphia al telefono, signore.»«D'accordo, giusto un minuto. Dì loro che arrivo subito... buona notte.»«Buona notte.»Capitolo Terzo85«Buona notte.» Sorrise – e d'un tratto sembrò che l'essere rimasto fino a tardi, fosse stata una cortesia nei suoi confronti, quasi nonavesse desiderato altro. «Buona notte, vecchio mio... buona notte.»Ma, mentre scendevo le scale, vidi che quella serata non era ancora conclusa. A una cinquantina di piedi dal cancello, una dozzinadi torce illuminavano una scena bizzarra e tumultuosa.Nel canale a lato della strada, rovesciata sulla fiancata sinistrae con una ruota staccata di netto, c'era una coupé nuova che s'eraavviata per il viale di Gatsby giusto due minuti prima. L'acuminata sporgenza di un muretto giustificava il distacco della ruotache ora era divenuta oggetto dell'attenzione di una mezza dozzinadi autisti curiosi. Ad ogni modo, siccome avevano lasciato le loroauto a bloccare la strada, un frastuono roco e disarmonico si levava, ormai, dalle vetture che seguivano, andandosi a sommare allaviolenta confusione della scena.Un uomo con un lungo spolverino era sceso dal rottame e orase ne stava in piedi, in mezzo alla strada, a guardare dall'auto allagomma e dalla gomma ai curiosi, con aria divertita e perplessa.«Guardate!» esclamò. «Sono finito nel fosso.»Il fatto per lui era incredibilmente strano – ed io misi a fuocoprima la particolare qualità dello stupore, quindi lo riconobbi – eral'estimatore della biblioteca di Gatsby.«Com'è potuto accadere?»Scrollò le sue spalle.«Non ci capisco nulla di meccanica», disse con decisione.«Ma com'è potuto succedere? Ha sbattuto contro il muro?»«Non lo chieda a me», disse Occhi-di-Gufo lavandosene le manidell'intera faccenda. «Non ho molta pratica alla guida – anzi nonne ho proprio. È successo e questo è tutto ciò che so.»«Beh, se non se la cava alla guida, non dovrebbe rischiare a guidare di notte.»Il Grande Gatsby86«Ma non ci ho neanche provato» spiegò indignato «non ci stavoproprio provando.»Un silenzio angosciante calò sugli astanti.«Intende suicidarsi?»«È stato fortunato che sia saltata soltanto una ruota! Un pessimo autista, non dovrebbe neanche provarci a guidare!»«Lei non ha capito», spiegò il criminale. «Io non stavo guidando. C'era un altro uomo in macchina.»Lo shock che seguì questa dichiarazione trovò voce in un fragoroso "Ah-h-h!" quando la porta della coupè si aprì lentamente.La folla – poiché ormai si era formata una folla – fece un passoindietro involontariamente e, quando la porta fu completamenteaperta, ci fu una calma spettrale. Poi, molto lentamente, a pocoa poco, un individuo pallido venne fuori dal rottame, tastandotimorosamente il terreno con una grande scarpa che ciondolavaincerta.Accecata dal bagliore delle torce e confusa dall'incessante frastuono dei clacson, l'apparizione stentò in piedi, barcollando perqualche istante, prima di scorgere l'uomo con lo spolverino.«Qual è il problema?» chiese con fare calmo. «Abbiamo finito labenzina?»«Guarda!»Una mezza dozzina di dita indicarono la ruota distaccata – luila fissò per un momento, poi guardò in alto quasi sospettasse chefosse potuta cadere dal cielo.«Se n'è venuta via», gli spiegò qualcuno.Lui annuì.«Non mi sono accorto subito che ci fossimo fermati.»Una pausa. Poi, prendendo un gran respiro e raddrizzando lespalle, disse con voce decisa:«Voialtri sapete dirmi dove si trova una stazione di servizio?»Capitolo Terzo87Alla fine una dozzina di uomini, alcuni dei quali in condizioniappena migliori delle sue, gli spiegarono che la ruota e la macchinanon erano più fisicamente unite.«Tiratela fuori», suggerì un istante dopo. «Mettetela in retromarcia.»«Ma manca una ruota!»Lui esitò.«Tentar non nuoce», disse lui.Il lamento dei clacson era ormai un crescendo, io mi voltai etagliai per il prato verso casa. Guardai ancora una volta indietro.Un'ostia di luna splendeva sulla casa di Gatsby, rendendo la nottebella come prima, e resisteva alle risate e al frastuono del suo giardino ancora illuminato. Un vuoto improvviso sembrava ora proveniredalle finestre e dalle grandi porte avvolgendo, in un completo isolamento, la figura del padrone di casa che se ne stava in piedi sotto alportico con le braccia alzate in un gesto formale di commiato.Rileggendo ciò che scrissi allora, noto di aver dato l'impressionedi essere stato completamente assorbito dagli eventi di tre nottidistanti alcune settimane l'una dall'altra. Al contrario, si trattò dieventi del tutto casuali in un'estate intensa che, per molto tempo,mi assorbirono infinitamente meno delle mie questioni personali.La maggior parte del tempo la trascorrevo lavorando. La mattina presto il sole proiettava la mia ombra verso ovest, mentre correvo giù nell'abisso bianco della bassa New York, al Probity Trust.Conoscevo di nome gli altri impiegati e i giovani agenti di borsa epranzavo con loro, in oscuri e gremiti ristoranti, mangiando piccolesalsicce di maiale, purè di patate e bevendo caffè. Ebbi anche unabreve storia con una ragazza che viveva a Jersey City e lavorava inamministrazione, ma poi suo fratello cominciò a guardarmi di traverso e così, quando lei partì per le vacanze, a Luglio, pensai benedi lasciar perdere la faccenda.Il Grande Gatsby88Cenavo abitualmente al Yale Club – per qualche ragione eral'evento più cupo della mia giornata – dopodiché me ne salivo inlibreria a studiare per ore, coscienziosamente, investimenti e assicurazioni. C'erano in giro, abitualmente, dei nullafacenti, ma sitenevano lontani dalla biblioteca, cosicché era un ottimo posto perlavorare. A seguire, se la serata era tiepida, passeggiavo per Madison Avenue fino al vecchio Hill Murray Hotel e poi sulla Trentreesima verso la Pennsylvania Station.Cominciai ad apprezzare New York, l'atmosfera vivace e avventurosa della notte e la soddisfazione che l'occhio irrequieto provava nelcontemplare il continuo fluire di uomini, donne e vetture. Mi piacevarisalire la Quinta Avenue scegliendo, tra la folla, donne romantichee immaginare che in pochi minuti sarei potuto entrare nelle loro vitesenza che nessuno potesse saperlo o disapprovare. Qualche volta,nella mia mente, le seguivo nei loro appartamenti agli angoli dellestrade più nascoste e loro si voltavano, sorridenti, verso me primadi sfumare, attraverso una porta, nella calda oscurità. Nell'incantevole tramonto sulla metropoli, provavo una lancinante solitudine, lasentivo anche negli altri – giovani e poveri impiegati che si attardavano fuori le vetrate dei ristoranti aspettando che giungesse l'ora perconsumare una cena solitaria – giovani impiegati al crepuscolo, chesprecavano i momenti più significativi della notte e della vita.Di nuovo le otto, quando le strade scure verso la quarantesimaerano piene zeppe di taxi frementi diretti verso il distretto dei teatri, sentivo una fitta al cuore. Figure si stringevano nei taxi durantele soste, voci cantavano, giungevano risate per battute non uditee luci di sigarette abbozzavano gesti indecifrabili all'interno dellevetture. Immaginando di correre io stesso verso l'allegria, condividendo la loro eccitazione, auguravo a tutti il meglio.Per un po' persi di vista Jordan Baker, poi verso la metà dell'estate la ritrovai. In un primo momento fui lusingato di andare in Capitolo Terzo89giro con lei, poiché era una campionessa di golf e tutti conoscevanoil suo nome. Poi ci fu qualcosa di più. Non ero esattamente innamorato, ma provavo una sorta di tenera curiosità. L'espressioneannoiata che riservava al mondo, nascondeva qualcosa – la maggiorparte delle pose nascondono qualcosa, benché spesso non da subito – ed un giorno scoprii di cosa si trattava. Quando andammoa una festa su a Warwick, lasciò la vettura a noleggio con la capotecalata, sotto la pioggia, e poi mentì a riguardo – subito mi tornòalla mente la storia su di lei che m'era sfuggita quella sera da Daisy.Durante il suo primo torneo di golf ci fu una lite che presto finì suigiornali – un sospetto sul fatto che avesse spostato la pallina, dauna brutta posizione, durante la semifinale. La faccenda assunsevelocemente le dimensioni di uno scandalo, poi scemò. Un caddyritirò la sua testimonianza e l'unico altro testimone oculare ammiseche poteva essersi sbagliato. L'episodio e il nome mi erano rimastientrambi impressi.Jordan Baker evitava istintivamente gli uomini intelligenti e furbi e ora capivo che ciò dipendeva dal fatto che si sentiva più alsicuro in un ambito nel quale qualsiasi infrazione al codice fosseritenuta impossibile. Era incurabilmente disonesta. Non riusciva asopportare l'idea di essere in svantaggio e, data questa incapacità,suppongo che avesse iniziato fin da giovanissima a utilizzare i varisotterfugi per continuare ad ostentare quel sorriso fantastico edinsolente, rivolto al mondo intero, e allo stesso tempo soddisfare ibisogni di quel corpo così disinvolto.Per me non faceva alcuna differenza. La disonestà in una donnaè qualcosa che non si biasima mai troppo – me ne dispiacqui perun po', poi me ne dimenticai. Fu alla stessa festa che avemmo unasingolare discussione sulla guida dell'automobile. Lo spunto fu ilsuo passaggio troppo ravvicinato ad alcuni operai, al punto che ilnostro parafango strappò via un bottone dalla giacca di uno di loro.Il Grande Gatsby90«Sei una pessima guidatrice» protestai. «Dovresti stare più attenta o evitare di guidare.»«Sono attenta.»«No, non lo sei.»«Beh, lo sono gli altri», disse con sufficienza.«Questo che c'entra?»«Si terranno alla larga», insisté. «Si deve essere in due per fareun incidente.»«Supponendo che incontri qualcuno sbadato quanto te?»«Spero non succeda mai», rispose. «Detesto la gente sbadata. Èper questo che tu mi piaci.»I suoi occhi grigi, striati dal sole, fissavano l'orizzonte, ma avevadeliberatamente cambiato la nostra relazione e per un momentocredetti di amarla. Però, io rifletto molto lentamente e in me cisono tanti condizionamenti interni che agiscono come freni suidesideri; compresi che, per cominciare, dovevo sfilarmi definitivamente da quel groviglio e tornarmene a casa. Le avevo scritto unalettera a settimana firmandomi: "Con affetto, Nick" e tutto quelloche riuscivo a pensare di lei era che, quando giocava a tennis, le siformava un esile baffetto di sudore sul labbro superiore. Ciononostante esisteva un vago impegno che doveva essere cautamentetroncato, prima che potessi ritenermi libero.Ciascuno di noi si suppone dotato di almeno una delle virtù cardinali, e questa è la mia: sono una delle poche persone oneste cheabbia mai conosciuto.91La domenica mattina, mentre le campane delle chiese rintoccavano nei borghi lungo la costa, il mondo e la sua amante tornavano a casa di Gatsby e ammiccavano con ilarità sul prato.«È un contrabbandiere», dicevano le ragazze muovendosi tra i cocktaile i fiori. «Un tempo uccise un uomo che aveva scoperto che era il nipote di von Hindenburg e cugino in seconda del diavolo. Passami unarosa, amore, e versami un'ultima goccia in quella coppa di cristallo.»Una volta scrissi, su uno spazio vuoto dell'orario dei treni, i nomidegli ospiti di Gatsby di quell'estate. Ora è un vecchio pieghevoleche si sbriciola lungo i lati con l'intestazione 'Orario in vigore dal5 Luglio del 1922'. Ma riesco ancora a leggere i nomi ingrigiti, chevi daranno un'impressione più netta di quanto non potrebbero lemie descrizioni generiche, di coloro che accettarono l'ospitalità diGatsby e gli offrirono il sottile omaggio di non saper nulla di lui.Dunque: da Est Egg venivano Chester Baker e consorte, i Leech e un uomo di nome Bunsen, che conoscevo da Yale, nonchéil dottor Webster Civet che è affogato l'estate scorsa nel Maine.Poi gli Hornbeams, Willie Voltaire e consorte e un intero clan, iBlackbuck, i quali si ritiravano sempre in un angolo e puntavanoil naso all'insù come le capre quando gli si avvicinava qualcuno.Quindi gli Ismay, i Chrystie (o per meglio dire Hubert Auerbach ela moglie di Chrystie) ed Edgar Beaver, i cui capelli si dice divenCapitolo QuartoIl Grande Gatsby92nero bianchi come il cotone improvvisamente in un pomeriggiod'inverno senza alcuna ragione.Clarence Endive veniva da Est Egg, se ricordo bene. Venne unasola volta, con dei pantaloni bianchi alla zuava, e litigò con un barbone di nome Etty, in giardino. Da zone più lontane dell'isola venivano i Cheadle, gli Schraeder, gli Stonewall Jackson della Georgia,i Fishguard e i Ripley Snell. Snell rimase per tre giorni prima di finire in penitenziario, così ubriaco sul vialetto di ghiaia che l'auto della signora Ulysses Swett gli passò sulla mano destra. I Dancie anchee i Whitebait, che era ben oltre i sessanta, e Maurice A. Flink, gliHammerhead e Beluga, l'importatore di tabacco con le figlie.Da West Egg venivano i Pole e i Mulready, Cecil Roebuc e CecilSchoen, Gulik il senatore e Newton Orchid, tra i proprietari della FilmPar Excellence, Eckhaust e Clyde Cohen, Don S. Schwartze (il figlio) eArthur McCarty, tutti nel giro del cinema in un modo o nell'altro. Poi iCatlip e i Bemberg, G. Earl Muldoon, fratello di quel Muldoon che poiavrebbe strangolato la moglie. Da Fontano l'organizzatore, Ed Legrose James B. ("Rot-Gut") Ferret e i De Jongs, Ernest Lilly – loro venivanoper il gioco d'azzardo e quando Ferret passeggiava in giardino, stavaa significare che l'avevano ripulito e le azioni dell'Associated Tractionavrebbero avuto delle oscillazioni interessanti il giorno successivo.Un uomo di nome Klipspringer veniva così spesso e tanto a lungo che fu ribattezzato "il pensionante" - dubito che avesse un'altracasa. Del mondo del teatro c'erano Gus Waize e Horace O'Donavan, Lester Myer, George Duckweed e Francis Bull. Sempre daNew York venivano i Chrome e i Backhyssons, i Dennicker e RusselBetty, i Corrigan e Kelleher, i Dewar, gli Scully, i Belcher, gli Smirke e il giovane Quinns, appena divorziato, Henry Palmetto che siuccise gettandosi sui binari della metropolitana in Times Square.Benny McClenahan veniva sempre con quattro ragazze. Non erano mai le stesse, ma si somigliano tanto che inevitabilmente sembrava Capitolo Quarto93di averle viste prima. Ho dimenticato i loro nomi – Jaqueline, penso,o anche Consuela, o Gloria o Judy o June, e i loro cognomi erano altrettanto melodiosi nomi di fiori e mesi mentre altri erano più austeri,di grandi capitalisti americani dei quali, se forzate, confessavano diessere cugine.Oltre tutti questi, ricordo che Faustina O'Brien venne almenouna volta, le figlie di Baedeker e il giovane Brewer, che aveva avutomutilato il naso in guerra, il signor Albrucksburger e la signorina Haag, sua fidanzata, Ardita Fitz-Peter e il signor P. Jewett, untempo a capo della Legione Americana, la signorina Claudia Hipcon un uomo che si credeva fosse il suo autista, e un principe diqualcosa che noi chiamavamo Duca e il cui nome, se mai lo seppi,l'ho dimenticato.Tutta questa gente era ospite di Gatsby, quell'estate.Alle nove di una mattina di fine luglio, la meravigliosa auto diGatsby avanzò sobbalzando sul vialetto di ghiaia che portava almio cancello, annunciandosi con una fragorosa melodia del clacson a tre toni. Era la prima volta che mi faceva visita, benché avessigià preso parte a due sue feste, fossi salito sul suo idrovolante e, susuo pressante invito, avessi utilizzato più volte la sua spiaggia.«Buongiorno, vecchio mio. Pranzeremo insieme oggi e ho pensato di passarti a prendere.»Si dondolava sul predellino dell'auto con quell'elasticità dei movimenti così tipica degli americani che deriva, suppongo, dal nondover affrontare lavori pesanti o dal non restare a lungo seduti ingioventù, ma anche dalla grazia informe dei nostri giochi, sporadicie nervosi. Questa peculiarità veniva fuori, ogni momento, attraverso la sua scrupolosa attitudine all'irrequietezza fisica. Non stavamai fermo; c'era sempre un piede che tamburellava o una manoinsofferente che si apriva e chiudeva.Il Grande Gatsby94Vide che guardavo con ammirazione la sua auto.«È bella, non è vero, vecchio mio?» Saltò giù per offrirmi unoscorcio migliore. «Non l'avevi mai vista prima?»L'avevo vista. Tutti l'avevano vista. Era di un intenso color crema, lucente di cromature, sinuosa qua e là nella sua esagerata lunghezza, con un trionfo di vani per i cappelli, per le provviste e pergli attrezzi e coperta da un labirinto di parabrezza che rispecchiavano una dozzina di soli. Seduti là davanti, oltre diversi strati divetro, in una specie di serra di cuoio verde, partimmo per la città.Avevo parlato con lui all'incirca una mezza dozzina di volte,nell'ultimo mese, e avevo riscontrato con delusione che non avevapoi molto da dire. Così la mia prima impressione, che si trattasse diuna persona di una certa importanza, era progressivamente sfumata facendolo diventare semplicemente il proprietario di una vistosavilla di fianco al mio cottage.Poi fu la volta di quella sconcertante gita. Non eravamo ancoragiunti a West Egg, che Gatsby già cominciava a lasciare le sue dottefrasi a metà e a tamburellare, titubante, sul ginocchio del suo abitocolor caramello.«Di un po', vecchio mio», se ne uscì all'improvviso. «Cosa pensidi me?»Preso un po' alla sprovvista, risposi con le solite formule evasive,riservate a domande del genere.«Beh, ti racconterò qualcosa della mia vita», m'interruppe.«Non vorrei che ti facessi una cattiva idea di me in base a tutte lestorie che hai sentito.»Quindi era al corrente delle accuse bizzarre che davano saporealle conversazioni nei saloni di casa sua.«Ti dirò la verità, al cospetto di Dio.» La sua mano destra, prontamente, ordinò al giudizio divino di attendere. «Sono figlio di gente piuttosto benestante del Middle West, tutti morti ormai. Sono Capitolo Quarto95cresciuto in America ma ho studiato a Oxford poiché tutti i mieiavi hanno sempre studiato lì. È una tradizione di famiglia.»Mi guardò con la coda degli occhi – ed io capii perché JordanBaker credesse che mentiva. Aveva accelerato sulla frase «ho studiato a Oxford» - si mangiava le parole o inciampava su di esse- come se già prima gli avessero dato noie. E, con questo dubbio,tutta la sua dichiarazione cadeva in frantumi lasciandomi nel dubbio che in lui potesse esserci qualcosa di misterioso, dopo tutto.«Quale zona del Middle West?» chiesi casualmente.«San Francisco.»«Capisco.»«I miei sono tutti morti, ho ereditato una montagna di soldi.»La sua voce era grave, come se il ricordo di quella prematurascomparsa lo tormentasse ancora. Per un attimo sospettai mi stesseprendendo in giro, ma riosservandolo mi convinsi del contrario.«In seguito ho vissuto come un giovane rajah in tutte le capitalid'Europa – Parigi, Venezia, Roma – collezionando gioielli, principalmente rubini, partecipando a grandi battute di caccia, dipingendoun po', roba così soltanto per mio diletto, e cercando di dimenticarequalcosa di molto triste che m'era capitato diverso tempo prima.»Dovetti sforzarmi per controllare una risata incredula. Tutto questo racconto appariva così banale e stereotipato da non evocare altroche l'immagine di un burattino col turbante che perdeva segatura daogni poro mentre continuava a inseguire la tigre nel Bois de Boulogne.«Poi arrivò la guerra, vecchio mio. Fu un grande sollievo, provaia morire in ogni modo, ma sembrava che su di me ci fosse un incantesimo. Accettai la nomina a tenente, quando scoppiò. Nella foresta delle Argonne condussi quel che restava del mio battaglione diartiglieria così avanti, che avevamo mezzo miglio scoperto su ciascun fianco dove la fanteria non poteva avanzare. Restammo lì perdue giorni e due notti, centotrenta uomini con sedici mitragliatrici Il Grande Gatsby96Lewis e, quando alla fine ci raggiunse la fanteria, trovò le insegne ditre divisioni tedesche tra le pile di morti. Fui promosso maggiore eciascun governo Alleato mi diede una decorazione – anche il Montenegro, il piccolo Montenegro che affaccia sull'Adriatico.»Il piccolo Montenegro! Scandì bene le parole, annuendo con unsorriso. Il sorriso racchiudeva la tribolata storia del Montenegro ela solidarietà alla coraggiosa lotta del suo popolo. Apprezzava inpieno la serie di avvenimenti nazionali che avevano suscitato queltributo dal piccolo cuore caldo del Montenegro. La mia incredulità, ora, era repressa dal fascino della narrazione; era come sfogliare,a folle velocità, una dozzina di riviste illustrate.Cercò qualcosa in una tasca, quindi mi fece scivolare tra le maniun pezzo di metallo, legato ad un nastro.«Questa è quella del Montenegro.»Con mio stupore, l'oggetto aveva un'aria autentica.Orderi di Danilo, recitava la leggenda circolare, Montenegro Nicolas Rex.«Voltala.»Maggiore Jay Gatsby, lessi. Per Straordinario Valore.«C'è un'altra cosa che mi porto sempre dietro. Un ricordo deitempi di Oxford. È stata scattata a Trinity Quad – l'uomo alla miasinistra ora è il Conte di Doncaster.»Si trattava di una fotografia con una dozzina di ragazzi in blazer sotto un arco attraverso cui si scorgevano un gran numero diguglie. C'era Gatsby, sembrava un po' più giovane, ma non tanto– con una mazza da cricket in mano.Quindi era tutto vero. Vidi le pelli di tigre fiammeggiare nel suo palazzo sul Gran Canale; lo vidi aprire uno scrigno pieno di rubini per alleviare, con la loro intensa luce cremisi, le pene del suo cuore infranto.«Ti chiederò un grosso favore, oggi», disse riponendo in tasca isuoi souvenir con soddisfazione, «per questo pensavo fosse necessario sapessi qualcosa in più su di me. Non volevo mi credessi uno Capitolo Quarto97qualunque. Vedi, mi circondo di sconosciuti perché vado alla deriva cercando di dimenticare quanto di triste mi è accaduto.» Esitò.«Ne saprai di più nel pomeriggio.»«A pranzo?»«No, nel pomeriggio. Ho saputo che porterai la signorina Bakerfuori per il tè.»«Vuoi dire che sei innamorato della signorina Baker?»«No, vecchio mio, no. Ma la signorina Baker si è gentilmenteofferta di parlarti di questa faccenda.»Non avevo la più pallida idea di cosa fosse "questa faccenda",ma ero più seccato che interessato. Non avevo invitato Jordan peril tè per ritrovarmi poi a discutere del signor Gatsby. Ero convintoche la richiesta fosse qualcosa di assolutamente stravagante e perun istante mi pentii di aver messo piede su quel prato sovraffollato.Non aveva intenzione di dire una parola di più. La sua correttezzacrebbe mentre ci avvicinavamo alla città. Superammo Port Roosevelt,dove s'intravedevano le navi d'alto mare orlate di rosso, e corremmogiù lungo l'acciottolato dei bassifondi contornato da bettole buie edabbandonate con le insegne sbiadite dei primi del Novecento. Poi lavalle delle ceneri ci si aprì attorno e scorsi il signor Wilson che si sforzava alla pompa del garage, con ansante vitalità, mentre avanzavamo.Con i parafanghi distesi come ali, spargemmo luce per mezzaAstoria – soltanto metà, poiché mentre danzavamo tra i pilastri della sopraelevata, udimmo il familiare borbottio di una motociclettae un poliziotto, tutto ansimante, ci si affiancò.«Nessun problema, vecchio mio», disse Gatsby. Rallentammo.Prese un cartoncino bianco dal portafogli e lo sventolò davanti agliocchi dell'uomo.«Tutto ok», dichiarò il poliziotto toccandosi il cappello. «Laprossima volta la riconoscerò, signor Gatsby. Mi scusi!»«Cos'era?» gli chiesi. «La foto di Oxford?»Il Grande Gatsby98«Una volta feci un favore al loro capo e da allora, ogni anno, mimanda una cartolina con gli auguri di Natale.»Attraversammo il grandioso ponte col tramonto che s'insinuavatra i tralicci creando uno scintillio continuo sulle auto in corsa, lacittà che sorgeva al di là del fiume in cumuli bianchi e zollette dizucchero, costruita con l'ambizione del denaro che non ha odore.La città, vista dal Queensboro Bridge, appare sempre come se la siguardasse per la prima volta, nel suo primordiale anelito al misteroe alla bellezza del mondo.Un morto ci superò in un carro funebre ricolmo di fiori, seguitoda due auto con le tendine scure e da altre due più allegre per gliamici. Questi ci guardarono con occhi da tragedia e le labbra sottilidegli europei del sud-est ed io fui felice che la vista della meravigliosa auto di Gatsby fosse inclusa in quella loro cupa vacanza. Nell'attraversare Blackwell Island fummo sorpassati da una limousine,guidata da uno chauffeur bianco, con a bordo tre uomini di colore vestiti alla moda, due maschi e una femmina. Scoppiai a riderequando il bianco dei loro occhi roteò verso di noi con altera rivalità."Qualsiasi cosa può accadere, ora che abbiamo attraversato questoponte", pensai. "qualsiasi cosa..."Perfino Gatsby poteva capitare, senza che ciò creasse particolare stupore.Mezzogiorno ruggente. In una cantina ben ventilata della Quarantaduesima strada, rincontrai Gatsby per il pranzo. Sbattendo leciglia per stemperare il bagliore della strada, lo intravidi a malapena nell'antisala mentre parlava con un tizio.«Signor Carraway, questo è il mio amico Wolfshiem.»Un piccolo ebreo, dal naso schiacciato, sollevò la sua grossa testa per guardarmi con due bei ciuffi di peli nelle narici. Dopo qualche istante distinsi i suoi piccoli occhi nella penombra.Capitolo Quarto99«...così gli diedi un'occhiata...» disse Wolfshiem, stringendomila mano vigorosamente, «...e cosa credi che feci?»«Cosa?» chiesi garbatamenteMa evidentemente non s'era rivolto a me, poiché mi lasciò lamano e puntò il suo naso espressivo su Gatsby.«Diedi il denaro a Katspaugh e gli dissi 'Va bene, Katspaugh, nondargli un solo centesimo finché non chiude la bocca.' La chiuse subito.»Gatsby ci prese entrambi sottobraccio inoltrandosi nel ristorante, allora Wolfshiem si ricacciò in gola una frase che stava per pronunciare e cadde in un'apatia sonnambulica.«Cocktail?» chiese il capo cameriere.«Questo è davvero un bel ristorante», disse Wolfshiem guardandole ninfe presbiteriane sul soffitto. «Ma preferisco quello di fronte!»«Si, vada per un cocktail», convenne Gatsby, e poi rivolto a Wolfshiem: «Fa troppo caldo di là.»«Caldo e piccolo è vero,» rispose Wolfshiem, «ma pieno di ricordi.»«Di che posto si tratta?» chiesi.«Il vecchio Metropole.»«Il vecchio Metropole», mormorò Wolfshiem mestamente. «Pienodi facce morte e sepolte. Pieno di amici andati via per sempre. Nondimenticherò mai la notte che spararono a Rosy Rosenthal. Eravamo in sei a tavola e Rosy aveva stramangiato e strabevuto per tuttala sera. Quando ormai era quasi l'alba, il cameriere lo raggiunse conuna strana espressione e gli disse che qualcuno voleva parlargli, fuori.'Va bene', disse Rosy e fece per alzarsi, ma io lo tirai giù sulla sedia.'Lascia che siano quei bastardi a venire dentro, se ti vogliono, Rosy, matu, dammi ascolto, non muoverti di qui.' Erano le quattro del mattino esocchiudendo le persiane avremmo potuto vedere la luce dell'alba.»«Non ci andò?» chiesi con aria innocente.«Certo che c'andò», il naso di Wolfshiem guizzò verso me conindignazione. «Si voltò sulla porta e disse 'Bada che il cameriere Il Grande Gatsby100non mi porti via il caffé!' Poi uscì sul marciapiedi, gli spararono trecolpi in pieno petto e se ne andarono.»«Quattro di loro finirono sulla sedia elettrica», dissi ricordando.«Cinque con Becker.» Le sue narici di voltarono verso me con interesse. «Mi pare d'aver capito che sta cercando qualche buon affare.»Il contrasto tra le due frasi fu allarmante. Gatsby rispose per me:«Oh no, non è lui l'uomo!»«No?» Wolfshiem sembrò deluso.«Lui è solo un amico. T'avevo detto che ne avremmo parlato inun'altra occasione.»«Vi chiedo perdono, ho sbagliato uomo.»Fu servito un invitante spezzatino e Wolfshiem, dimenticando lapiù sentimentale atmosfera del vecchio Metropol, iniziò a mangiarecon feroce delicatezza. I suoi occhi, nel frattempo, esploravano moltolentamente tutta la sala – completava il giro voltandosi per osservarela gente che gli stava di spalle. Sono convinto che, se non fossi statopresente, avrebbe gettato una rapida occhiata anche sotto il tavolo.«Sta a sentire, vecchio mio» disse Gatsby chinandosi verso me«temo di averti fatto un piccolo sgarbo stamattina, in macchina.»Ci fu di nuovo quel suo sorriso, ma questa volta gli resistetti.«Non mi piacciono i misteri», risposi. «E francamente non capisco per quale motivo tu non mi debba dire cosa vuoi. Perché devosaperlo dalla signorina Baker?»«Oh, non c'è nessun mistero» mi rassicurò. «La signorina Bakerè una grande sportiva, lo sai, e non farebbe mai nulla che non fosseassolutamente corretto.»Improvvisamente guardò l'orologio, saltò in piedi e corse fuorilasciando me e Wolfshiem a tavola.«Deve telefonare», disse Wolfshiem seguendolo con gli occhi.«Grand'uomo, non crede? Di bell'aspetto, un perfetto gentiluomo.»«Certo.»Capitolo Quarto101«S'è formato ad Oggsford.»«Oh!»«Ha frequentato il college di Oggsford, in Inghilterra. Lei conosce il college di Oggsford?»«Ne ho sentito parlare.»«Si tratta di uno dei più famosi college al mondo.»«Conosce Gatsby da molto?» chiesi.«Diversi anni», rispose compiaciuto. «Ho avuto il piacere d'incontrarlo appena dopo la guerra. Capii d'essermi imbattuto in unuomo di gran classe appena un'ora dopo. Mi dissi: 'Questo è iltipo di uomo che avresti il piacere di presentare a tua madre e atua sorella'.» Fece una pausa. «Ho notato che sta guardando i mieigemelli.»Non li stavo guardando, ma lo feci in quel momento. Erano composti, in pratica, da due pezzi d'avorio stranamente familiari.«Magnifici esemplari di molari umani», m'informò.«Però!» li osservai con attenzione. «È davvero un'idea interessante.»«Ben detto.» Tirò i polsini sotto la giacca. «Si, Gatsby è molto prudente con le donne. Non guarderebbe neanche la moglie di un amico.»Quando il soggetto di questa fiducia istintiva tornò a tavola esedette, Wolfshiem tracannò il suo caffè e s'alzò.«Un pranzo delizioso», disse «e ora mi allontano da voi due, giovanotti, prima che diventi noioso.»«Non preoccuparti, Meyer», rispose Gatsby con poco entusiasmo. Wolfshiem alzò le sue mani in una sorta di benedizione.«Sei molto gentile, ma io appartengo a un'altra generazione», dissesolenne. «Restate qui a discutere dei vostri sport, di ragazze e...» colmòil vuoto di quella parola immaginaria con un cenno della mano «quantoa me, ho cinquant'anni e non voglio imporvi oltre la mia presenza.»Mentre agitava le mani e si voltava, il suo naso da tragedia tremava.Mi domandai se non avessi detto qualcosa che avesse potuto offenderlo.Il Grande Gatsby102«Alle volte diventa davvero patetico», mi spiegò Gatsby. «Oggiè uno dei suoi giorni patetici. È un personaggio a New York – unanimale di Broadway.»«Che fa nella vita... è un attore?»«No.»«Un dentista?»«Meyer Wolfshiem? No, è un giocatore d'azzardo.» Esitò, poiaggiunse freddamente: «È lui l'uomo che truccò la World Seriesnel 1919.»«Truccò la World's Series?» ripetei.L'idea mi scosse. Ricordavo, ovviamente, che la World's Seriesera stata truccata nel 1919, ma ho sempre pensato a quella vicendacome a qualcosa di semplicemente accaduto, l'esito di un'inevitabile sequenza di eventi. Non avevo mai preso in considerazionel'idea che un uomo potesse prendersi gioco della buona fede dicinquanta milioni di persone... con la stessa determinazione di unladro che fa saltare una cassaforte.«Come ha fatto?» chiesi dopo un po'.«Aveva intuito la possibilità.»«E come mai non è in carcere?»«Non sono riusciti a condannarlo, vecchio mio. È un uomo molto furbo.»Insistei per pagare il conto. Mentre il cameriere mi consegnava ilresto, notai Tom Buchanan dall'altro lato della sala gremita.«Seguimi», dissi. «Devo salutare una persona.»Quando ci vide, Tom saltò in piedi e si diresse verso di noi.«Dove sei finito?» domandò con impazienza. «Daisy è furiosaperché non ti sei più fatto vivo.»«Il signor Gatsby, il signor Buchanan.»Si diedero una rapida e tesa stretta di mano, poi un innaturaleaccenno d'imbarazzo comparve sul volto di Gatsby.Capitolo Quarto103«Cosa hai fatto, ad ogni modo?» mi chiese Tom. «Come mai tisei spinto così lontano per pranzare?»«Ho pranzato col signor Gatsby.»Mi voltai verso Gatsby, ma era sparito.«Un giorno di ottobre del 1917», prese a raccontarmi JordanBaker quel pomeriggio, sedendo molto rigida su di una sedia dalloschienale dritto nel giardino da tè dell'Hotel Plaza, «stavo passeggiando per fatti miei un po' sui marciapiedi ed un po' sui prati. Mitrovavo meglio sull'erba poiché calzavo delle scarpe inglesi con deitacchetti di gomma nelle suole che addentavano la terra soffice.Indossavo una gonna nuova in tessuto scozzese che si gonfiava atratti al vento e, quando succedeva, le bandiere rosse, bianche e bluche sventolavano davanti alle case si tesavano e prorompevano inun "TUT-TUT-TUT-TUT" di disapprovazione.La bandiera e il prato più grandi si trovavano davanti casa diDaisy Fay. Era appena diciottenne, due anni più grande di me, edera, senza dubbio, la ragazza più popolare di Louisville. Vestiva dibianco, aveva una piccola cabriolet bianca ed il telefono squillavatutto il giorno in casa sua, con i giovani ufficiali del Camp Taylorche, eccitati, chiedevano il privilegio di monopolizzarla per unasera, 'o almeno per un'ora!'Quel mattino, quando passai di fronte casa sua, la cabrioletbianca era accostata al marciapiede, lei sedeva con un tenente chenon avevo mai visto prima. Erano così presi tra loro che non mivide finché non le fui a pochi passi.'Ciao, Jordan!' mi chiamò inaspettatamente. 'Vieni, per favore.'Fui lusingata che volesse parlarmi poiché, tra tutte le ragazzepiù grandi, lei era quella che ammiravo di più. Mi chiese se stavoandando alla Croce Rossa per preparare le bende. Era così. Bene,potevo dire allora che quel giorno lei non sarebbe venuta? L'uffi-Il Grande Gatsby104ciale, mentre Daisy parlava, la guardava nel modo in cui ogni ragazza vorrebbe essere guardata e siccome la situazione mi sembròromantica, da allora non ho mai dimenticato questo incontro. Ilsuo nome era Jay Gatsby e non l'ho rivisto per più di quattro anni;anche quando lo rincontrai a Long Island, non realizzai subito chesi trattasse dello stesso uomo.Ciò avveniva nel 1917. Dall'anno successivo ebbi i miei primi corteggiatori e cominciai a partecipare ai tornei, per cui non vedevo Daisy molto spesso. Usciva con un piccolo gruppo di ragazzi più grandi,quando si decideva a uscire con qualcuno. Giravano vari pettegolezzisu di lei – di come sua madre l'avesse trovata mentre preparava levaligie, in una notte d'inverno, per andare a New York a salutareun soldato che stava per andare oltreoceano. Riuscirono a fermarla,ma non volle più parlare con la famiglia per alcune settimane. Dopoquesto episodio, non volle più uscire con nessun soldato ma solo conpochi piedi-piatti o ipovedenti rimasti in città poiché riformati.L'autunno successivo, fu di nuovo gioiosa, felice come sempre.Fece il suo debutto in società dopo l'Armistizio, e a febbraio si diceche fosse fidanzata con un uomo di New Orleans. In giugno sposòTom Buchanan di Chicago con una cerimonia di una tale suntuosità, che mai Louisville ne aveva viste di simili. Lui si presentò conun centinaio di persone in quattro carrozze private e fittò un interopiano del Mulbach Hotel; alla vigilia delle nozze le regalò una collana di perle del valore di trecentocinquantamila dollari.Fui la damigella d'onore. Andai in camera sua mezz'ora primadel pranzo nuziale e la trovai distesa sul letto, bella come una nottedi giugno nel suo vestito a fiori – ubriaca come una scimmia. Avevauna bottiglia di vino bianco in una mano e una lettera nell'altra.'Fammi le congratulazioni', piagnucolò. 'Non ho mai bevutoprima ma, oh! come me la sono goduta.''Cos'è successo, Daisy?'Capitolo Quarto105Ero sbigottita, neanche a dirtelo; non avevo mai visto una ragazza conciata così prima.'Tieni, tesoro.' Prese a scavare in un cestino che aveva con leisul letto e tirò fuori la collana di perle. 'Portala giù e restituiscila achiunque l'abbia portata. Dì loro che Daisy ha cambiato idea. DìDaisy ha cambiato idea!'Cominciò a piangere – piangeva e piangeva. Corsi fuori e trovaiuna domestica di sua madre, chiudemmo a chiave la porta e le facemmo un bagno freddo. Non voleva separarsi dalla lettera. Se laportò nella vasca da bagno e la strizzò fino a renderla una poltigliaumida, mi concesse di poggiarla in un portasapone solo quandovide che cominciava a sciogliersi in piccoli pezzi, come neve.Non disse altro. Le facemmo inalare dei fumi di ammoniaca e lepoggiamo del ghiaccio sulla fronte, poi la rinfilammo nel vestito emezz'ora dopo, quando uscimmo dalla stanza, le perle erano al suocollo e l'incidente era superato. Il giorno dopo alle cinque sposòTom Buchanan, senza un solo tentennamento, e partì per un viaggio di tre mesi nei mari del Sud.Li vidi a Santa Barbara quando rientrarono e pensai di non avermai visto una ragazza così pazza per il marito. Se lui si allontanavaper un istante, lei si guardava attorno, inquieta, chiedendo 'Dov'èTom?' e assumeva un'espressione completamente assente finchénon lo vedeva riapparire alla porta. Era solita sedere sulla sabbia,con la testa di lui in grembo, sfiorando i suoi occhi con le ditae guardandolo con imperscrutabile piacere. Era toccante vederliinsieme – ti riempiva di una gioia muta, affascinante. Tutto questoavveniva ad agosto. La settimana dopo la mia partenza da SantaBarbara, Tom centrò un camion sulla strada di Ventura, una notte,e perdette una ruota della sua auto. La ragazza che era con lui finìsui giornali poiché si ruppe un braccio – era una delle camerieredell'Hotel Santa Barbara.Il Grande Gatsby106L'aprile successivo Daisy ebbe una bambina e decisero di andare in Francia per un anno. Li vidi in primavera a Cannes e poi aDeauville, infine tornarono a Chicago per sistemarsi. Daisy era famosa a Chicago, come sai. Frequentavano una compagnia di gentesregolata, tutti giovani come loro e ricchi, ma lei ne venne fuori conuna reputazione assolutamente perfetta. Forse perché non beve. Èun grande vantaggio non bere, quando si è in compagnia di grandibevitori. Puoi tenere a freno la tua lingua e, per di più, permettertiqualche piccola scappatella poiché tutti sono così persi che non tivedono o non si curano di te. Forse Daisy non ha mai cercato altreoccasioni – eppure c'è qualcosa in quella sua voce...Bene, circa sei settimane fa, lei sentì il nome di Gatsby per laprima volta dopo anni. Successe quando ti chiesi – te ne ricordi? –se conoscevi Gatsby a West Egg. Quando tornasti a casa, lei vennein camera mia, mi svegliò e chiese 'Quale Gatsby?' e quando glielodescrissi – ero sveglia a metà – lei disse, con una voce molto strana,che doveva essere l'uomo che aveva conosciuto. Soltanto allora ricollegai questo Gatsby con l'ufficiale nella sua auto bianca.»Quando Jordan Baker finì di raccontarmi questa storia, avevamolasciato il Plaza da mezz'ora e stavamo attraversando in carrozzellail Central Park. Il sole era calato dietro gli alti appartamenti dellestelle del cinema, alle West Fifties, e le voci squillanti dei ragazzini,già raccolti come grilli sull'erba, si levavano nel caldo crepuscolo:"Sono lo Sceicco d'Arabia,Il tuo amore mi appartiene.Di notte, quando non riesci a dormire,ti adulerò nella tua tenda..."«È stata una strana coincidenza», dissi.Capitolo Quarto107«Ma non s'è trattato del tutto di una coincidenza.»«Perché no?»«Gatsby ha acquistato quella casa proprio perché Daisy fosseesattamente dall'altro lato della baia.»Quindi non era soltanto alle stelle che s'era rivolto quella sera digiugno. Mi tornò in mente sbucando, improvvisamente, dal grembo del suo incerto splendore.«Vorrebbe sapere...» continuò Jordan «... se saresti disposto adinvitare Daisy a casa tua un pomeriggio e poi far venire anche lui.»La modestia della richiesta mi scioccò. Aveva aspettato cinqueanni e comprato un'enorme villa, dove dispensava polvere di stellea falene di ogni genere, solo per poter "venire" un pomeriggio nelgiardino di un estraneo.«Dovevo conoscere tutta questa storia, prima che lui mi chiedesse una simile sciocchezza?»«Ha paura. Aspetta da tanto. Credeva ti potessi offendere.Come vedi è molto tenace su questa faccenda.»Qualcosa m'infastidì.«Perché non ha chiesto a te di organizzare l'incontro?»«Vuole che lei veda la sua casa», mi spiegò. «E la tua è propriolì affianco.»«Oh!»«Credo che si aspettasse di vederla partecipare a una delle suefeste, qualche sera,» continuò Jordan «ma lei non ci è mai andata.Poi ha cominciato a chiedere alla gente, casualmente, se qualcuno la conoscesse e io sono la prima che ha trovato. Fu quella serache mi mandò a chiamare durante il party e avresti dovuto sentireil piano macchinoso che mise su. Ovviamente, proposi subito unpranzo a New York – e credetti che stesse per impazzire: 'Nonvoglio fare nulla che non sia più che corretto!' prese a dire. 'Vogliovederla vicino casa'.»Il Grande Gatsby108«Quando gli dissi che tu eri un caro amico di Tom, pensò subitodi abbandonare l'idea. Non sa molto di Tom, anche se ha letto peranni i giornali di Chicago, solo nella speranza di trovarci qualchebreve cenno al nome di Daisy.»S'era fatto buio, e mentre passavamo sotto un piccolo ponte,cinsi col braccio le spalle dorate di Jordan e l'attirai a me invitandola a cena. D'un tratto non pensavo più a Daisy e a Gatsby, maa questa persona limpida, altera e ben definita, che si serviva delloscetticismo universale e s'inarcava agile e sinuosa tra le mie braccia.Una frase cominciò a martellarmi nelle orecchie con una sorta diesaltante eccitazione: "ci sono soltanto perseguitati e persecutori,affaccendati e stanchi."«E Daisy deve avere qualcosa nella sua vita», mormorò Jordan.«Le va di vedere Gatsby?»«Non deve saperne niente. Gatsby non vuole che lei sappia.Devi soltanto invitarla per il tè.»Superammo una barriera di alberi scuri e poi lo scorcio dellaCinquantanovesima Strada, una massa di pallida luce delicata illuminò il parco. A differenza di Gatsby e Tom Buchanan, io nonavevo una donna il cui volto incorporeo fluttuasse lungo i cornicioni scuri e le insegne abbaglianti, così attirai a me la ragazza cheavevo di fianco, cingendola tra le braccia. La sua bocca, pallida esdegnosa, sorrise e così la strinsi ancor di più, più vicina, questavolta verso il mio volto.109Quando rientrai a West Egg, quella sera, ebbi per qualcheistante il timore che la mia casa fosse avvolta dalle fiamme. Erano le due di notte e l'intera punta della penisolaardeva di luce che si rifletteva irreale sul boschetto, creando sottilie prolungati bagliori sui cavi lungo la strada. Svoltando l'angolo miaccorsi che era la casa di Gatsby, illuminata dalla torre alla cantina.In un primo momento pensai si trattasse dell'ennesimo party,una gran festa che si era trasformata in un "nascondino" o nel "pigiarsi come sardine", con l'intera casa lasciata aperta al gioco. Manon si udiva alcun suono. Soltanto il vento tra gli alberi che facevaoscillare i cavi e spegnere e accendere le luci, quasi come se la casastrizzasse l'occhio nell'oscurità. Quando il mio taxi si allontanò gemendo, vidi Gatsby venirmi incontro attraverso il prato.«La tua casa sembra l'esposizione universale», dissi.«Dici?» si voltò distrattamente. «Ho dato un'occhiata ad alcunestanze. Andiamo a Coney Island, vecchio mio. Con la mia auto.»«È troppo tardi.»«Beh, che ne diresti di fare un tuffo in piscina? Non l'ho ancoraadoperata quest'estate.»«Devo andare a letto.»«Va bene.»Indugiò, guardandomi con impazienza repressa.Capitolo QuintoIl Grande Gatsby110«Ho parlato con la signorina Baker», dissi dopo qualche istante.«Chiamerò Daisy domani e l'inviterò a prendere il tè.»«Oh, va benissimo», disse spensierato. «Non vorrei crearti problemi.»«Quale giorno preferiresti?»«Quale giorno preferiresti tu?» mi corresse veloce. «T'ho detto,non vorrei disturbarti.»«Che ne diresti di dopodomani?» Ci pensò un momento. Poidisse con riluttanza: «vorrei far tagliare l'erba.»Entrambi la guardammo – c'era una linea precisa laddove finivail mio misero prato e cominciava il suo, più scuro, ben tagliato edesteso. Supposi si riferisse alla mia erba.«C'è un'altra cosetta,» disse un po' incerto, quasi esitando.«Vorresti che rimandassimo di qualche giorno?» domandai.«Oh, non è questo. Almeno...» Incominciò, farfugliando, unaserie di frasi. «Beh, pensavo... ascolta, vecchio mio, tu non guadagni tanti quattrini, è vero?»«Non tanti.»La risposta sembrò tranquillizzarlo e continuò più fiducioso.«Lo supponevo, senza offesa... Vedi, ho un lavoretto, una piccola attività secondaria, capisci? E ho pensato che se non guadagnitanto... Tu vendi azioni, vero, vecchio mio?»«Ci provo.»«Bene, questa cosa potrebbe interessarti. Non ti porterebbe viamolto tempo e potresti realizzare un po' di soldi. Si tratta di unafaccenda un po' confidenziale.»Ora so che, in circostanze diverse, quella chiacchierata avrebbepotuto cambiarmi la vita. Ma siccome l'offerta era fatta, evidentemente e senza troppo garbo, in cambio del favore che gli avrei reso,non avevo altra scelta se non quella di rifiutare con decisione.«Sono molto impegnato», dissi. «Ti ringrazio tanto, ma non potrei prendere altro lavoro.»Capitolo Quinto111«Non avresti nulla a che fare con Wolfshiem.» Forse credevache stessi esitando per via dell'affare accennato a pranzo, ma gliassicurai che si stava sbagliando. Attese per un lungo istante, sperando volessi intavolare una conversazione, ma ero troppo assortoper essere comprensivo, così se ne tornò a casa a malincuore.La serata mi aveva reso spensierato e felice; credo che caddiin un sonno profondo non appena varcai la porta d'ingresso dicasa. Per questo non saprei dire se Gatsby andò o meno a ConeyIsland o se continuò a vagare a lungo per le stanze della sua casasfavillante. Il mattino successivo, chiamai Daisy dall'ufficio e l'invitai per il tè.«Non portare Tom», l'avvisai.«Cosa?»«Non portarti dietro Tom.»«Chi è 'Tom'?» chiese con aria innocente.Il giorno concordato pioveva a dirotto. Alle undici un uomo inimpermeabile che si trascinava dietro una tosaerba bussò alla miaporta e disse che il signor Gatsby lo aveva mandato per tagliare ilprato. Ciò mi fece riflettere sul fatto che avevo completamente dimenticato di avvisare la mia finlandese di rientrare per l'occasione,così presi l'auto e andai al villaggio di West Egg per cercarla, attraverso vialetti imbiancati a calce e fradici di pioggia, e per compraredelle tazze, dei limoni e dei fiori.I fiori si rivelarono inutili poiché alle due giunse da casa di Gatsby un'intera serra con innumerevoli portafiori. Un'ora dopo laporta d'ingresso fu spalancata e Gatsby, in completo di flanellabianca con camicia color argento e cravatta dorata, entrò di corsa.Era pallido e, sotto gli occhi, aveva degli evidenti segni scuri chedenotavano una prolungata insonnia.«Tutto ok?» chiese immediatamente.«L'erba sembra apposto, se intendi questo.»Il Grande Gatsby112«Quale erba?» chiese senza espressione. «Oh, l'erba in giardino.» Guardò fuori, oltre la finestra, verso l'erba, ma a giudicare dalla sua espressione, credo non vedesse nulla.«Sembra davvero perfetta», osservò vagamente. «Un giornalesosteneva che dovrebbe smettere di piovere verso le quattro. Credofosse "The Journal". Hai tutto ciò che occorre per... per il tè?»Lo condussi in cucina dove guardò con un lieve biasimo la finlandese. Insieme valutammo i dodici dolcetti al limone presi in pasticceria.«Possono andare?» chiesi.«Certo, certo! Vanno benissimo!» e aggiunse, come forzandosi,«... vecchio mio.»Verso le tre e mezzo la pioggia si calmò per poi tramutarsi inuna foschia umida nella quale qualche rara e minuscola goccia vagava simile a rugiada. Gatsby guardava con occhi assenti una copiadell'Economics di Clay, sussultando al calpestio della finlandese chescuoteva il pavimento della cucina e sbirciando, di tanto in tanto,verso le finestre appannate come se all'esterno si stessero verificando una serie di avvenimenti invisibili ma allarmanti. Alla fine si alzòe mi disse, con voce incerta, che se ne sarebbe tornato a casa.«Cosa?»«Non verrà nessuno per il tè. È troppo tardi!» Guardò l'orologio come se avesse degli impegni urgenti altrove. «Non possoaspettare tutto il giorno.»«Non essere stupido, mancano ancora due minuti alle quattro.»Sedette sconsolato, quasi lo avessi obbligato e, in quel medesimo istante, si udì il rumore del motore di un'auto che svoltavanel mio vialetto. Balzammo entrambi in piedi e, un po' nervosoanch'io, uscii in giardino.Al di sotto delle spoglie e gocciolanti piante di lillà, una grossaautomobile decappottabile stava risalendo il viale. Si fermò. Il vol-Capitolo Quinto113to di Daisy, piegato su di un lato, sotto un tricorno color lavanda,mi guardava con un luminoso sorriso estatico.«È proprio qui che abiti, carissimo?»L'inebriante ondulazione della sua voce era un tonico fantastico nella pioggia. Rimasi ad ascoltarne il suono per qualche istante, su e giù, col mio orecchio soltanto, prima che giungesserole parole. Una ciocca di capelli umidi le si era posata, come untratto di matita blu, lungo la guancia e la sua mano era umida ericoperta di gocce brillanti quando la presi per aiutarla a scendere dall'auto.«Ti sei innamorato di me?» mi sussurrò all'orecchio. «Altrimenti, per quale ragione hai voluto che venissi da sola?»«Questo è il segreto del Castello di Rackrent. Dì al tuo chauffeur di andarsene e di tenersi impegnato per un'ora.»«Torna tra un'ora, Ferdie.» Quindi, con un mormorio serioso,«il suo nome è Ferdie.»«La benzina gli dà noie al naso?»«Non credo», disse con fare innocente. «Perché?»Entrammo. Con mia grande sorpresa, il soggiorno era deserto.«Beh, questa è buffa!» esclamai.«Cos'è buffo?»Voltò il capo quando si udì bussare, in maniera leggera, quasiimpercettibile, alla porta d'ingresso. Andai ad aprire. Gatsby, pallido come la morte, con le mani gettate come pesi nelle tasche dellagiacca, se ne stava in piedi in una pozza d'acqua fulminandomitragicamente con gli occhi.Con le mani ancora in tasca, entrò di corsa, si voltò di scattoquasi camminasse su un filo, e scomparve in soggiorno. Non fu pernulla buffo. Consapevole del forte battito del mio cuore, chiusi laporta alla pioggia sempre più scrosciante.Il Grande Gatsby114Per quasi mezzo minuto non si udì alcun suono. Poi dal soggiorno percepii una sorta di mormorio sommesso e parte di una risataseguita dalla voce di Daisy su una nota limpida e artificiale: «Chepiacere rivederti.»Seguì una pausa tragicamente lunga. Non avevo nulla da farenell'ingresso, così entrai anch'io in soggiorno.Gatsby, con le mani ancora in tasca, era poggiato alla mensoladel caminetto dando l'impressione di essere a proprio agio, quasiun po' annoiato, sebbene fosse in una posa innaturale. La sua testaera così reclinata che toccava l'orologio fuori uso sulla mensola e,da quella posizione, i suoi occhi folli osservavano Daisy che sedevaspaventata ma con grazia sull'orlo di una sedia scomoda.«Ci conosciamo già», mormorò Gatsby. I suoi occhi mi seguirono momentaneamente e le labbra abbozzarono un tentativo di sorriso, subito abortito. Per fortuna l'orologio colse questo momentoper tentennare pericolosamente sotto la pressione della sua testa, alche lui si voltò e lo bloccò con dita tremanti ricollocandolo al suoposto. Poi sedette, rigido, il gomito sul bracciolo del sofà e il mentoin una mano.«Mi dispiace per l'orologio», disse.Il mio volto ardeva, ora, di un intenso calore tropicale. Non riuscivo a spiccicare un solo luogo comune tra le migliaia che avevoin testa.«È un vecchio orologio,» risposi stupidamente.Penso che per qualche istante tutti credemmo che si fosse frantumato sul pavimento.«Non ci vediamo da molto tempo», disse Daisy col tono di vocepiù naturale che le riuscì di trovare.«Cinque anni il prossimo novembre.»L'automatismo della risposta di Gatsby ci costrinse all'impasseper almeno un altro minuto. Li avevo fatti alzare entrambi con il Capitolo Quinto115disperato proposito di aiutarmi a fare il tè, quando dalla cucinasbucò la diabolica finlandese portandolo su un vassoio.Nella gradita confusione della distribuzione di tazze e pasticcini, si ristabilì un certo decoro fisico. Gatsby si oscurò e, mentreDaisy ed io parlavamo, ci guardava fisso con occhi nervosi, infelici.Ad ogni modo, siccome non si riusciva a rompere il ghiaccio, allaprima occasione utile mi alzai scusandomi.«Dove vai?» domandò Gatsby subito allarmato.«Torno subito.»«Devo parlarti di una cosa, prima che tu vada.»Mi seguì, sconvolto, in cucina, chiuse la porta e sussurrò: «Oh,Dio!» in preda alla disperazione.«Che succede?»«È stato un terribile errore», disse scuotendo la testa «un terribile... terribile errore.»«È solo che sei imbarazzato, tutto qui» e fortunatamente aggiunsi: «Anche Daisy lo è.»«Lei è imbarazzata?» ripeté incredulo.«Almeno quanto te.»«Non parlare così forte.»«Ti stai comportando come un ragazzino», dissi duramente.«Non solo, ma sei un maleducato. Daisy è di là che siede da sola.»Alzò la mano per farmi tacere, mi guardò con un'ostilità difficileda dimenticare, poi aprì la porta cautamente e tornò nell'altra stanza.Uscii dalla porta di servizio – quella che Gatsby aveva utilizzato per fare il suo giro della casa in preda al nervosismo mezz'oraprima – e corsi verso un enorme albero nodoso la cui fitta chioma creava un riparo contro la pioggia. Stava ancora diluviando eil mio prato irregolare, ben tagliato dal giardiniere di Gatsby, eracompletamente cosparso di piccole pozzanghere fangose e paludipreistoriche. Non c'era nulla da osservare da sotto l'albero, tranne Il Grande Gatsby116l'enorme casa di Gatsby, così mi misi ad ammirarla, come Kant colsuo campanile, per una buona mezz'ora. L'aveva fatta costruire unindustriale della birra, dieci anni prima, quando erano iniziate adandare di moda le costruzioni in stile e girava una storia secondola quale sarebbe stato disposto a pagare cinque anni di tasse pertutti i cottage dei vicini se i proprietari avessero ricoperto i lorotetti di paglia. Forse il comune rifiuto diede un duro colpo al suoprogetto di fondare una Famiglia – andò incontro ad un rapidodeclino. I figli vendettero la casa con la corona nera ancora sullaporta. Gli americani, seppure accettino di buon grado di essere deiservi, sono sempre stati riluttanti all'idea di sembrare dei contadini.Mezz'ora dopo il sole tornò a fare capolino e l'auto del droghiere svoltò sul viale di Gatsby con le derrate per la cena dei domesticiprotette con le pellicole – sono convinto che lui non ne avrebbemangiato affatto. Una cameriera cominciò ad aprire le finestre deipiani superiori della casa, apparve per qualche istante in ciascuna e,sporgendosi da una larga balconata centrale, sputò pensosamentein giardino. Era il momento di rientrare. La pioggia cadendo sembrava quasi il mormorio delle loro voci che si alzavano ed ingrossavano seguendo il flusso delle emozioni. Ma, nella sopraggiuntaquiete, credetti che anche nella casa fosse caduto il silenzio.Entrai – facendo ogni possibile rumore in cucina, cercando solodi evitare di ribaltare il fornello – ma non credo che sentirononulla. Erano seduti ai due lati del divano e si guardavano, comese qualche domanda fosse ancora nell'aria; ogni traccia dell'imbarazzo era sparita. Il viso di Daisy era rigato dalle lacrime e quandoentrai, balzò in piedi cominciando ad asciugarsele col fazzolettodavanti allo specchio. Ma in Gatsby c'era stati un cambiamentosemplicemente strabiliante. Era letteralmente raggiante; senza alcun segno di esultanza, irradiava un nuovo benessere che riempivala piccola stanza.Capitolo Quinto117«Oh, salve, vecchio mio», disse come se non mi vedesse da anni.Pensai, per un momento, che volesse stringermi la mano.«Ha smesso di piovere.»«Ha smesso?» Quando comprese di cosa stavo parlando, e vide chec'erano i primi timidi luccichii di sole nella stanza, sorrise come l'ometto di un igrometro, come un estatico patrono della luce rinascente, eripeté la notizia a Daisy: «Cosa ne pensi? Ha smesso di piovere.»«Ne sono felice, Jay.» La sua gola, tutta dolente di bellezza triste, parlò solo della sua gioia inattesa.«Vorrei che tu e Daisy veniste a casa mia» disse, «vorrei farglielavedere.»«Sei sicuro di volere che venga anch'io?»«Assolutamente, vecchio mio.»Daisy andò disopra a lavarsi la faccia – troppo tardi pensai, umiliato, alle mie asciugamani – mentre Gatsby ed io aspettavamo sul prato.«La casa si presenta bene, non è vero?» domandò. «Guardacome tutta la facciata prende luce.»Convenni che era splendida.«Si.» La scorse tutta, guardando ogni porta ad arco e la torresquadrata. «Mi ci sono voluti solo tre anni per mettere da parte ildenaro per comprarla.»«Credevo li avessi ereditati, i soldi.»«Infatti, vecchio mio», rispose automaticamente «ma ne persiuna gran parte nel grande panico – il panico della guerra.»Penso che non si accorgesse neanche di cosa stesse dicendo poiché quando gli chiesi quale fosse la sua occupazione, rispose «sonoaffari miei», prima di realizzare che non era una risposta appropriata.«Oh, sono impegnato in molte cose», si corresse. «Sono statonel settore farmaceutico e poi in quello del petrolio. Ma ora nonsono in nessuno dei due.» Mi guardò con maggiore attenzione.«Vuoi dire che stai riflettendo sulla proposta dell'altra sera?»Il Grande Gatsby118Prima che potessi rispondere, Daisy uscì di casa e due file dibottoni d'ottone del suo vestito brillarono nella luce del sole.«È questa casa enorme?» esclamò indicandola.«Ti piace?»«È magnifica, ma non capisco come tu possa viverci da solo.»«La riempio sempre di gente interessante, notte e giorno. Genteche fa cose interessanti. Gente famosa.»Piuttosto che prendere la scorciatoia lungo la spiaggia, scendemmo per strada ed entrammo dal grande cancello principale.Con mormorii affascinati, Daisy ammirava i vari scorci dai contornifeudali che si stagliavano contro il cielo, i giardini, il vivace odoredelle giunchiglie, il frizzante profumo del biancospino, dei prugniin fiore e il pallido aroma dorato delle viole. Fu strano giungere aigradini di marmo senza imbattersi in calche di vestiti brillanti cheentravano e uscivano dalla porta e senza alcuna musica, ma solo ilcanto degli uccelli sugli alberi.Una volta entrati, attraversammo sale da musica in stile MariaAntonietta e i saloni Restaurazione; avevo la sensazione che ci fossero gli ospiti nascosti dietro i divani e sotto i tavoli con l'ordinedi tacere e trattenere il respiro finché non fossimo passati. QuandoGatsby chiuse la porta della Biblioteca del Merton College, avreigiurato di aver sentito l'uomo dagli occhi di gufo prorompere inuna risata spettrale.Andammo di sopra e attraversammo camere da letto rivestitedi seta rosa e color lavanda e rese vivaci da fiori freschi; attraversospogliatoi, sale da gioco e bagni con vasche incavate entrammo inuna stanza dove un uomo dai capelli arruffati e in pigiama, stava facendo degli esercizi ginnici sul pavimento. Era il signor Klipspringer, il 'pensionante'. Quel mattino l'avevo visto aggirarsi famelicoverso la spiaggia. Alla fine giungemmo all'appartamento di Gatsby:una camera da letto, un bagno e uno studio in stile Adam, dove Capitolo Quinto119sedemmo a bere un bicchiere di qualche Chartreuse che prese daun armadio a muro.Non aveva smesso, neanche per un istante, di guardare Daisy ecredo che stesse rivalutando ogni oggetto della casa in base all'impressione che ricavava dagli occhi, adorati, di lei. Ogni tanto fissavagli oggetti, stordito, come se la sua presenza, reale e stupefacente, lirendessi irreali. D'un tratto poco ci mancò che non ruzzolasse giùper una rampa di scale.La sua camera da letto era la più semplice – ad eccezione delguardaroba che era guarnito con un servizio da toilette in purooro massiccio. Daisy prese la spazzola con gioia e se la passò trai capelli, al che Gatsby sedette coprendosi gli occhi con le mani,iniziando a ridere.«È una cosa incredibile, vecchio mio», disse con ilarità. «Nonposso... quando ci penso...»Era evidentemente passato attraverso due stati d'animo e orastava entrando in un terzo. Dopo l'imbarazzo e la gioia irrazionale,era divorato dallo stupore per la sua presenza. Era vissuto così alungo coltivando quell'idea, l'aveva tanto sognata, aspettata stringendo i denti, per così dire, per arrivare a un grado d'inconcepibile intensità. Ora, per reazione, stava correndo come un orologiotroppo carico.Ritirandosi un istante, aprì per noi due enormi armadi dove erano ammassati i suoi abiti e i vestiti da camera, le cravatte e le camicie, impilate come mattoni in una ciminiera a gruppi di dozzine.«Ho un tizio in Inghilterra che mi compra gli abiti. Me ne inviauna selezione all'inizio di ogni stagione, primavera e autunno.»Prese una pila di camicie e cominciò a lanciarle, l'una dopo l'altra, verso noi: camicie di puro lino, seta spessa e flanella leggera,che perdevano le pieghe cadendo a ricoprire il tavolo in un disordine multicolore. Mentre le ammiravamo, lui aumentò il ritmo e il Il Grande Gatsby120soffice e ricco cumulo divenne sempre più alto – camicie a righe,con motivi, a scacchi color corallo e verde-mela, lavanda e aranciochiaro, coi monogrammi in indaco. Improvvisamente, con un gridosoffocato, Daisy abbandonò il capo tra le camicie e ruppe in unpianto a dirotto.«Sono camicie così belle», singhiozzò con voce attenuata dal soffice cumulo. «Sono triste poiché non ho mai visto camicie così...così belle, prima.»Dopo la casa dovevamo vedere il parco, la piscina, l'idrovolantee i fiori di mezza estate, ma fuori della finestra di Gatsby ricominciò a piovere e così rimanemmo in fila a guardare la superficie ondulata dello stretto.«Se non fosse per la nebbia, potresti vedere casa tua al di là dellabaia» disse Gatsby. «C'è sempre una luce verde che brilla di nottein fondo al tuo pontile.»Daisy infilò, d'un tratto, il braccio sotto quello di lui, ma Gatsbyparve assorto in ciò che aveva appena detto. Verosimilmente intuiva che l'enorme significato, che quella luce aveva avuto per lui,stava svanendo per sempre. A confronto della grande distanza chelo aveva separato da Daisy, la luce gli era sembrata molto vicina,quasi potesse sfiorarla. Era sembrata vicina quanto una stella allaluna. Ora era tornata a essere una luce verde su un pontile. Nel suoelenco di oggetti incantati, veniva a mancarne uno.Cominciai a girare per la stanza esaminando vari oggetti indefiniti nella penombra. Una grande fotografia di un uomo anziano intenuta da yacht, appesa alla parete dietro la sua scrivania, attirò lamia attenzione.«Chi è quest'uomo?»«Quell'uomo? Quello è il signor Dan Cody, vecchio mio.»Il nome mi suonò vagamente familiare.«Ora è morto. È stato il mio miglior amico, anni fa.»Capitolo Quinto121C'era una piccola fotografia di Gatsby, anche lui in tenuta dayacht, sullo scrittoio – Gatsby con il capo reclinato all'indietrosprezzante – scattata, apparentemente, quando aveva diciotto anni.«È adorabile», esclamò Daisy. «La Pompadour! Non mi avevidetto di avere una Pompadour... o uno yacht.»«Guarda qui», disse Gatsby veloce. «Ci sono un sacco di ritagli... su di te.»Stettero l'uno di fianco all'altra ad esaminarli. Volevo quasi chiedere di vedere i rubini, quando il telefono squillò e Gatsby sollevòil ricevitore.«Si... Beh, non posso parlare adesso... No, non posso parlareora, vecchio mio... Ho detto una città piccola... Dovrebbe pur sapere cos'è un città piccola... Beh, non ci è poi tanto utile, se Detroitcorrisponde alla sua idea di città piccola...»Riagganciò.«Venite qui, presto!» esclamò Daisy alla finestra.La pioggia cadeva ancora, ma il cielo si era schiarito a ovest, uncumulo di nuvole rosee e dorate correva sul mare.«Guarda», sussurrò, poi dopo un istante: «mi piacerebbe prendere una di quelle nuvole rosa, mettertici dentro e portarti in giro.»Provai ad andarmene, ma non ne vollero sapere; forse la miapresenza li soddisfaceva più dello stare da soli.«Ora vi dico cosa faremo» disse Gatsby «diremo a Klipspringerdi suonare il pianoforte.»Uscì dalla stanza chiamando «Ewing!» e tornò dopo pochi minuti accompagnato da un giovanotto imbarazzato e un po' macilento con degli occhiali dalla montatura in tartaruga e dei radi capellibiondi. Adesso era vestito decentemente con una camicia sportivaaperta sul collo, scarpe con suola in gomma e pantaloni in tela d'uncolore grigio fumo.«Abbiamo interrotto i suoi esercizi?» chiede Daisy educatamente.Il Grande Gatsby122«Stavo dormendo», esclamò il signor Klipspringer in uno spasmo di imbarazzo. «È così, ho dormito. Poi mi sono alzato...»«Klipspringer suona il piano», disse Gatsby, zittendolo. «Non èvero, Ewing, vecchio mio?»«Non sono bravo. Non so... non so quasi suonare. Sono fuorieserciz...»«Bene, andiamo di sotto», lo interruppe Gatsby. Girò un interruttore. Le finestre grigie scomparvero e la casa brillò tutta riempendosi di luce.Nella sala da musica Gatsby illuminò una piantana accanto alpiano. Accese una sigaretta a Daisy con un fiammifero tremolantee sedette con lei sul divano dall'altro lato della stanza dove nongiungeva altra luce se non quella della sala che si rifletteva sul pavimento.Dopo che Klipspringer ebbe suonato "The Love Nest" si voltòsullo sgabello e cercò con aria infelice Gatsby, nella penombra.«Sono fuori esercizio, come vedete. Vi ho detto che non so suonare. Sono fuori eserciz...»«Poche chiacchiere, vecchio mio», ordinò Gatsby. «Suona!»In the morning,in the evening,ain't we got fun...Al mattino,alla sera,ci divertiamo...Fuori il vento soffiava forte e c'era una vaga eco di tuoni dallostretto. A West Egg, ora, si accendevano tutte le luci; i treni elettricicon i pendolari correvano a capofitto nella pioggia da New York Capitolo Quinto123verso casa. Era l'ora del profondo cambiamento negli uomini, sistava generando l'eccitazione nell'aria.One thing's sure and nothing's surerThe rich get richer and the poor get...Children.In the meantime,in between time...Una sola cosa è certa e null'altroi ricchi sono sempre più ricchi e i poveri fanno sempre più...Bambini.In tanto,nel frattempo...Quando li raggiunsi per salutarli, vidi che sul volto di Gatsbyera tornata l'espressione di smarrimento, quasi lo tormentasse unleggero dubbio sull'entità della sua felicità attuale. Cinque anni!Dovevano esserci stati dei momenti, perfino in quel pomeriggio,nei quali Daisy non s'era dimostrata all'altezza dei suoi sogni,non tanto per qualche sua colpa quanto per la colossale vitalitàdella sua illusione. Si era lanciato in essa con una tale passionecreativa accrescendola a ogni momento, ornandola con ogni piuma vivace che trovasse sulla sua strada. Non c'è fuoco o gelo chepossa sfidare ciò che un uomo arriva a custodire tra i fantasmi delproprio cuore.Quando tornai a guardarlo, si era ripreso visibilmente. La suamano prese quelle di lei e, quando gli sussurrò qualcosa all'orecchio, si voltò in un impeto di emozione. Credo che quella voce loprendesse maggiormente per il suo calore fluttuante, febbrile poiché era oltre ogni sogno: quella voce era un canto immortale.Il Grande Gatsby124Si erano dimenticati di me, ma Daisy alzò lo sguardo e tese lamano; Gatsby non mi riconobbe affatto. Li guardai ancora una volta e loro ricambiarono lo sguardo, lontani, dominati da una vita intensa. Poi me ne uscii dalla stanza e scesi giù per la scala in marmo,sotto la pioggia, lasciandoli insieme.125Più o meno in quel periodo, un ambizioso giovane reporterdi New York si presentò alla porta di Gatsby, una mattina,chiedendogli se avesse qualcosa da dichiarare.«Riguardo cosa?» rispose Gatsby con garbo.«Beh... qualsiasi dichiarazione.»Venne fuori, dopo cinque minuti di confusione, che l'uomo avevasentito il nome di Gatsby in redazione riguardo qualcosa che non voleva rivelare o che non aveva capito del tutto. Quello era il suo giornolibero e così, con lodevole iniziativa, si era precipitato a "vedere".Fu un colpo sparato a caso, ma l'intuizione del reporter eragiusta. La notorietà di Gatsby, diffusa dalle centinaia di personeche ne avevano accettato l'ospitalità sentendosi così autorizzate adiscettare del suo passato, era cresciuta tutta l'estate fino quasi adiventare essa stessa notizia. Gli venivano associate leggende contemporanee come "l'oleodotto sotterraneo per il Canada" e giravauna diceria insistente secondo la quale non abitava in una casa, main una nave che sembrava una casa e si muoveva, in gran segreto,su e giù per la costa di Long Island. Perché, poi, queste invenzionifossero fonte di soddisfazione per James Gatz del North Dakota,non è affatto semplice a spiegarsi.James Gatz – questo era in realtà o almeno legalmente il suonome. L'aveva cambiato all'età di diciassette anni, nel preciso istanCapitolo SestoIl Grande Gatsby126te in cui ebbe inizio la sua carriera: quando vide lo yacht di DanCody gettare l'ancora nelle secche più insidiose del Lago Superiore. Era James Gatz che bighellonava lungo la spiaggia, quel pomeriggio, con un maglione verde tutto strappato e un paio di calzonidi tela, ma era già Jay Gatsby che prese in prestito una barca a remi,vogò fino al Tuolomee per avvisare Cody che il vento avrebbe potuto sorprenderlo e farlo a pezzi in mezz'ora.Suppongo che avesse pronto quel nome già da tempo, ancheallora. I suoi genitori erano dei contadini falliti, incapaci – la suaimmaginazione non li aveva mai completamente accettati come tali.La verità era che Jay Gatsby, di West Egg - Long Island, scaturivadalla sua platonica concezione di sé. Era un figlio di Dio – un mododi dire che, se mai ha un senso, può significare soltanto questo – edoveva occuparsi degli affari del Padre suo al servizio di una bellezza vistosa, volgare e meretricia. Così inventò proprio quel tipodi Jay Gatsby che un diciassettenne potrebbe inventare e a quellaconcezione di sé rimase fedele fino alla fine.Per più di un anno aveva battuto la sponda meridionale del LagoSuperiore facendo il pescatore di molluschi o di salmone e qualsiasi altra attività gli procurasse da mangiare e un letto. Il suo corpoabbronzato, sempre più resistente, reggeva agilmente i lavori, permetà brutali e per metà lenti, di quei giorni tonificanti. Conobbepresto le donne e siccome presero a viziarlo, divenne sprezzantenei loro confronti: con le giovani vergini perché erano ignoranti,con le altre perché isteriche in questioni che, nel suo esasperatoegocentrismo, dava per scontate.Ma il suo cuore era agitato da una costante e turbolenta rivolta.Le ambizioni più grottesche e fantasiose gli davano il tormento, dinotte, nel letto. Un universo d'ineffabile volgarità dilagava nel suocervello mentre l'orologio ticchettava sul lavabo e la luna infracidava con luce umida il groviglio dei suoi abiti gettati alla rinfusa sul Capitolo Sesto127pavimento. Ogni notte aggiungeva un tratto al disegno della suafantasia finché la sonnolenza, con l'abbraccio dell'oblio, piombavanel mezzo di qualche scena vivida. Per un po' questi sogni ad occhi aperti fornirono uno sfogo alla sua immaginazione; erano unasoddisfacente allusione all'irrealtà della realtà, la promessa che laroccia del mondo poggiasse saldamente sulle ali di una fata.L'istinto della gloria futura lo aveva spinto, alcuni mesi prima, alpiccolo Lutheran College di Sant'Olaf, nel Minnesota meridionale.Ci rimase per due settimane, sbigottito per la feroce indifferenzadell'istituto verso le trombe del suo destino, verso il destino stessoe pieno di disprezzo per il lavoro da portiere con il quale dovevamantenersi. Poi s'era trascinato di nuovo al Lago Superiore ed eraancora alla ricerca di qualcosa da fare quando lo yacht di Dan Codygettò l'ancora nelle secche lungo la costa.Cody aveva all'incirca cinquanta anni allora ed era il tipico prodotto delle miniere d'argento del Nevada, dello Yukon e di ogni corsa aimetalli dal '75 in poi. La compravendita del rame in Montana, che lorese multimilionario, lo trovò fisicamente robusto ma sull'orlo di unaleggera demenza, nel sospetto della quale un'infinità di donne si diede da fare per separarlo dai suoi quattrini. L'irretimento di pessimogusto col quale Ella Kaye, la giornalista, gli fece da Madame de Mantenon, approfittando della sua debolezza e mandandolo per mare conlo yacht, divenne di dominio pubblico nell'ampolloso giornalismo del1902. Costeggiava, da ormai cinque anni, rive troppo ospitali quandosi presentò come il destino di James Gatz nella Little Girl Bay.Per il giovane Gatz, appoggiato sui remi e con lo sguardo rivoltoalla balaustra del ponte, lo yacht rappresentava tutta la bellezza e ilfascino del mondo. Suppongo che sorrise a Cody – aveva già scoperto, probabilmente, che piaceva alla gente quando sorrideva. Aogni modo Cody gli pose qualche domanda (una delle quali diedeorigine al nuovo nome) e constatò che era sveglio ed estremamente Il Grande Gatsby128ambizioso. Dopo qualche giorno se lo portò a Duluth e gli compròuna giacca blu, sei paia di pantaloni di tela grezza bianca e un berretto da yacht. E quando il Toulomee partì per le Indie Occidentalie la costa della Barberia, anche Gatsby partì.Era stato assunto con un incarico piuttosto vago: finché rimase con Cody fu a turno steward, compagno, skipper, segretario eanche carceriere poiché Dan Cody sobrio sapeva cos'era in gradodi combinare Dan Cody ubriaco e si era premunito contro ognievenienza riponendo sempre più fiducia in Gatsby. L'accordo duròcinque anni, durante i quali la barca fece per ben tre volte il girodel continente. Sarebbe potuto durare all'infinito se, una notte aBoston, non fosse venuta a bordo Ella Kaye e la settimana dopoDan Cody, in maniera ben poco ospitale, non fosse morto.Ricordo il suo ritratto in camera di Gatsby: un uomo brizzolato,rubicondo con una faccia dura e senza espressione – il pionieredebosciato che, in una fase della vita americana, aveva riportatosulla costa orientale la barbara violenza dei bordelli e dei saloon difrontiera. In un certo senso era per via di Cody che Gatsby bevevacosì poco. Capitava, alle volte durante i suoi allegri party, che ledonne gli stropicciassero i capelli con lo champagne; quanto a lui,aveva preso l'abitudine di lasciar perdere i liquori.E fu da Cody che ereditò i soldi – un lascito di circa venticinquemila dollari. Non li ebbe. Non capì mai lo stratagemma legale usatocontro di lui, ma ciò che restava dei milioni passò interamente aElla Kaye. Il suo lascito fu una singolare educazione; la vaga sagoma di Jay Gatsby s'era riempita dell'essenzialità di un uomo.Mi raccontò tutto questo molto più tardi, ma ho pensato di riportarlo ora con l'intento di smentire i primi pettegolezzi sulle sueorigini che non furono mai neanche un timido ricordo della realtà.Per di più mi parlò in un momento di confusione, quando avevoormai deciso di credere tutto e nulla riguardo lui. Così approfitto Capitolo Sesto129di questa breve pausa, mentre Gatsby, per così dire, riprendevafiato, per chiarire questa serie di equivoci una volta per tutte.Fu una pausa anche nei miei rapporti con lui. Per diverse settimane non lo vidi e non sentii la sua voce al telefono – ero per lopiù a New York, in giro con Jordan o a cercare di ingraziarmi la suaanziana zia – ma, alla fine, una domenica pomeriggio andai a casasua. Non ero arrivato neanche da due minuti che giunse qualcuno,con Tom Buchanan, per un drink. Ero sgomento ovviamente ma lacosa sorprendente, in realtà, era che ciò non fosse accaduto prima.Erano in tre, a cavallo: Tom, un uomo di nome Sloane e unagraziosa donna in un completo marrone, già ospite in precedenza.«Che piacere vedervi», disse Gatsby alzandosi nel portico.«Sono felice che siate capitati qui.»Come se gliene importasse qualcosa!«Sedete. Prendete una sigaretta o un sigaro.» Camminava veloce attraverso la stanza suonando i campanelli. «Vi faccio portaresubito da bere.»Era profondamente colpito dalla presenza di Tom. Sembravache sarebbe rimasto a disagio, in un certo senso, finché non avesseofferto loro qualcosa, credendo, in modo vago, che fossero venutiapposta. Sloan non voleva nulla. Una limonata? No, grazie. Un po'di champagne? No, davvero, grazie... Mi dispiace...«Avete fatto un bel giro?»«Ci sono delle belle strade nei dintorni.»«Suppongo che le automobili...»«Già...»Spinto da un irresistibile impulso, Gatsby si voltò verso Tom cheaveva accettato la presentazione come fosse uno sconosciuto.«Credo che ci siamo già conosciuti, signor Buchanan.»«Oh, si» disse Tom con sbadata educazione ma, evidentemente,senza ricordare. «Certo. Mi ricordo benissimo.»Il Grande Gatsby130«Circa due settimane fa.»«Si. Era con Nick.»«Conosco sua moglie», continuò Gatsby quasi minaccioso.«Davvero?»Tom si voltò verso me.«Tu vivi qui vicino, Nick?»«La casa affianco.»«Davvero?»Sloane non entrò nella conversazione oziando, altezzoso, sullasua sedia; neppure la donna parlava all'inizio – finché inaspettatamente, dopo due drink, non divenne loquace.«Verremo tutti alla sua prossima festa, signor Gatsby», propose.«Che ne dice?»«Certo. Mi farebbe molto piacere avervi qui.»«È molto gentile», disse il signor Sloane senza gratitudine. «Beh...credo sia ora di tornare a casa.»«Per favore, non abbiate fretta», li incitò Gatsby. Aveva ripresoil controllo di se stesso, ora, e voleva osservare meglio Tom. «Perché non... perché non restate a cena? Non mi meraviglierei se altragente venisse su da New York.»«Venga lei a cena da me», disse entusiasta la signora. «Tutti edue.»Questo includeva anche me. Il signor Sloane si alzò.«Andiamo», disse rivolto soltanto a lei, però.«Dico sul serio», insisté lei. «Mi farebbe piacere se veniste. C'ètanto spazio.»Gatsby mi guardò con aria interrogativa. Voleva andare e noncapiva che il signor Sloane aveva deciso di no.«Temo di non poter venire», dissi.«Beh, venga lei», ripeté ancora la signora concentrandosi su Gatsby.Il signor Sloane mormorò qualcosa al suo orecchio.Capitolo Sesto131«Non faremo tardi se partiamo adesso», insisté lei a voce alta.«Non ho un cavallo», disse Gatsby. «Andavo a cavallo quand'ero nell'esercito, ma non ho mai comprato un cavallo. Vi dovrò seguire con la mia auto. Scusatemi soltanto un momento.»Uscimmo sul portico dove Sloane e la signora iniziarono un'intensa conversazione un po' in disparte.«Mio Dio, credo abbia intenzione di venire», disse Tom «Noncapisce che lei non lo vuole?»«Lei dice di volerlo.»«Dà una grande cena e lui non conosce nessuno.» Si accigliò.«Mi domando dove diavolo abbia incontrato Daisy. Perdio, puòdarsi che abbia idee antiquate, ma le donne, secondo me, vannoun po' troppo in giro oggigiorno. Incontrano ogni sorta di matti.»Improvvisamente il signor Sloane e la signora scesero le scale emontarono sui loro cavalli.«Andiamo,» disse il signor Sloane a Tom «siamo in ritardo.Dobbiamo andare.» E poi rivolto a me: «gli dica che non potevamoaspettare, per favore.»Tom e io ci stringemmo le mani, con gli altri scambiai un freddocenno; partirono al trotto veloci lungo il viale, scomparendo sottole pesanti fronde di agosto proprio mentre Gatsby, col berretto eun leggero soprabito in mano, si riaffacciava all'ingresso.Tom era visibilmente turbato dal fatto che Daisy andasse in giroda sola, sicché il sabato sera successivo decise di accompagnarla auna festa di Gatsby. Forse la sua presenza diede una nota particolare di oppressione alla serata: si staglia, nella mia memoria, rispettoalle altre feste di quell'estate. C'era la stessa gente, o almeno lostesso tipo di gente, la stessa profusione di champagne, la stessaconfusa policromia, la stessa eccitazione collettiva, ma anche qualcosa di spiacevole nell'aria, un'asprezza diffusa, come mai prima.O forse m'ero semplicemente abituato; avevo fatto l'abitudine ad Il Grande Gatsby132accettare West Egg come un mondo a parte, con i suoi standarde i suoi grandi personaggi, seconda a nessuno perché non avevacoscienza di essere così, e ora la stavo riconsiderando attraverso gliocchi di Daisy. È sempre triste guardare con occhi diversi cose allequali, con fatica, ci siamo adattati.Arrivarono al crepuscolo e mentre passeggiavamo tra centinaiadi ospiti scintillanti, la voce di Daisy intonava nella sua gola mormorii ingannevoli.«Queste cose mi esaltano tanto», sussurrò. «Se vuoi baciarmi inqualsiasi momento della serata, Nick, non hai che da dirmelo e saròlieta di accontentarti. Dì solo il mio nome. O mostrami una tesseraverde. Come a dire... ti do il verde...»«Guardati attorno», suggerì Gatsby.«Mi sto guardando attorno. È meraviglioso...»«Vedrai i volti di molte persone delle quali hai sentito parlare.»Gli occhi arroganti di Tom scrutavano la folla.«Non usciamo spesso», disse. «Riflettevo sul fatto che non conosco nessuno, qui.»«Forse conoscete quella signora.» Gatsby indicò una meravigliosa orchidea di donna, a malapena umana, che sedeva statuaria sottoun susino bianco. Tom e Daisy la osservarono con quella peculiareespressione surreale che si dipinge sul volto di chi riconosce unacelebrità del cinema fino a quel momento null'altro che un fantasma.«È bellissima», disse Daisy.«L'uomo chino su di lei è il suo regista.»Li accompagnò cerimoniosamente da un gruppo all'altro:«La signora Buchanan... Il signor Buchanan...» dopo un istantedi esitazione aggiungeva: «...il giocatore di polo.»«Oh no,» obiettava Tom veloce, «Non io, di certo.»Ma evidentemente il suono di quelle parole piaceva a Gatsbyper cui Tom rimase 'il giocatore di polo' per tutta la sera.Capitolo Sesto133«Non ho mai incontrato tante celebrità!» esclamò Daisy. «Simpatico quello lì – come si chiamava? – con quella specie di naso blu.»Gatsby lo identificò aggiungendo che era un piccolo produttore.«Beh, ad ogni modo m'è simpatico.»«Preferirei non essere il giocatore di polo» disse Tom amabilmente, «Mi piacerebbe osservare tutta questa gente famosa ed essere in... in incognito.»Daisy e Gatsby ballarono. Ricordo che fui colpito dal suo aggraziato fox-trot tradizionale – non l'avevo mai visto ballare. Poisi avviarono a passo lento verso casa mia e sedettero sui gradiniper mezz'ora mentre, su richiesta di lei, rimasi in giardino a fare laguardia: "nel caso ci fosse un incendio o un'inondazione," spiegòlei "o qualsiasi manifestazione di Dio".Tom ricomparve dal suo oblio mentre ci sedevamo per cenareinsieme. «Vi spiace se vado all'altro tavolo?» disse. «Un tale stadicendo delle cose buffe.»«Vai pure», rispose Daisy allegra «e se vuoi prendere nota diqualche indirizzo, eccoti la mia piccola matita dorata...» Dopo unpo' si guardò attorno e mi disse che la ragazza era "comune macarina", e io capii che, a parte la mezz'ora in cui era rimasta da solacon Gatsby, non s'era divertita granché.Eravamo a un tavolo di persone abbastanza alticce. Era colpamia: Gatsby era stato chiamato al telefono e, soltanto due settimane prima, m'ero intrattenuto piacevolmente con quella stessa gente. Ma ciò che mi aveva svagato allora ora appariva quanto menospiacevole.«Come sta, signorina Baedeker?»La ragazza a cui fu rivolta la domanda, stava tentando senzasuccesso di abbandonarsi sulla mia spalla. Interpellata, si risvegliòe aprì gli occhi.«Cosa?»Il Grande Gatsby134Una donna grossa e letargica, che aveva esortato Daisy a giocarecon lei a golf al circolo locale l'indomani, prese le difese della signorina Baedeker:«Oh, ora sta bene. Quando manda giù cinque o sei cocktail, urlasempre in quel modo. Lo dico io che dovrebbe smetterla.»«Ma io l'ho smessa», affermò cupamente l'accusata.«Ti abbiamo sentita urlare, così ho detto al dottor Civet: 'C'èqualcuno che ha bisogno del suo aiuto, dottore'.»«Le è molto riconoscente» disse un altro amico, senza gratitudine. «Ma le ha bagnato tutto il vestito tuffandole la testa nellafontana.»«Se c'è una cosa che odio è quando mi tengono la testa nellafontana», mormorò la signorina Baedeker. «Una volta, in New Jersey, a momenti mi affogavano.»«Allora dovrebbe smetterla», si oppose il dottor Civet.«Si faccia i fatti suoi!» urlò la signorina Baedeker violentemente.«Le sue mani tremano. Non permetterei mai che mi operasse!»Era proprio così. Perlomeno l'ultima cosa che ricordo fu chemi alzai con Daisy per andare a guardare il regista con la sua stella.Erano ancora sotto il susino bianco e i loro volti si sfioravano quasi,li separava soltanto un timido raggio di luna. Mi ritrovai a pensareche aveva impiegato tutta la serata per chinarsi lentamente su di leie raggiungere quella vicinanza e mentre li osservavo vidi che avanzò di un ultimo grado e le baciò la guancia.«Mi piace», disse Daisy «la trovo adorabile.»Ma tutto il resto le dava fastidio – e senza appello poiché non sitrattava di un atteggiamento, ma di un'emozione. Era scioccata daWest Egg, questo "luogo" stravagante che Broadway aveva creatoal di sopra di un villaggio di pescatori di Long Island; scioccata dalsuo rozzo vigore, ribollente sotto i vecchi eufemismi, e da un destino prepotente che incanalava come mandrie i suoi abitanti lungo Capitolo Sesto135una scorciatoia dal nulla al nulla. Vedeva qualcosa di spaventoso inquella stessa semplicità che non riusciva a capire.Sedetti sui gradini con loro, mentre aspettavano la vettura. Erabuio: di fronte a noi soltanto dieci piedi quadrati di luce uscivano dalla porta illuminata ed esplodevano nel tenero mattino nero.Ogni tanto un'ombra si muoveva sulla tenda di uno spogliatoiocedendo il passo ad un'altra e poi a un'indefinita processione diombre, che si rifacevano il trucco e s'imbellettavano di fronte aduno specchio invisibile.«Ad ogni modo, chi è questo Gatsby?» domandò Tom improvvisamente. «Qualche grande contrabbandiere?»«Dove l'hai sentita questa?» chiesi.«Non l'ho sentita. L'immagino. Un sacco di questi nuovi ricchinon sono altro che grandi contrabbandieri, lo sai.»«Non Gatsby», tagliai corto.Rimase in silenzio per qualche istante. La ghiaia del viale scricchiolava sotto i suoi piedi.«Beh, certamente si deve essere dato da fare per mettere su questo serraglio.»La brezza smosse il collo di pelliccia di Daisy, simile ad una grigia foschia.«Per lo meno sono più interessanti della gente che conosciamo»,disse lei in un impeto.«Non mi sembravi tanto interessata.»«Beh, lo ero.»Tom rise e si voltò verso me.«Hai notato la faccia di Daisy quando quella ragazza le ha chiesto di metterla sotto una doccia fredda?»Daisy cominciò a canticchiare seguendo la musica in un roco sussurro ritmico, tirando fuori un significato da ogni parola che mai aveva avuto e non avrebbe avuto più. Quando la melodia salì di tono, la Il Grande Gatsby136sua voce crebbe dolcemente, seguendola quasi come un contralto, eogni nota riversò nell'aria un po' della sua calda magia umana.«Molte persone vengono senza essere state invitate,» disse improvvisamente. «Quella ragazza non era stata invitata. Loro semplicemente s'impongono e lui è troppo cortese per cacciarli.»«Mi piacerebbe sapere chi è e di cosa si occupa,» insisté Tom.«farò di tutto per scoprirlo.»«Te lo dico io, ora,» rispose lei. «Possedeva alcuni drugstore, unsacco di drugstore. Li aveva messi su da solo.»La lenta limousine giunse risalendo il viale.«Buonanotte, Nick,» disse Daisy.Il suo sguardo mi abbandonò per mirare verso la parte più altaed illuminata dei gradini dove la musica di "Three o'Clock in theMorning", un piccolo valzer di quell'anno, grazioso e triste, giungeva attraverso la porta aperta. Dopo tutto, nella grande apatia delle feste di Gatsby, c'erano dei momenti romantici che erano completamente ignoti al suo mondo. Cosa c'era in quella musica chesembrava la richiamasse indietro? Cosa sarebbe accaduto ora, inquelle ore confuse ed imprevedibili? Forse sarebbe arrivata un'ospite incredibile, un personaggio rarissimo di cui stupirsi, una fanciulla autenticamente radiosa che con la freschezza di uno sguardo a Gatsby, nell'istante di un magico incontro, avrebbe annullatoquei cinque anni di devozione assoluta.Rimasi fino a notte fonda. Gatsby mi chiese di restare finchénon fosse stato più libero ed io mi attardai in giardino finché l'inevitabile gruppetto della nuotata notturna non rientrò di corsa,infreddolito ed euforico, dalla spiaggia scura e si spensero le lucinelle stanze degli ospiti al piano di sopra. Quando scese i gradini,alla fine, la pelle abbronzata del suo viso era insolitamente tesa; aveva gli occhi lucidi e stanchi.«Non le è piaciuto», disse quasi subito.Capitolo Sesto137«Al contrario.»«Non le è piaciuto», insisté lui. «Non s'è divertita.»Era silenzioso ed io facevo congetture sulla sua impalpabile depressione.«Mi sento molto lontano da lei,» disse. «È difficile farle capire.»«Intendi il ballo?»«Il ballo?» Scartò tutti i balli che aveva dato con uno schiocco didita. «Vecchio mio, i balli non sono importanti.»Pretendeva che Daisy andasse da Tom e gli dicesse nientemeno:"Non ti ho mai amato." Dopo aver cancellato tre anni con questafrase, avrebbero potuto decidere quali fossero le misure più pratiche da prendersi. Una delle quali sarebbe stata che, quando lei fosse tornata libera, loro sarebbero rientrati a Louisville per sposarsinella sua casa – proprio come cinque anni prima.«E lei non capisce», disse. «Prima mi seguiva. Passavamo ore eore...»Troncò e cominciò a passeggiare su e giù per un sentiero desolato, di bucce di frutta, carte e fiori calpestati.«Non le chiederei troppo», rischiai. «Non si può ripetere il passato.»«Non si può ripetere il passato?» gridò incredulo. «Perché?Certo che si può!»Si guardò attorno come un selvaggio, quasi che il passato fosselì in agguato, nell'ombra della sua casa, appena fuori dalla portatadelle sue mani.«Sistemerò tutto proprio com'era prima,» disse scuotendo ilcapo con determinazione. «Lei vedrà.»Parlò a lungo del passato ed io immaginai che volesse recuperare qualcosa, qualche idea di se stesso forse, che si riallacciavaall'amore per Daisy. La sua vita era stata confusa e disordinata daallora, ma se avesse potuto tornare al punto di partenza e ricominciare lentamente daccapo, avrebbe potuto capire cos'era...Il Grande Gatsby138...Una notte d'autunno, cinque anni prima, passeggiavano lungo una strada mentre cadevano le foglie ed erano giunti in un luogodove non c'erano alberi e il marciapiede era bianco come il chiarodi luna. D'un tratto s'erano fermati e voltandosi l'uno verso l'altra,avevano preso a guardarsi. Era una notte fresca, con quella misteriosa eccitazione che si sviluppa nei due cambi di stagione dell'anno. Le luci fioche nelle case ronzavano nell'oscurità e tra le stellec'era un vago fruscio e un bisbiglio. Con la coda dell'occhio Gatsbyvide che i mattoni del marciapiede formavano, in realtà, una scalache saliva verso un luogo segreto al di sopra degli alberi; avrebbepotuto seguirla se fosse stato solo e, una volta giunto lì, succhiare ilcapezzolo della vita per bere con voluttà l'incomparabile latte dellameraviglia.Il suo cuore batteva sempre più forte mentre il viso candido diDaisy si avvicinava al suo. Sapeva che quando l'avrebbe baciata,unendo per sempre le sue ineffabili visioni al respiro delicato dilei, la sua mente non avrebbe più giocato come quella di Dio. Cosìaspettò, ascoltando per un lungo istante il perfetto diapason suonato su una stella. Poi la baciò. Al tocco delle sue labbra lei sbocciòcome un fiore e l'incarnazione fu completa.Tutto ciò che disse, anche col suo scioccante sentimentalismo,mi fece tornare in mente qualcosa: un ritmo sfuggente, un frammento di parole perdute, che avevo ascoltato, da qualche parte,molto tempo prima. Per un momento una frase tentò di prenderforma nella mia bocca e le labbra si schiusero come quelle di unmuto, quasi fossero impegnate in una dura lotta, trattenute da unfilo di allarme nell'aria. Ma non emisero suono e ciò che avevoquasi ricordato restò inespresso per sempre.139Fu quando la curiosità per Gatsby raggiunse l'acme che le lucidi casa sua smisero di accendersi, un sabato sera, e col medesimo mistero che ne aveva accompagnato l'avvio, la suacarriera di Trimalcione giunse alla fine.Soltanto a poco a poco mi resi conto che le automobili cheimboccavano ansiose il suo viale si fermavano giusto per qualcheistante e poi ripartivano piuttosto deluse. Domandandomi se fosse malato, l'andai a cercare; un maggiordomo sconosciuto, dall'espressione scortese, mi guardò di sottecchi dalla porta, sospettoso.«Il signor Gatsby è malato?»«Macchè!» Dopo una pausa aggiunse un "signore" lentamente,quasi riluttante.«Non l'ho visto in giro e m'ero un po' preoccupato. Gli dica cheè venuto a cercarlo il signor Carraway.»«Chi?» domandò scostante.«Carraway.»«Carraway. Va bene, glielo dirò.» Sbatté la porta bruscamente.La mia finlandese m'informò che Gatsby aveva licenziato tuttoil personale di servizio una settimana prima per rimpiazzarlo conuna mezza dozzina di nuovi domestici che non erano soliti recarsi alvillaggio di West Egg per farsi corrompere dai commercianti, ma silimitavano ad ordinare una modesta quantità di provviste per teleCapitolo SettimoIl Grande Gatsby140fono. Il garzone del droghiere riferì che la cucina sembrava un porcile, e l'opinione generale degli abitanti del villaggio era che questinuovi arrivati non fossero esattamente dei domestici.Il giorno dopo Gatsby mi chiamò al telefono.«Stai per partire?» gli chiesi.«No, vecchio mio.»«Ho sentito che hai licenziato tutto il personale di servizio.»«Volevo gente che non passasse il tempo a spettegolare. Daisyviene spesso... di pomeriggio.»Cosicché l'intero caravanserraglio era crollato come un castellodi carte per via della disapprovazione negli occhi lei.«Si tratta di persone che Wolfshiem voleva sistemare. Sono tuttifratelli e sorelle. Gestivano un piccolo albergo.»«Capisco.»Mi chiamava su richiesta di Daisy – volevo andare a pranzo dalei l'indomani? La signorina Baker ci sarebbe andata. Mezz'oradopo telefonò Daisy stessa e sembrò sollevata nel sapere che sareiandato. Stava per succedere qualcosa. E ancora non riuscivo a credere che avrebbero scelto questa occasione per la scena, in particolare per quella piuttosto straziante che Gatsby aveva abbozzatoin giardino.Il giorno successivo fu rovente, sarà stato uno degli ultimi dell'estate, certamente il più caldo. Quando il mio treno emerse daltunnel alla luce del sole, soltanto i fischietti della National BiscuitCompany rompevano il ribollente silenzio del mezzogiorno. I sedilidi paglia della vettura sembravano prossimi alla combustione; ladonna che mi sedeva accanto sudò delicatamente per un po' nellasua camicetta e poi, quando il giornale cominciò a inumidirsi sottole sue dita, si annullò disperatamente nella profonda calura con unlamento desolato. Il suo portamonete cadde a terra.«Oh, no!» rantolò lei.Capitolo Settimo141Lo raccolsi con un logorante piegamento e glielo porsi, tenendoloa debita distanza e per un angolo, a indicare che non avevo alcunaintenzione al riguardo – ma tutti i presenti, compresa la signora, ebbero qualche sospetto su di me lo stesso.«Caldo!» disse il controllore ai volti abituali. «Che tempo! Caldo! Caldo! Caldo! Non è abbastanza per voi? Fa caldo? Fa...»Il biglietto mi fu restituito con una macchia scura dalla sua mano.A chi poteva interessare, in quella calura, di chi fossero le labbraardenti che aveva baciato, quale testa avesse inumidito la tasca delpigiama sul suo cuore!...Dall'ingresso della casa dei Buchanan soffiava un debole venticelloche portò il suono del telefono verso Gatsby e me, in attesa alla porta."Il cadavere del padrone!" ruggì il maggiordomo nella cornetta."Mi dispiace, signora, ma non possiamo ricomporlo – fa troppocaldo per toccarlo, quest'oggi."Ciò che disse in realtà fu: «Si... Si... Ora vedo.»Riagganciò il ricevitore e ci venne incontro, un po' lucido disudore, per prenderci i cappelli di paglia.«La signora vi aspetta nel salone!» esclamò, indicando inutilmente la direzione. In quella calura ogni gesto inutile era un affronto alla comune riserva di vita.La stanza, adeguatamente ombreggiata con delle tende da sole,era scura e fresca. Daisy e Jordan, distese su un enorme divanocome divinità d'argento, trattenevano i loro vestiti bianchi dallaronzante brezza dei ventilatori.«Non riusciamo a muoverci», dissero all'unisono.Le dita di Jordan, incipriate di bianco sull'abbronzatura, indugiarono per qualche istante tra le mie.«E il signor Thomas Buchanan, l'atleta?» chiesi.Contemporaneamente sentii la sua voce, roca, attenuata, secca,al telefono dell'ingresso.Il Grande Gatsby142Gatsby rimaneva al centro del tappeto cremisi e si guardava attorno con occhi affascinati. Daisy l'osservava e sorrideva con la suadolce, eccitante risata; un leggero sbuffo di cipria le si sollevò dalpetto e si diffuse nell'aria.«Pare,» sussurrò Jordan «che ci sia la ragazza di Tom al telefono.»Restammo in silenzio. La voce nell'atrio si alzò di tono e assunseun'aria seccata. «Molto bene dunque, non ti venderò più l'auto...Non ti devo niente... E il fatto che mi abbia infastidito a ora dipranzo, non lo tollero proprio!»«Tiene giù il ricevitore», disse Daisy cinicamente.«No, non è vero», la rassicurai. «Si tratta di un affare reale. Nesono al corrente per puro caso.»Tom spalancò la porta, ne ostruì per qualche istante il vano colsuo corpo massiccio, quindi entrò veloce nella stanza.«Signor Gatsby!» Gli stese la sua grossa, larga mano con disprezzo ben dissimulato. «Sono lieto di rivederla... Nick...»«Preparaci qualcosa di fresco», esclamò Daisy.Quando lui uscì nuovamente dalla stanza, lei si alzò e andò versoGatsby tirandogli giù il viso per baciarlo sulla bocca.«Lo sai che ti amo», mormorò.«Dimentichi che qui c'è una signora», disse Jordan.Daisy si guardò attorno dubbiosa.«E tu bacia Nick.»«Che ragazza gretta e volgare!»«Non m'importa!» esclamò Daisy e cominciò a caricare di legna il camino. Poi si ricordò del caldo e sedette afflitta sul divano proprio mentreuna balia, fresca di bucato, entrava tenendo per mano una bambina.«Te-so-retto bel-lo», canticchiò lei tendendo le braccia. «Vienidalla mamma che ti vuole tanto bene.»La bambina, lasciata la balia, corse attraverso la stanza per gettarsi intimidita tra le pieghe del vestito della madre.Capitolo Settimo143«Il te-so-retto bel-lo! Tua madre t'ha messo un po' di cipria suquesti capelli così belli biondi? Alzati ora, e dì 'Come-state?'»Gatsby ed io ci chinammo a toccare la piccola manina riluttante.Poi lui prese a guardare la bambina con sorpresa. Credo che nonavesse mai realmente creduto nella sua esistenza.«Mi hanno vestita prima del pranzo», disse la bambina voltandosi impaziente verso Daisy.«Perché la mamma ti voleva far vedere.» Il suo viso si chinònell'unica piega del piccolo collo bianco. «Sei un sogno, tu. Seiproprio un piccolo sogno.»«Si», ammise con calma la bimba. «Zia Jordan anche è vestitadi bianco.»«Ti piacciono gli amici di mamma?» Daisy la fece voltare tutt'attorno, così vide Gatsby. «Non pensi che siano davvero carini?»«Dov'è papà?»«Non somiglia al padre», disse Daisy. «È identica a me. Ha preso i miei capelli e lo stesso disegno del viso.»Tornò a sedere sul divano. La balia fece un passo avanti e stesela sua mano.«Vieni, Pammy.»«Ciao, cuoricino!»Voltandosi con uno sguardo riluttante, la bambina beneducata presela mano della balia e fu condotta fuori della porta proprio mentre Tomrientrava preceduto da quattro gin che tintinnavano pieni di ghiaccio.Gatsby prese il suo drink.«Sembrano davvero invitanti», disse con visibile tensione.Bevemmo in lunghi, avidi sorsi.«Ho letto, da qualche parte, che il sole si sta facendo ogni annopiù caldo», disse Tom in modo cordiale. «Pare che molto presto laterra cadrà sul sole – oh, aspettate un attimo... – è esattamente ilcontrario... il sole diventa ogni anno più freddo.»Il Grande Gatsby144«Andiamo fuori», suggerì a Gatsby «vorrei farle vedere la proprietà.»Uscii con loro in veranda. Sul verde Stretto ristagnante nellacalura, una piccola vela procedeva lenta verso il mare aperto piùfresco. Gli occhi di Gatsby la seguirono per qualche istante; alzòuna mano e indicò al di là della baia.«Sto proprio di fronte a voi.»«Già.»I nostri occhi si alzarono sui roseti, il prato caldo e le alghe rigettate a riva dalla canicola. Lentamente la vela bianca della barcasi mosse lungo il fresco limite blu dell'orizzonte. Avanzando versol'oceano senza limiti e le tante isole beate.«È un grande sport», disse Tom annuendo. «Mi piacerebbe essere là con lui per qualche ora.»Pranzammo nel soggiorno debitamente oscurato contro la calura e mandammo giù, insieme alla birra fresca, un'allegria nervosa.«Cosa faremo questo pomeriggio,» esclamò Daisy «e domani, ei prossimi trent'anni?»«Non essere così triste», disse Jordan. «La vita riparte ogni voltacon l'aria frizzante dell'autunno.»«Ma fa così caldo», insisté Daisy, quasi piangendo «ed è tuttocosì confuso. Andiamo in città!»La sua voce lottò nella calura battendosi con essa, dando aquest'insensatezza una qualche forma.«Ho sentito in giro di gente che ha ricavato un garage da unastalla,» stava dicendo Tom a Gatsby «ma sono il primo ad averricavato una stalla da un garage.»«Chi vuole andare in città?» chiese Daisy con insistenza. Gli occhi diGatsby fluttuarono verso di lei. «Ah», esclamò lei «Sembri così fresco!»I loro sguardi s'incrociarono e stettero a fissarsi l'un l'altra isolandosi. Con uno sforzo lei li riabbassò sul tavolo.«Hai sempre un'aria così fresca», ripeté lei.Capitolo Settimo145Lei gli aveva detto che lo amava, e Tom Buchanan se n'era accorto. Era sbigottito. Aprì leggermente la bocca, guardò Gatsbye poi di nuovo Daisy come se in lei soltanto adesso riconoscessequalcuno incontrato tanto tempo prima.«Sembri la pubblicità di quel tale», continuò innocentemente.«Ti ricordi la pubblicità di quell'uomo...»«Va bene», l'interruppe Tom brusco «Sono perfettamente d'accordo ad andare in città. Dai... andiamo tutti in città.»Si alzò con gli occhi che continuavano a mandare lampi versoGatsby e sua moglie. Nessuno si mosse.«Andiamo!» La sua collera s'incrinò un tantino. «Qual è il problema? Se vogliamo andare in città, partiamo.»La mano, tremando nello sforzo dell'autocontrollo, gli portòalle labbra ciò che restava del suo bicchiere di birra. La voce diDaisy ci fece alzare e uscire sull'ardente viale ghiaioso.«Andiamo subito?» obiettò lei. «Vi va? Non sarebbe il caso difermarsi a fumare una sigaretta, prima?»«Abbiamo fumato per tutto il pranzo.»«Oh, lasciaci divertire», l'implorò lei. «Fa troppo caldo per innervosirsi.»Lui non rispose.«Fa come ti pare», disse lei. «Vieni, Jordan.»Andarono di sopra per prepararsi mentre noi tre uomini restammo lì a schiacciare la ghiaia calda sotto le scarpe. Una falce argenteadi luna si stagliava già nel cielo a ovest. Gatsby tentò d'avviare unaconversazione, ma cambiò idea, non prima però che Tom si fossevoltato verso di lui per guardarlo in con aria ansiosa.«Le scuderie le ha qui?» chiese Gatsby sforzandosi.«Circa un quarto di miglio più giù, lungo il viale.»«Oh.»Una pausa.Il Grande Gatsby146«Non capisco questo capriccio di andare in città,» proruppeTom adirato. «Le donne si mettono in testa certe idee...»«Ci portiamo qualcosa da bere?» chiese Daisy da una finestradel piano di sopra.«Porterò del whisky», rispose Tom. Rientrò.Gatsby si voltò verso me, rigidamente:«Non riesco a dire niente in casa sua, vecchio mio.»«Lei ha una voce indiscreta», osservai. «È piena di...»Esitai.«La sua voce è piena di soldi», disse improvvisamente.Era così. Non l'avevo capito prima. Era piena di soldi: questoera l'inestimabile fascino che si alzava e ricadeva in essa, quel suoscampanellio, quel suono di cimbali... Lassù nel palazzo bianco, lafiglia del re, la fanciulla dorata...Tom uscì di casa con una bottiglia da un quarto in un tovagliolo,seguito da Daisy e Jordan che indossavano delle piccole cuffie distoffa metallica e con dei leggeri soprabiti al braccio.«Andiamo con la mia auto?» suggerì Gatsby. Tastò la pelle verde dei sedili, rovente. «Avrei dovuto lasciarla all'ombra.»«Ha il cambio standard?» domandò Tom.«Si.»«Beh, prenda il mio coupé e me la lasci guidare fino in città.»La proposta non piacque molto a Gatsby.«Non credo ci sia tanta benzina», obiettò.«Ce n'è a sufficienza», disse Tom impetuosamente. Guardò l'indicatore. «E se dovesse finire, mi potrei fermare a un drugstore. Sipuò comprare di tutto al giorno d'oggi nei drugstore.»Una pausa seguì questa sottolineatura solo in apparenza inutile.Daisy guardò Tom accigliandosi e un'indefinibile espressione, altempo stesso insolita eppur vagamente riconoscibile, come se mel'avessero descritta a parole, passò sul volto di Gatsby.Capitolo Settimo147«Andiamo, Daisy», disse Tom spingendola verso l'auto di Gatsby. «Ti farò fare un giro in questo carrozzone da circo.»Aprì la portiera ma lei si svincolò dalle sue braccia.«Portaci Nick e Jordan. Noi ti seguiremo col coupé.»Raggiunse Gatsby toccando la sua giacca con la mano. Jordan,Tom ed io prendemmo posto sui sedili anteriori dell'auto di Gatsby. Tom azionò un po' impacciato il cambio e fummo proiettatinella calura opprimente lasciandoceli alle spalle, fuori di vista.«Hai visto?» domandò Tom.«Visto cosa?»Mi trafisse con uno sguardo penetrante, realizzando che Jordaned io sapevamo tutto da un bel po'.«Mi credete uno scemo completo, non è vero?» suggerì. «Forselo sono, ma io ho... una sorta di sesto senso, alle volte, che mi dicecosa fare. Può darsi che non ci crediate, ma la scienza...»S'interruppe. L'immediata contingenza ebbe il sopravvento sudi lui fermandolo sull'orlo dell'abisso teoretico.«Ho fatto una piccola indagine su quest'uomo», continuò. «Sarei potuto andare più in profondità, se avessi saputo...»«Intendi dire che sei stato da una medium?» chiese Jordan scherzosamente.«Cosa?» Confuso, ci guardò mentre ridevamo. «Una medium?»«Per Gatsby.»«Per Gatsby! No, per niente. Ho detto che ho fatto una piccolaindagine sul suo passato.»«E hai scoperto che è stato a Oxford», disse Jordan gentilmente.«A Oxford!» Era incredulo. «Al diavolo! Se ne va in giro vestitodi rosa!»«Eppure è stato a Oxford.»«Oxford, New Mexico,» grugnì Tom sprezzante «o qualcosa delgenere.»Il Grande Gatsby148«Ascolta, Tom. Se sei così snob, perché l'hai invitato a pranzo?»chiese Jordan irritata.«Daisy l'ha invitato; lo conosceva da prima che ci sposassimo...Dio sa dove!»Eravamo tutti irritabili ora con i fumi della birra e, consapevolidi ciò, proseguimmo per un po' in silenzio. Poi, quando gli occhidel dottor T.J. Eckleburg furono in vista in fondo alla strada, miricordai della preoccupazione di Gatsby per la benzina.«Ne abbiamo abbastanza per arrivare in città», disse Tom.«Ma c'è un'officina qui vicino», obiettò Jordan. «Non mi va dirimanere a piedi in quest'assurda calura.»Tom azionò entrambi i freni spazientito e ci fermammo bruscamente in una nuvola di polvere sotto l'insegna di Wilson. Qualcheistante dopo dall'interno del locale emerse il proprietario e fissòl'auto con occhi febbricitanti.«Ci serve della benzina!» ordinò Tom duramente. «Per cosa credi che ci siamo fermati? Per... per ammirare il paesaggio?»«Sono malato», disse Wilson senza muoversi. «Sono stato maletutto il giorno.»«Cos'hai?»«Mi sento a pezzi.»«Beh, posso fare da me?» domandò Tom. «Mi sembrava chestessi abbastanza bene al telefono.»Con uno sforzo Wilson abbandonò l'ombra staccandosi dal sostegno della porta e ansimando forte svitò il tappo del serbatoio.Alla luce del sole la sua faccia era verde.«Non volevo interrompere il suo pranzo», disse. «Ma ho bisogno di soldi, purtroppo, e mi chiedevo che pensava di fare con lasua vecchia auto.»«Ti piace quest'altra?» domandò Tom. «L'ho comprata la scorsasettimana.»Capitolo Settimo149«È un bel giallo», disse Wilson mentre si sforzava alla pompa.«Ti andrebbe di comprarla?»«Grande affare», rise debolmente. «No... ma potrei recuperarequalcosa dall'altra.»«A cosa ti servono i soldi, così all'improvviso?»«Sono rimasto qui troppo a lungo. Voglio andare via. Mia moglie ed io vogliamo andare nel West.»«Tua moglie è d'accordo!?» esclamò Tom sorpreso.«Continua a parlarne da dieci anni.» Si poggiò per qualcheistante alla pompa proteggendosi gli occhi con la mano. «E ora leiverrà, che lo voglia o no. La porterò via.»Il coupé ci apparve per un istante in un turbine di polvere e unguizzo di mani che salutavano.«Quanto ti devo?» tagliò corto Tom.«Mi sono accorto di qualcosa di strano negli ultimi due giorni»,osservò Wilson. «Per questo voglio andare via. Per questo l'ho infastidita per l'auto.»«Quanto ti devo?»«Un dollaro e venti.»L'implacabile calura battente iniziava a stordirmi e passai unbrutto momento prima di realizzare che i suoi sospetti fossero ancora lontani da Tom. Aveva scoperto che Myrtle viveva una sortadi vita parallela in un altro contesto e lo shock l'aveva reso debolefisicamente. Fissai lui e poi Tom, che aveva fatto una scoperta analoga meno di mezz'ora prima, e mi trovai a riflettere sul fatto chenon ci sono differenze tra gli uomini, per intelligenza o razza, profonde quanto quella tra ammalati e sani. Wilson stava così male dasembrare colpevole, imperdonabilmente colpevole, quasi avesseappena reso madre una povera ragazza.«Farò in modo che tu abbia quell'auto», disse Tom. «Te la manderò domani pomeriggio.»Il Grande Gatsby150Quella zona era sempre vagamente inquietante, anche nel pienodella luce del pomeriggio, e ora voltai il capo come se avessi avvertito qualcosa alle mie spalle. Su quel mucchio di ceneri vigilavanogli occhi enormi del dottor T.J. Eckleburg ma, mi accorsi dopo unistante, altri occhi ci stavano osservando con particolare intensitàda non più di venti piedi.In una delle finestre sopra il garage la tendina era stata scostataun po' di lato e Myrtle Wilson stava sbirciando verso l'auto. Era cosìconcentrata da non accorgersi di essere a sua volta osservata e, l'unadopo l'altra, le emozioni le attraversavano il viso come le immagini inuna pellicola girata al rallentatore. La sua espressione era stranamentefamiliare: un'espressione che avevo visto spesso sul volto delle donne,ma su quello di Myrtle Wilson sembrava vana e inesplicabile, finchénon compresi che i suoi occhi, sbarrati dal terrore della gelosia, nonerano fissi su Tom, ma su Jordan Baker che credeva fosse sua moglie.Non c'è confusione peggiore di quella degli animi semplici;mentre proseguivamo Tom stava provando la calda frusta del panico. Sua moglie e la sua amante, fino a un'ora prima sicure e inviolate, stavano precipitosamente scivolando fuori dal suo controllo.L'istinto gli faceva premere sull'acceleratore con il doppio proposito di raggiungere Daisy e di lasciarsi Wilson alle spalle, così corremmo verso Astoria a cinquanta miglia all'ora prima di avvistare,quasi all'altezza della ragnatela di travi della sopraelevata, il coupéblu che marciava in tutta calma.«Quei grandi cinema verso la Cinquantesima sono così belli», suggerì Jordan. «Amo New York nei pomeriggi d'estate, quando tuttisono fuori. C'è qualcosa di molto sensuale, matura al punto giusto,come se ogni sorta di frutto stravagante stesse per caderti tra le mani.»La parola "sensuale" ebbe l'effetto di accrescere ulteriormentel'inquietudine di Tom, ma prima che potesse inventarsi una protesta, il coupé giunse a uno stop e Daisy ci fece segno di affiancarci.Capitolo Settimo151«Dove andiamo?» esclamò.«Che ne dici dei cinema?»«Fa troppo caldo», protestò lei. «Andate voi. Noi faremo ungiro e ci incontreremo più tardi.» Con uno sforzo si rese più briosa «ci rivedremo a qualche angolo. Io sarò l'uomo che fuma duesigarette.»«Non possiamo discuterne qui», disse Tom con impazienza mentre un camion emise un sibilo d'imprecazione dietro di noi. «Seguitemi giù a Central Park, di fronte al Plaza.»Si voltò diverse volte per guardare indietro, verso la loro auto;se il traffico li rallentava, anche lui frenava finché non tornavanoin vista. Credo avesse paura che svoltassero in una strada laterale equindi fuori dalla sua vita per sempre.Ma non lo fecero. E tutti noi prendemmo la più inspiegabiledelle decisioni, affittando il salotto di una suite al Plaza Hotel.La prolungata e tumultuosa discussione che si concluse col radunarci in quella stanza, ora mi sfugge, ma ho un nitido ricordofisico: nel corso della stessa, le mutande presero ad arrampicarmisicome un serpente umido lungo le gambe mentre intermittenti perline di sudore mi scorrevano giù per la schiena. L'idea aveva avutoorigine dalla proposta di Daisy di fittare cinque stanze da bagnoper immergerci nelle vasche riempite d'acqua fredda, poi avevapreso una forma più tangibile nel desiderio di "un luogo dove poter bere una menta ghiacciata." Ciascuno di noi ripeté varie volteche si trattava di una "folle idea"; parlammo tutti insieme ad unfrastornato commesso e pensammo, o fingemmo di farlo, che cistessimo davvero divertendo...La stanza era grande e opprimente e, sebbene fossero le quattro, aprendo le finestre giungeva solo una calda folata dai cespugliroventi del parco. Daisy si pose davanti allo specchio dandoci lespalle mentre si ricomponeva i capelli.Il Grande Gatsby152«È una magnifica suite», sussurrò Jordan rispettosamente, tuttirisero.«Aprite un'altra finestra», ordinò Daisy senza voltarsi.«Non ce ne sono altre.»«Beh, dovremmo telefonare per un'ascia...»«L'unica cosa da fare è dimenticare il caldo», disse Tom con impazienza. «Lo rendi dieci volte peggiore continuando a curartene.»Srotolò la bottiglia di whisky dal tovagliolo e la pose sul tavolo.«Perché non la lascia in pace, vecchio mio?» osservò Gatsby. «Èstato lei a voler venire in città.»Ci fu un momento di silenzio. L'elenco del telefono scivolò dalgancio e cadde sul pavimento, dopodiché Jordan sussurrò «Scusatemi» ma a questo punto nessuno rise.«Lo raccolgo io», mi offrii.«L'ho preso io.» Gatsby esaminò la cordicella spezzata, borbottò "Hum!" in maniera interessata poggiando l'elenco su una sedia.«È una gran bella espressione, non è vero?» disse Tom aspro.«Cosa?»«Tutti questi accidenti di 'vecchio mio'. Da dove l'ha ripescato?»«Ora sta a sentire, Tom,» disse Daisy voltandosi dallo specchio«se hai intenzione di fare dei commenti personali, non resterò quiun minuto di più. Chiama e ordina del ghiaccio per la menta.»Mentre Tom prendeva il ricevitore, la calura compressa esplosein suoni e udimmo i poderosi accordi della marcia nuziale di Mendelssohn dalla sala da ballo disotto.«Immagina di sposare qualcuno con questo caldo!» esclamòJordan con orrore.«Eppure... io mi sposai alla metà di giugno,» ricordò Daisy «Louisville in giugno! Qualcuno svenne. Chi fu a svenire, Tom?»«Biloxi», tagliò corto lui. «Un uomo di nome Biloxi. "Blocks" Biloxi, fabbricava blocchi – proprio così – e veniva da Biloxi, Tennessee.»Capitolo Settimo153«Lo portarono in casa mia,» aggiunse Jordan «poiché abitavamo di fianco alla chiesa. E rimase tre settimane, finché papà non glidisse che doveva andarsene. Il giorno dopo la sua partenza, papàmorì.» Qualche istante dopo aggiunse, quasi fosse suonata irriverente, «non c'era nessuna connessione.»«Conoscevo un certo Bill Biloxi di Memphis», osservai.«Era suo cugino. Mi raccontò l'intera storia della sua famiglia prima di ripartire. Mi diede un putter di alluminio che uso ancora oggi.»La musica sfumò mentre la cerimonia aveva inizio, ora una lungaesultanza fluttuava all'interno dalla finestra, seguita da intermittenti gridolini di "Siii-iii-iii!" e infine da un'esplosione di jazz quandoebbero inizio le danze.«Stiamo invecchiando», disse Daisy. «Se fossimo stati giovani, cisaremmo alzati e avremmo ballato.»«Rammenta Biloxi», Jordan l'ammonì. «Dove l'avevi conosciuto, Tom?»«Biloxi?» si concentrò con uno sforzo. «Non lo conoscevo. Eraun amico di Daisy.»«Non è vero», negò lei. «Non l'avevo mai visto prima. Vennecon la carrozza privata.»«Beh, disse che ti conosceva. Disse che era cresciuto a Louisville. Asa Bird lo portò in giro all'ultimo minuto e ci chiese se c'eraposto per lui.»Jordan rise.«Stava probabilmente scroccando un passaggio per casa. Mi disse che era il presidente della vostra classe a Yale.»Tom ed io ci guardammo senza espressione.«Biloxi?»«Innanzitutto, non avevamo alcun presidente...»Il piede di Gatsby tamburellava sul pavimento senza tatto e Tomgli lanciò un'occhiataccia.Il Grande Gatsby154«A proposito, signor Gatsby, m'è parso di sentire che lei è statoa Oxford.»«Non esattamente.»«Oh si, ho sentire dire che lei ha studiato a Oxford.»«Si... ci sono stato.»Una pausa. Poi la voce di Tom, incredula e ingiuriosa:«Lei deve esserci stato nello stesso periodo in cui Biloxi andò inNew Haven.»Un'altra pausa. Un cameriere bussò ed entrò con una granita dimenta e ghiaccio, ma il silenzio non fu interrotto dal suo "Grazie"e dal leggero richiudersi della porta. Questo particolare tremendodoveva essere chiarito perlomeno.«Le ho detto che ci sono stato», disse Gatsby.«L'ho sentita, ma vorrei sapere quando.»«Fu nel 1919, ci rimasi soltanto per cinque mesi. È questo ilmotivo per cui non posso dire di aver studiato a Oxford.»Tom si guardò attorno per vedere se stessimo condividendola sua incredulità. Ma eravamo tutti con lo sguardo rivolto versoGatsby.«Fu un'opportunità concessa ad alcuni ufficiali dopo l'Armistizio», continuò «potevamo andare in qualsiasi università dell'Inghilterra o della Francia.»Mi sarei voluto alzare per dargli una pacca sulla spalla. Attraversavo uno di quei momenti di completa fiducia in lui, come già inpassato me ne erano capitati.Daisy si alzò sorridendo delicatamente e s'avvicinò al tavolo.«Apri il whisky, Tom» ordinò. «Ora ti preparerò la menta. Almeno non avrai più quell'espressione così stupida... guarda chementa!»«Aspettate un istante», scattò Tom «Voglio fare un'altra domanda al signor Gatsby.»Capitolo Settimo155«La prego», disse Gatsby educatamente.«Che genere di lite sta cercando di provocare in casa mia, dunque?»Erano ormai allo scoperto e Gatsby ne era felice.«Non sta provocando nessuna lite.» Daisy osservava disperatamente entrambi. «Tu la stai provocando. Per favore cerca di controllarti un po'.»«Controllarmi!» ripeté Tom incredulo. «Suppongo che l'ultimacosa da fare sia tornare a sedersi e lasciare che il Signor Nessun dalNulla faccia l'amore con tua moglie. Beh, se questa è l'idea, noncontate su di me... oggigiorno la gente inizia a farsi beffe della vitae dell'istituto della famiglia per poi gettare tutto a monte; finirà coimatrimoni misti fra bianchi e negri.»Accaldato dal suo sproloquio senza senso si vide solo, sull'ultima barricata della civilizzazione.«Siamo tutti bianchi qui», mormorò Jordan.«Lo so, non sono molto simpatico. Non do grandi feste. Suppongo che lei abbia voluto fare della sua casa un porcile proprioper avere un po' di amici... nel mondo moderno.»Furioso com'ero, come tutti eravamo, avrei voluto ridere ognivolta che apriva bocca. La conversione, da libertino a bacchettone,era ormai completa.«Ho qualcosa da dirle, vecchio mio...» cominciò Gatsby. MaDaisy indovinò le sue intenzioni.«Per favore, no!» interruppe lei disperatamente. «Per favoretorniamocene tutti a casa. Perché non ce ne torniamo a casa?»«Questa è una buona idea.» Mi alzai. «Andiamo, Tom. Nessunovuole un drink?»«Voglio sapere cosa ha da dirmi il signor Gatsby.»«Sua moglie non l'ama», disse Gatsby. «Non l'ha mai amata. Ama me.»«Lei deve essere pazzo!» esclamò Tom come un automa.Gatsby saltò in piedi profondamente agitato.Il Grande Gatsby156«Non l'ha mai amata, ha capito?» urlò. «L'ha sposata soltantoperché ero povero ed era stanca di aspettarmi. È stato un terribileerrore, ma nel suo cuore non ha mai amato altri che me!»A questo punto Jordan ed io provammo ad andarcene, ma Tome Gatsby insistettero, gareggiando in fermezza, perché rimanessimo– come se nessuno di loro avesse qualcosa da nascondere e fosse pernoi un privilegio prendere parte indirettamente alle loro emozioni.«Siediti Daisy.» La voce di Tom tentò senza successo una notapaternalistica. «Che sta succedendo? Voglio sapere tutta la verità.»«Gliel'ho detto cosa sta succedendo», disse Gatsby. «Succededa cinque anni... e lei non lo sapeva.»Tom si voltò bruscamente verso Daisy.«Hai continuato a vedere quest'uomo per cinque anni?»«Non vedere», disse Gatsby. «No, non ci potevamo incontrare.Ma ciascuno di noi ha amato l'altro per tutto questo tempo, vecchio mio, e lei non lo sapeva. Mi capitava di ridere alle volte...» manon c'era l'ombra del sorriso nei suoi occhi, «al solo pensiero chelei non sapesse.»«Oh... tutto qui.» Tom giunse le sue grosse dita, come un prete,e si abbandonò sulla poltrona.«Lei è pazzo!» esplose. «Non posso parlare di ciò che accaddecinque anni fa, perché non conoscevo Daisy allora – e che io siadannato se potessi sapere come le si sia avvicinato a meno di unmiglio senza aver portato la spesa dalla porta sul retro. Ma tutto ilresto è una maledetta menzogna. Daisy mi amava quando mi sposòe mi ama ancora adesso.»«No», disse Gatsby scuotendo il capo.«Certo che è così. Il problema è che ogni tanto lei ha qualche folleidea nella sua testa e non sa quel che fa.» Annuì saggiamente. «E c'è dipiù, anch'io amo Daisy. Qualche volta faccio baldoria e mi comporto dastupido, ma torno sempre e nel mio cuore non smetto mai di amarla.»Capitolo Settimo157«Sei ributtante», disse Daisy. Si voltò verso me e la sua voce,scendendo di un'ottava, riempì la stanza con un disprezzo emozionante: «lo sai perché lasciammo Chicago? Sono sorpresa che non tiabbiano raccontato la storia di questa piccola baldoria.»Gatsby avanzò e le si pose davanti.«Daisy, ormai il più è fatto», disse con entusiasmo. «Non puòsuccedere nient'altro. Devi solo dirgli la verità – che non l'hai maiamato – e sarà tutto spazzato via per sempre.»Lei lo guardò senza vederlo. «Perché... potrei averlo amato...può darsi?»«Non l'hai mai amato.»Lei esitò. I suoi occhi si posarono su Jordan e me in una sorta disupplica, come se finalmente avesse realizzato cosa stesse facendo– e non avesse mai voluto realmente fare qualcosa per tutto queltempo. Ma, adesso, era fatta. Era troppo tardi.«Non l'ho mai amato» disse, con riluttanza percettibile.«Neanche a Kapiolani?» domandò Tom d'un tratto.«No.»Dalla sala da ballo disotto, calde ondate d'aria trascinavano consé accordi smorzati e soffocati.«Neanche quel giorno che ti portai giù in braccio da PunchBowl per non farti bagnare le scarpe?» C'era una tenerezza ruvidanel suo tono. «...Daisy?»«Per favore, basta.» La sua voce era fredda, ma il rancore erasvanito. Guardò Gatsby. «Ecco, Jay», disse; la mano però le stavatremando mentre provava ad accendersi una sigaretta. Improvvisamente gettò la sigaretta e il fiammifero acceso sul tappeto.«Oh, tu pretendi troppo!» urlò a Gatsby. «Ti amo adesso... nonè abbastanza? Non posso cambiare il passato.» Cominciò a singhiozzare disperatamente. «L'ho amato un tempo, ma ho amatoanche te.»Il Grande Gatsby158Gli occhi di Gatsby s'aprirono e richiusero.«Hai amato anche me?» ripeté.«Anche questa è una bugia», disse Tom furiosamente. «Non sapeva neanche che fosse ancora vivo. Vede... ci sono delle cose trame e Daisy che lei non saprà mai, cose che nessuno di noi due potràmai dimenticare.»Le parole parvero aggredire fisicamente Gatsby.«Voglio parlare con Daisy da sola», insisté. «Lei è molto agitataora...»«Anche da sola, non potrei dire di non aver mai amato Tom»,ammise con voce pietosa. «Non sarebbe la verità.»«Certo che non lo sarebbe», acconsentì Tom.Si voltò verso suo marito.«Come se te n'importasse qualcosa», disse.«Certo che m'importa. Avrò più cura di te d'ora in avanti.»«Lei non capisce», disse Gatsby con un pizzico di panico. «Leinon si prenderà più cura di lei.»«No?» Tom spalancò i suoi occhi e rise. Aveva ripreso il controllo di sé ora. «Perché mai?»«Daisy la lascerà.»«Che stupidaggine!»«Lo farò eccome», disse lei con uno sforzo visibile.«Lei non mi lascerà!» Le parole di Tom si abbatterono improvvise su Gatsby. «Certamente non per un volgare imbroglione chedovrebbe rubare l'anello da metterle al dito.»«Non ne posso più!» urlò Daisy. «Oh, per favore, andiamocene.»«Chi è lei, dunque?» proruppe Tom. «Lei è uno della banda che ruota attorno a Meyer Wolfshiem – questo è ciò che mi è dato sapere. Hofatto una piccola indagine sui suoi affari... e ne saprò di più domani.»«Potrà soddisfare la sua curiosità, vecchio mio.» Disse Gatsbyfermamente.Capitolo Settimo159«So cos'erano i suoi 'drugstore'.» Si voltò verso noi e parlò rapidamente. «Lui e questo Wolfshiem rilevarono diversi drugstoredi periferia qui e a Chicago e vendettero alcol etilico senza ricettamedica. Questo è uno dei suoi piccoli affari. L'avevo preso per uncontrabbandiere, quando lo vidi la prima volta, e non c'ero andatopoi tanto lontano.»«E quindi?» disse Gatsby educatamente. «A quanto pare il suoamico Walter Chase non ha disdegnato l'entrata nel giro.»«E lei l'ha lasciato nei pasticci, non è vero? L'ha lasciato in carcere per più di un mese in New Jersey. Dio! Dovrebbe sentire Walter cosa dice di lei.»«Venne da noi che era uno squattrinato. Fu davvero entusiastadi farsi un po' di soldi, vecchio mio.»«Non mi chiami 'vecchio mio'!» urlò Tom. Gatsby non risposenulla. «Walter poteva ricattarvi anche sulle scommesse, ma Wolfshiem lo terrorizzò intimandogli di tenere la bocca chiusa.»Quell'insolita eppur riconoscibile espressione si dipinse nuovamente sul volto di Gatsby.«Questa faccenda dei drugstore è solo un piccolo affare,» continuò Tom lentamente «ma ora si sta occupando di qualcosa cheWalter ha avuto paura di raccontarmi.»Osservai Daisy volgere lo sguardo terrificata tra Gatsby, suo marito e Jordan che cominciò a bilanciare un oggetto invisibile, mamolto interessante, sulla punta del mento. Poi tornai a voltarmiverso Gatsby e fui sorpreso dalla sua espressione. Aveva l'aria – equesto va detto pur disprezzando tutte le chiacchiere infamanti delsuo giardino – di chi avesse "ucciso un uomo". Per qualche istantel'espressione del suo volto poté essere descritta soltanto in questaforma fantastica.Poi passò, e cominciò a parlare emozionato a Daisy negandotutto, difendendo il suo nome anche da accuse che non gli erano Il Grande Gatsby160state rivolte. Ma a ogni parola lei si ritraeva via via sempre più inse stessa, finché lui non rinunciò lasciando che solo il sogno mortocontinuasse a battersi, mentre il pomeriggio sfumava via, cercandodi toccare ciò che non era più tangibile, struggendosi infelice, disperandosi, alla volta di quella voce perduta oltre la stanza.La voce supplicò nuovamente di andare via.«Per favore, Tom! Non ce la faccio più.»I suoi occhi spauriti rivelavano che, qualsiasi fosse stata l'intenzioneiniziale e il coraggio posseduto, ormai erano definitivamente svaniti.«Avviatevi voi due, Daisy», disse Tom. «Con l'auto del signorGatsby.»Lei guardò Tom allarmata, ma lui insisté con magnanime disprezzo.«Vai. Non ti darà noie. Credo che abbia intuito la fine del suopiccolo e presuntuoso flirt.»Se ne andarono senza una parola, scossi quasi alla stregua di unincidente, isolati come fantasmi persino dalla nostra pietà.Dopo un po' Tom si alzò e cominciò a riavvolgere la bottiglia diwhisky, rimasta intatta, nel tovagliolo.«Ne volete un po'? Jordan? ...Nick?»Non risposi.«Nick?» mi chiese nuovamente.«Cosa?»«Ne bevi un po'?»«No... Mi sono appena ricordato che oggi è il mio compleanno.»Compivo trent'anni. Di fronte a me si distendeva la minacciosastrada di un nuovo decennio.Erano le sette quando salimmo sul coupé con lui e partimmo perLong Island. Tom parlava incessantemente, esultando e ridendo,ma la sua voce era come remota per Jordan e me, come lo strepito diun estraneo sul marciapiede o il tumulto sulla soprelevata. La sim-Capitolo Settimo161patia umana ha i suoi limiti ed eravamo contenti di lasciare che tuttii loro tragici discorsi sfumassero con le luci della città alle nostrespalle. Trent'anni: la promessa di un decennio di solitudine, unarada lista di uomini single da conoscere, un entusiasmo sempre piùrado, radi capelli. Ma c'era Jordan al mio fianco che, a differenza diDaisy, era troppo saggia per potersi tirare dietro sogni ormai dimenticati da un'età all'altra. Mentre passavamo sul ponte scuro, il suovolto pallido cadde pigramente sulla spalla della mia giacca e il durocolpo dei trenta svanì con la rassicurante pressione della sua mano.Così avanzavamo verso la morte nel crepuscolo rinfrescante.Il giovane greco Michaelis, che gestiva il caffè di fianco ai cumulidi cenere, fu il testimone principale dell'inchiesta. Aveva dormito durante la calura fino alle cinque, poi s'era affacciato al garage trovando George Wilson malato nel suo ufficio; stava davvero male, pallidocome i suoi stessi capelli chiari e tutto tremante. Michaelis gli avevasuggerito di andarsene a letto, ma Wilson aveva rifiutato dicendo cheavrebbe perso un sacco di occasioni se l'avesse fatto. Mentre il suoospite provava a persuaderlo, s'era udito un violento fracasso disopra.«Ho lasciato mia moglie chiusa a chiave», spiegò Wilson concalma. «Dovrà restarci fino a dopodomani, poi partiremo.»Michaelis era perplesso; erano stati vicini per quattro anni eWilson non gli era mai sembrato neanche lontanamente capace diuna simile decisione. In genere appariva come un uomo esausto:quando non era a lavoro, sedeva su una sedia sulla porta a guardare la gente e le auto passare lungo la strada. Quando qualcuno gliparlava, lui invariabilmente rideva in maniera gradevole, spenta.Apparteneva a sua moglie, non a se stesso.Così naturalmente Michaelis provò a capire cosa fosse accaduto,ma Wilson non volle dire una parola – anzi cominciò a gettargliocchiatacce curiose, sospettose e a chiedergli cos'avesse fatto a una Il Grande Gatsby162certa ora o in certi giorni. Proprio quando quest'ultimo iniziava apreoccuparsi, alcuni operai s'erano avvicinati alla porta del suo ristorante e Michaelis ne aveva approfittato per andarsene con l'intenzione di tornare in seguito. Ma non lo fece. Suppose di essersenedimenticato, tutto qui. Quando era uscito di nuovo, poco dopo lesette, s'era ricordato della conversazione poiché aveva udito la vocedella signora Wilson, forte e con tono di rimprovero, giù nel garage.«Picchiami!» udì urlare lei. «Gettami a terra e picchiami, piccolo sporco codardo!»Un momento dopo s'era precipitata nel tramonto agitando lemani e gridando; prima che potesse muoversi dalla sua porta eragià tutto finito.La "macchina della morte", come la definirono i giornali, nonsi fermò; venne fuori dalla fitta oscurità, sbandò tragicamente perun istante e poi scomparve dietro la curva successiva. Michaelisnon era neanche sicuro del suo colore – disse al primo poliziottoche era verde chiaro. L'altra auto, quella che proseguiva in direzione di New York, si fermò un centinaio di yarde oltre e l'uomoalla guida corse indietro dove Myrtle Wilson, la cui vita era stataviolentemente spezzata, era inginocchiata per strada mescolando ilsuo sangue, scuro e denso, alla polvere.Michaelis e l'uomo dell'altra auto la raggiunsero per primi ma,quando le aprirono la camicetta ancora umida di sudore, videroche il suo seno sinistro penzolava come una patta e non fu necessario sentire se il cuore le battesse ancora. La bocca era aperta oltremisura, come squarciata agli angoli, quasi si fosse sforzata nell'esalare la sua tremenda vitalità, tanto a lungo racchiusa.Notammo le tre o quattro automobili e la calca quando eravamoancora piuttosto distanti.«Un incidente!» disse Tom. «Buon per Wilson, che avrà qualcosa da fare.»Capitolo Settimo163Rallentò senza alcuna intenzione di fermarsi fino a che, giuntinei paraggi, i volti attoniti della gente sulla porta del garage non glifecero tirare automaticamente i freni.«Diamo un'occhiata», disse esitando «solo uno sguardo.»Mi accorsi in quel momento di un gemito disperato che proveniva dal garage, un lamento che, mentre lasciavamo il coupé e camminavamo verso la porta, si tramutò nelle parole "Oh, mio Dio!"ripetute più e più volte come in una litania.«È successo qualcosa di grave, qui» disse Tom agitato.In punta di piedi sbirciò tra la calca di curiosi nel garage illuminato da una sola luce gialla proveniente da un canestro di metalloche dondolava sulle loro teste. Poi emise un lamento aspro, gutturale, e con un violento movimento delle braccia si fece largo.La folla si ricompattò con un mormorio di protesta; ci vollequalche istante prima che riuscissi a vedere qualcosa. I nuovi arrivati smossero le fila e Jordan ed io fummo spinti bruscamenteall'interno.Il cadavere di Myrtle Wilson avvolto in una coperta, e quindi inun'altra ancora, come se avesse i brividi di freddo in quella notte torrida, era disteso su un banco da lavoro lungo il muro e Tom, che cidava le spalle, era curvo su di esso immobile. Accanto a lui un poliziotto motociclista prendeva appunti su di un piccolo blocco conmolto sudore e svariate correzioni. All'inizio non riuscii a comprendere l'origine dei gemiti e degli acuti lamenti che riecheggiavano nelgarage spoglio – poi vidi Wilson in piedi sulla soglia del suo ufficiodondolarsi avanti e indietro, serrando le mani attorno allo stipite dellaporta. Qualcuno gli parlava a bassa voce e provava a poggiargli ditanto in tanto una mano sulla spalla, ma lui non udiva e non vedeva. Isuoi occhi ricadevano lentamente dalla luce dondolante al tavolo gravato lungo il muro per poi tornare con nuovo impeto alla luce mentrecontinuava a lamentarsi con un gemito penetrante e spaventoso.Il Grande Gatsby164«Oh, mio Diiiiooo! Oh, mio Diiiooo! Oh, mio Diiiooo! Oh, mioDiiiooo!»Nel frattempo Tom alzò la sua testa di scatto e dopo aver scrutato l'intero garage con occhi vitrei indirizzò un mormorio incoerente al poliziotto.«M-a-v...» il poliziotto stava dicendo, «...o...»«No..., r...» corresse l'uomo, «M-a-v-r-o...»«Mi ascolti!» mormorò Tom, con impazienza.«r...» disse il poliziotto, «o...»«g...»«g...» Vide la grossa mano di Tom dirigersi distintamente sullasua spalla. «Cosa vuole, buonuomo?»«Cosa è successo... questo solo voglio sapere!»«Un'auto l'ha centrata. È morta sul colpo.»«Morta sul colpo», ripeté Tom con gli occhi sbarrati.«È corsa fuori, verso la strada. Un figlio di puttana non ha neanche frenato.»«C'erano due macchine», disse Michaelis «una veniva e l'altraandava, capisce?»«Andava dove?» chiese il poliziotto solerte.«Una da un lato e l'altra di là. Bene, lei...» la sua mano si alzòverso la coperta ma si fermò a metà strada e ricadde su un fianco«...lei correva verso l'auto che veniva da New York, l'ha centrata,poteva andare a trenta o quaranta miglia all'ora.»«Come si chiama questo posto?» domandò l'ufficiale.«Non ha mai avuto un nome.»Un nero malaticcio, ben vestito, si fermò a pochi passi.«Era un'auto gialla», disse «una grossa auto gialla. Nuova.»«Ha visto l'incidente?» chiese il poliziotto.«No, ma l'auto m'è passata davanti sulla strada e andava a più diquaranta. A cinquanta, sessanta.»Capitolo Settimo165«Venga qui e mi lasci segnare il suo nome. Fatemi largo. Voglioprendere il suo nome.»Alcune parole di questa conversazione dovevano aver raggiuntoWilson, che barcollava sulla porta dell'ufficio, poiché improvvisamente emise un nuovo gemito tra i suoi lamenti disperati.«Non c'è bisogno che mi diciate che tipo di macchina era! Lo sogià che auto era!»Guardando Tom m'accorsi che i muscoli delle sue spalle si tesero sotto la giacca. Camminò veloce verso Wilson e, fermandoglisidi fronte, l'afferrò per le braccia.«Ti devi ricomporre», disse cercando di calmarlo con modienergici.Gli occhi di Wilson si appuntarono su di lui; s'alzò sulla puntadei piedi e sarebbe crollato sulle ginocchia se Tom non l'avessesostenuto.«Ascolta», disse Tom scuotendolo leggermente. «Sono arrivatoproprio ora da New York. Ti stavo portando quel coupé di cui abbiamo parlato. La macchina gialla che guidavo questo pomeriggionon è mia. Mi ascolti? Non l'ho vista per tutto il pomeriggio.»Soltanto il nero ed io eravamo vicini a sufficienza per ascoltarecosa gli stesse dicendo, ma il poliziotto colse qualcosa nel tono e cisquadrò con occhi truculenti.«Di cosa sta parlando?» domandò.«Sono un suo amico.» Tom voltò il capo continuando a reggereWilson con le mani. «Dice di conoscere l'auto che... Era una macchina gialla.»Qualche sottile impulso continuava a influenzare il poliziottoche guardava Tom con sospetto.«E di che colore è la sua auto?»«È blu, ed è coupé.»«Siamo venuti direttamente da New York», dissi.Il Grande Gatsby166Qualcuno, che ci aveva preceduto di poco, confermò la mia versione al poliziotto che smise di interessarsi a noi.«Ora, se mi lasciate prendere quel nome corretto...»Sollevando Wilson come una bambola, Tom lo trascinò nell'ufficio, lo fece sedere su una sedia e tornò indietro.«Se qualcuno potesse venire qui e stare con lui!» sbottò con autorevolezza. Rimase a guardare mentre i due uomini più vicini, chesi scambiarono uno sguardo, s'avviarono infelici nella stanza. Poichiuse la porta dietro di loro e scese il gradino evitando il tavolocon gli occhi. Mentre mi passava accanto sussurrò «Cerchiamo diandarcene.»Ostentando sicurezza, con le possenti braccia di Tom che fungevano da apripista fendemmo la folla che ancora si accalcava superando un medico dal passo veloce con un astuccio in mano che erastato chiamato mezz'ora prima in un'inutile speranza.Guidò lentamente finché non oltrepassammo la curva – poi ilsuo piede pigiò sull'acceleratore e il coupé corse veloce nella notte.Per un attimo lo sentii singhiozzare debolmente e vidi le lacrimerigargli il viso.«Che Dio maledica quel codardo!» frignava. «Non ha neanchefermato l'auto.»La casa dei Buchanan ci apparve improvvisamente tra gli alberifrondosi nella notte. Tom si fermò davanti al portico e guardò versoil secondo piano dove due finestre brillavano tra i tralci di vite.«Daisy è a casa», disse. Scendendo dall'auto mi guardò leggermente accigliato.«Avrei dovuto portarti a West Egg, Nick. Stasera non possiamofare nulla.»In lui si era manifestato un cambiamento e ora parlava gravemente, con fermezza. Mentre camminavamo verso il portico sulla ghiaiailluminata dal chiaro di luna sistemò tutto con brevi frasi concise.Capitolo Settimo167«Telefonerò per un taxi che ti riporti a casa e, mentre aspetti, tue Jordan potrete andare in cucina per farvi preparare qualcosa percena – se ne avete voglia.» Aprì la porta. «Entrate.»«No grazie. Ma ti sarei grato se chiamassi un taxi. Aspetterò fuori.»Jordan mi poggiò una mano sul braccio.«Non ti va di entrare, Nick?»«No, grazie.»Non mi sentivo un granché e avevo voglia di restare solo. Jordanperò insistette ancora una volta.«Sono appena le nove e mezzo», disse.Dannazione, non volevo entrare; ne avevo avuto abbastanza ditutti loro per un giorno intero e d'un tratto anche di Jordan. Avràintuito qualcosa nella mia espressione poiché si voltò di scatto ecorse sotto il portico per entrare in casa. Sedetti per alcuni minuticon la testa tra le mani finché non udii la voce del maggiordomoche, sollevato il telefono, chiamava un taxi. Quindi passeggiai lentamente lungo il viale con l'intenzione di aspettare al cancello.Avevo percorso venti iarde quando udii il mio nome e Gatsbysbucò tra due cespugli sul sentiero. Dovevo sentirmi davvero malepoiché non riuscivo a pensare ad altro che alla luminosità del suocompleto rosa al chiaro di luna.«Che fai?» chiesi.«Me ne sto fermo qui, vecchio mio.»Ad ogni modo, sembrava uno spregevole passatempo. Perquanto ne sapevo, avrebbe potuto svaligiare la casa da un momento all'altro; non mi sarei sorpreso più di tanto nel vedere delle faccesinistre, le facce della "banda di Wolfshiem", dietro di lui nelletenebre del boschetto.«C'era confusione per strada?» chiese dopo un po'.«Si.»Esitò.Il Grande Gatsby168«È morta?»«Si.»«Lo sapevo; l'ho detto a Daisy che la pensavo così. È meglio chelo shock venga tutto insieme. Ha retto piuttosto bene.»Parlava della reazione di Daisy come se fosse stata l'unica cosaimportante.«Ho raggiunto West Egg da una via secondaria,» continuò «edho lasciato l'auto nel mio garage. Non credo che nessuno ci abbiavisto, ma naturalmente, non posso esserne certo.»Ero così disgustato da lui a quel punto, che non credetti necessario smentirlo.«Chi era la donna?» chiese.«Il suo nome era Wilson. Suo marito gestisce il garage. Comediavolo è successo?»«Beh, ho provato ad afferrare lo sterzo...» s'interruppe, e d'incanto intuii la verità.«Guidava Daisy?»«Si», disse dopo un istante «ovviamente dirò che al volante c'eroio. Vedi, quando siamo ripartiti da New York era molto nervosae ha pensato che guidare l'avrebbe calmata – quella donna è corsa fuori verso di noi proprio mentre stavamo incrociando un'autoproveniente dall'altra direzione. È successo tutto in un istante: m'èparso che volesse parlarci, come se ci conoscesse in qualche modo.Beh, in un primo momento Daisy ha svoltato contro l'altra auto pois'è fatta prendere dal panico e ha sterzato nuovamente. Nell'istantein cui la mia mano ha raggiunto il volante, ho sentito l'urto – deveessere morta sul colpo.»«L'ha squarciata...»«Non parlarmene, vecchio mio», trasalì. «Ad ogni modo... Daisyha proseguito. Ho provato a farla frenare, ma lei non voleva, così hotirato il freno a mano. Poi m'è crollata addosso e ho proseguito io.Capitolo Settimo169Domani si sarà ripresa completamente», continuò. «Sto soloaspettando per vedere se lui ha intenzione d'infastidirla ancora, dopotutte le cose spiacevoli di oggi pomeriggio. S'è chiusa a chiave in camera sua e se proverà a darle noie, lei spegnerà e riaccenderà la luce.»«Non la toccherà», dissi. «Non sta pensando a lei.»«Non mi fido di lui, vecchio mio.»«Quanto pensi di restare qui ad aspettare?»«Tutta la notte, se necessario. Ad ogni modo almeno fin quandonon andranno a letto.»Mi venne in mente che tutta la faccenda poteva essere inquadrata da un altro punto di vista. Supponendo che Tom fosse venutoa conoscenza del fatto che al volante c'era Daisy, avrebbe potutopensare che c'era una connessione – avrebbe potuto pensare qualsiasi cosa. Guardai la casa: c'erano due o tre finestre accese al pianoterra e la luce rosa, della camera di Daisy, al secondo piano.«Aspettami qui», dissi. «Vado a vedere se ci sono segnali di agitazione.»Tornai indietro lungo il limite del prato, attraversai la ghiaia conpasso leggero e raggiunsi la veranda. Le tende del salotto erano aperte, vidi che la stanza era vuota. Attraversando il portico, dove avevamocenato una sera di giugno tre mesi prima, giunsi in un piccolo rettangolo di luce che indovinai essere la finestra della cucina. Le persianeerano chiuse, ma trovai una piccola fessura all'altezza del davanzale.Daisy e Tom erano seduti ai due lati del tavolo della cucina conuna porzione di pollo freddo tra loro e due bottiglie di birra. Luistava parlando assortamente oltre la tavola e, nella foga, aveva poggiato la sua mano su quella di lei.Non erano felici e nessuno dei due aveva toccato il pollo o labirra – ma non erano nemmeno infelici. C'era un'inequivocabileintimità naturale in quella scena e chiunque avrebbe detto che stessero complottando qualcosa insieme.Il Grande Gatsby170Mentre m'allontanavo, in punta di piedi dal portico udii il miotaxi che provava a farsi strada lungo il viale buio verso casa. Gatsbyera in attesa dove l'avevo lasciato.«Va tutto bene, laggiù?» mi chiese ansioso.«Si, tutto tranquillo.» Esitai. «Faresti meglio a tornartene a casae andare a dormire.»Scosse il capo.«Voglio aspettare qui, finché Daisy non andrà a letto. Buonanotte, vecchio mio.»Si cacciò le mani nelle tasche della giacca e si voltò impazientea scrutare la casa, come se la mia presenza guastasse la sacralità diquella veglia. Così me ne andai e lo lasciai lì, al chiaro di luna, avigilare sul nulla.171Non riuscii a dormire per tutta la notte; una sirena da nebbiagemeva senza sosta sullo Stretto, ed io m'agitai nel dormiveglia tra una realtà grottesca e sogni cruenti e spaventosi.Verso l'alba udii un taxi risalire il viale di Gatsby e immediatamentesaltai giù dal letto e iniziai a vestirmi; sentivo di avere qualcosa dadirgli, qualcosa da cui metterlo in guardia e la mattina sarebbe statotroppo tardi.Attraversando il prato vidi che la porta principale era ancoraaperta; lui poggiava su un tavolo dell'ingresso, prostrato dall'avvilimento e dalla notte insonne.«Non è successo niente», disse con voce incolore. «Sono rimasto in attesa. Verso le quattro lei è venuta alla finestra, c'è rimastaper qualche istante quindi ha spento la luce.»La sua casa non m'era mai parsa tanto grande come quella notte, quando ne attraversammo le stanze enormi in cerca di sigarette.Scostammo di lato le tende, che erano simili a delle cortine, tastammo svariati piedi di muri scuri in cerca degli interruttori della luce;a un certo punto andai a sbattere con una sorta di tonfo sui tastidi un pianoforte spettrale. C'era una quantità incredibile di polvere, ovunque, le stanze avevano un'aria stantia, come se non fosserostate arieggiate da diversi giorni. Trovai il portasigari, con dentrodue vecchie sigarette ormai secche, su uno strano tavolo. Dopo averCapitolo OttavoIl Grande Gatsby172spalancato i balconi del salone principale, ci sedemmo a fumarenell'oscurità.«Dovresti andar via», dissi. «È molto probabile che rintraccinola tua auto.»«Andarmene ora, vecchio mio?»«Va ad Atlantic City per una settimana o su a Montreal.»Non volle neanche considerare l'ipotesi. Non poteva lasciare Daisyprima di aver saputo quali fossero le sue intenzioni. Si stava aggrappando all'ultima speranza, non me la sentivo di scuoterlo per liberarlo.Fu quella notte che mi raccontò la strana storia della sua giovinezza con Dan Cody. Me ne parlò poiché "Jay Gatsby" s'era infranto come un cristallo contro la dura malizia di Tom e quella vecchiafantasia segreta era ormai superata. Credo che avrebbe ammessoogni cosa allora, senza riserve, ma voleva parlare di Daisy.Era la prima ragazza "per bene" che avesse mai conosciuto. Insvariate e incredibili circostanze era già venuto a contatto con gentesimile, ma era sempre stato tenuto a distanza, con un impercettibilefilo spinato. La trovò incredibilmente desiderabile. Andò a casa sua,dapprima con altri ufficiali di Camp Taylor, poi da solo. Ne rimasestupefatto. Non era mai stato in una casa tanto bella prima. Maciò che donava a tutto un'intensità tanto grandiosa, era che Daisyvi abitasse. Quel contesto era naturale per lei quanto la tenda nelcampo per lui. Si trattava di un vero mistero, un sentore di camereda letto al piano superiore più belle e fresche delle altre, di una vitagioiosa e radiosa che si svolgeva in quei corridoi, di avventure romantiche non ancora ammuffite o riposte nella lavanda, ma fresche,ariose e fragranti, di lucenti automobili di quegli anni e di balli i cuifiori facevano fatica ad appassire. L'esaltava anche il fatto che moltiuomini si fossero già innamorati di Daisy: accresceva il valore di leiai suoi occhi. Ne sentiva la presenza in tutta la casa, quasi che l'ariafosse pervasa di ombre ed eco di emozioni ancora vibranti.Capitolo Ottavo173Ma sapeva di essere entrato in casa di Daisy per puro caso. Perquanto glorioso potesse essere il suo futuro come Jay Gatsby, almomento era uno squattrinato giovanotto senza passato e da unistante all'altro l'invisibile mantello dell'uniforme sarebbe potutoscivolargli dalle spalle. Così sfruttò al massimo il suo tempo. Raggiunse l'obiettivo con voracità e senza scrupoli. Alla fine si preseDaisy in una calma notte di ottobre, la prese poiché in realtà nonaveva il diritto di sfiorarle la mano.Avrebbe dovuto disprezzare se stesso, poiché l'aveva conquistata con una messinscena. Non dico che avesse millantato milioniinesistenti, ma diede a Daisy deliberatamente un senso di sicurezza;le lasciò credere di essere del suo medesimo livello sociale, perfettamente in grado di prendersi cura di lei. In realtà non aveva tuttiquei mezzi – non aveva una famiglia agiata alle spalle ed era soggetto al capriccio di un governo impersonale che avrebbe potutospedirlo ovunque in giro per il mondo.Ma non si disprezzò e le cose non andarono come s'era immaginato. Probabilmente aveva inteso prendere ciò che poteva per poiandarsene, ma ora scopriva di essersi lanciato nella conquista diun ideale. Sapeva che Daisy era straordinaria, ma non era riuscito a immaginare quanto straordinaria potesse essere una ragazza"per bene". Lei si dileguò nella sua ricca casa, nella sua ricchezza atempo pieno lasciando a Gatsby... il nulla. Lui si sentì il suo sposo,tutto qui.Quando si rividero, due giorni dopo, fu Gatsby a restare senza respiro, a sentirsi in qualche modo tradito. Il suo portico brillava dellalussuosa luce delle stelle; il vimini del sofà scricchiolò in maniera elegante mentre lei si voltava verso di lui e si lasciava baciare sulla bocca,curiosa ed adorabile. Aveva preso freddo e questo le rendeva la vocepiù roca e sensuale che mai; Gatsby era oltremodo consapevole dellagiovinezza e del mistero imprigionati e preservati dal benessere, della Il Grande Gatsby174freschezza dei tanti abiti e di Daisy splendente come l'argento, sicurae orgogliosa, al di sopra delle ribollenti lotte dei poveri.«Non so descriverti quanto fui sorpreso di scoprire che l'amavo,vecchio mio. Sperai perfino, per un po', che mi piantasse, ma nonlo fece poiché anche lei mi amava. Credeva fossi molto colto poichéconoscevo cose differenti dalle sue... Beh, ero lì, tagliato fuori dallemie ambizioni, e m'innamoravo ogni minuto sempre più profondamente e all'improvviso non me ne curai più. A che serviva faregrandi cose se mi divertivo di più raccontandole cosa avrei fatto?»L'ultimo pomeriggio, prima della partenza, sedette a lungo conDaisy tra le braccia, in silenzio. Era una fredda giornata d'autunno,con il fuoco acceso in camera e le guance di lei arrossate. Di tantoin tanto si muoveva e lui riavvolgeva un po' le braccia; d'un trattole baciò i capelli scuri e lucenti. Il pomeriggio aveva donato loro unpo' di tranquillità, come a voler imprimere un ricordo più profondo per il lungo periodo che avrebbero trascorso separati, dall'indomani. Non erano mai stati tanto vicini in quel mese d'amore, maicomunicato tanto profondamente l'uno con l'altra come quandolei gli sfiorò con le labbra la spalla della giacca o quando lui le toccòla punta delle dita, delicatamente, come per non svegliarla.Si comportò egregiamente in guerra. Era capitano prima di andare al fronte e, durante la battaglia delle Argonne, fu nominatomaggiore e assunse il comando dell'artiglieria della divisione. Dopol'armistizio fece di tutto per tornare a casa, ma alcune complicazioni, o malintesi, lo spedirono invece a Oxford. Era preoccupato ora:nelle lettere di Daisy c'era una nota di nervosa disperazione. Leinon riusciva a capire perché non tornasse. Sentiva la pressione delmondo esterno e voleva vederlo, averlo al suo fianco ed essere rassicurata che stesse facendo, dopo tutto, la cosa giusta.Perché Daisy era giovane e il suo mondo artificiale profumava diorchidee e di piacevoli, felici snobismi, di orchestre che stabilivano il Capitolo Ottavo175ritmo dell'anno, riecheggiando la tristezza e la suggestione della vitain nuove melodie. Per intere notti i sassofoni guaivano il disperatocommento al "Beale Strett Blues" mentre centinaia di scarpette d'oroe d'argento si agitavano nella polvere lucente. All'ora grigia del tèc'erano sempre sale che palpitavano incessantemente di questa lieve,dolce febbre, mentre volti freschi si trascinavano qua e là, come petali di rose soffiati sul pavimento dal suono delle tristi trombe.In questo universo crepuscolare, Daisy riprese a muoversi conla nuova stagione; ricevette subito dozzine di richieste di appuntamento da altrettanti pretendenti e riprese a tirare fino all'alba,quando crollava con la collana e lo chiffon di un abito da sera aggrovigliati tra le orchidee morenti sul pavimento di fianco al suoletto. Ma qualcosa in di lei, ormai, reclamava incessantemente unadecisione. Voleva dare forma alla sua vita, adesso, senza più indugiare – e la decisione doveva essere presa con la forza... dell'amore, dei soldi o di questioni squisitamente pratiche – e comunque aportata di mano.Tutto ciò si materializzò, a metà primavera, con l'arrivo di TomBuchanan. Aveva un aspetto sano e solido, sia nel fisico che nellaposizione, e Daisy ne rimase lusingata. Senza dubbio ci fu una certa lotta e un certo sollievo. La lettera raggiunse Gatsby mentre sitrovava ancora a Oxford.Ormai era l'alba a Long Island, così andammo ad aprire le altrefinestre al piano di sotto riempendo la casa di una luce cangiantetra il grigio e l'oro. L'ombra di un albero si abbatteva a picco sulla rugiada, mentre uccelli fantasma cominciavano a cantare tra lefoglie blu. C'era una brezza dolce nell'aria, un alito di vento cheprometteva una giornata gradevole e fresca.«Non credo l'abbia mai amato.» Gatsby si voltò da una finestra,guardandomi con aria di sfida. «Devi tener presente, vecchio mio,che lei era molto agitata ieri pomeriggio. Lui le aveva detto quel-Il Grande Gatsby176le cose terrorizzandola – m'ha fatto sembrare un imbroglione daquattro soldi. E il risultato è stato che lei a mala pena sapeva cosastava dicendo.»Si sedette scuro in volto.«Certo, potrebbe averlo amato, magari solo per qualche istante,appena sposati... e aver amato me di più anche allora, capisci?»Improvvisamente se ne uscì con una strana osservazione:«Ad ogni modo», disse, «fu soltanto una questione fisica.»Cosa c'era da aspettarsi, se non il sospetto di una smisurata intensità impiegata nel concepire una storia simile?Tornò dalla Francia mentre Tom e Daisy erano ancora in viaggiodi nozze e fece un deprimente ma inevitabile viaggio a Louisvillecon tutto ciò che gli restava dello stipendio dell'esercito. Rimase lìuna settimana, passeggiando laddove i loro passi erano risuonatiinsieme in una notte di novembre, rivisitando i luoghi più appartatiche avevano raggiunto con l'auto bianca di lei. Come la casa diDaisy gli era sembrata più misteriosa e allegra delle altre, così lasua idea della città stessa, ora che lei era andata via, appariva velatadi malinconia.Ripartì pensando che, se avesse cercato più a fondo, avrebbepotuto ritrovarla; che se la stesse lasciando alle spalle. La classeeconomica – ora era uno squattrinato – era torrida. Se ne uscì sulvestibolo e sedette su uno strapuntino mentre la stazione sfumavavia ed edifici sconosciuti gli sfilavano affianco. Poi via tra i campiprimaverili, dove un filobus giallo gareggiò con loro per un po',pieno di gente cui forse qualche volta in una strada a caso, era capitato d'imbattersi nella magia del pallido volto di lei.Il binario curvò allontanandosi dal sole che calando sembravaeffondersi in una benedizione su quella città evanescente, dove leiaveva vissuto. Tese la mano disperatamente come per afferrare unsoffio d'aria, salvare un frammento del luogo che lei aveva incantato Capitolo Ottavo177per lui. Ma tutto ormai scorreva troppo in fretta per i suoi occhi annebbiati; capiva d'aver perso per sempre la parte fresca e più bella.Erano le nove quando finimmo di fare colazione e uscimmo sulportico. Con la notte il tempo era cambiato bruscamente: ora l'ariaaveva un profumo autunnale. Il giardiniere, l'ultimo rimasto deiprecedenti domestici, venne ai piedi delle scale.«Svuoterò la piscina oggi, signor Gatsby. Le foglie cominceranno a cadere presto, e poi son sempre noie coi tubi.»«Non oggi», rispose Gatsby. Si volse verso me quasi a scusarsi.«Lo sai, vecchio mio, che non l'ho usata per tutta l'estate!?»Guardai l'orologio e mi alzai.«Dodici minuti al mio treno.»Non volevo andare in città. Non sarei stato in grado di fare unlavoro decente, ma c'era dell'altro: non volevo lasciare Gatsby. Persi quel treno, e poi un altro, prima che riuscissi ad andarmene.«Ti chiamerò», dissi alla fine.«Ci conto, vecchio mio.»«Ti chiamerò vero mezzogiorno.»Scendemmo lentamente i graditi.«Suppongo che anche Daisy chiamerà.» Mi guardò con ansia,quasi sperasse che fossi dello stesso parere.«Lo suppongo anch'io.»«Beh... arrivederci.»Ci stringemmo la mano e me ne andai. Appena prima di raggiungere la siepe mi ricordai di qualcosa e mi voltai.«Sono tutti marci», gridai oltre il prato. «Tu vali più tutti loromessi insieme.»Sono stato sempre felice di averlo detto. Fu l'unico complimentoche gli abbia mai fatto, poiché disapprovavo tutto di lui. In un primomomento annuì educatamente, poi il suo viso s'aprì in un sorriso radioso e comprensivo, quasi fossimo stati da sempre in piacevole combutta Il Grande Gatsby178al riguardo. Il suo meraviglioso completo rosa creava una macchia vivadi colore sulle scale bianche; mi tornò in mente la sera in cui, per laprima volta, avevo messo piede in quella casa avita, tre mesi prima. Ilprato e il viale erano affollati dai volti di coloro che tiravano ad indovinare il grado della sua corruzione e lui era rimasto ritto su quelle scale,celando il suo sogno incorruttibile e rivolgendo loro dei cenni di saluto.Lo ringraziai per l'ospitalità. Gliene eravamo sempre grati – ioe gli altri.«Arrivederci», dissi. «Ho gradito molto la colazione, Gatsby.»Giunto in città provai per un po' a inserire in listino le quotazione di un'interminabile quantità di azioni, poi m'addormentai sullamia sedia girevole. Appena prima di mezzogiorno fui svegliato daltelefono e sussultai col sudore che m'imperlava la fronte. Era JordanBaker; spesso mi chiamava a quell'ora poiché i suoi imprevedibilispostamenti tra hotel, club e case private, rendevano difficile rintracciarla in qualsiasi altro modo. Generalmente la sua voce giungevaattraverso il filo come qualcosa di dolce e fresco, quasi come se unazolla di un verde campo da golf fosse giunta navigando alla finestradell'ufficio, ma quella mattina sembrò dura e asciutta.«Ho lasciato la casa di Daisy», disse. «Sono a Hempstead e andrò giù a Southampton questo pomeriggio.»Probabilmente era una questione di tatto l'aver lasciato la casadi Daisy, ma il fatto mi seccò e la successiva osservazione m'irrigidì.«Non sei stato tanto carino con me, la scorsa notte.»«Come avrei potuto esserlo?»Silenzio per un momento. Poi...«Ad ogni modo... voglio incontrarti.»«Anch'io lo voglio.»«E se non andassi a Southampton e venissi in città, oggi pomeriggio?»«No... oggi non credo sia il caso.»Capitolo Ottavo179«Molto bene.»«È impossibile oggi pomeriggio. Vari...»Proseguimmo così per un po' e poi, improvvisamente, non parlavamo più. Non so chi di noi riagganciò con un colpo secco, maso che non me ne curai. Quel giorno non avrei mai potuto parlarleseduto a un tavolino da tè, anche se fosse stata l'ultima occasione.Chiamai casa di Gatsby pochi minuti dopo, ma la linea era occupata. Provai ancora per quattro volte; alla fine, la centralinista,esasperata, mi disse che la linea doveva essere lasciata libera per unchiamata interurbana da Detroit. Presi il mio orario dei treni e disegnai un piccolo cerchio attorno a quello delle tre e cinquanta. Poimi sdraiai sulla sedia cercando di pensare. Era appena mezzogiorno.Quel giorno, quando il treno si affiancò ai cumuli di cenere, mispostai di proposito sull'altro lato della carrozza. Immaginai che cipotessero essere dei curiosi accalcati tutto il giorno, coi bambini allaricerca di macchie scure nella polvere e qualche chiacchierone cheripeteva all'infinito l'accaduto, finché il tutto non diventava sempremeno reale persino per lui, al punto da non consentirgli più di raccontare oltre, e la tragica fine di Myrtle Wilson sarebbe stata dimenticata. Ora vorrei tornare un po' indietro e raccontare cosa successeal garage dopo che ce ne fummo andati, la notte prima.Ebbero difficoltà a rintracciare la sorella, Catherine. Dovevaaver trasgredito alla sua regola di non bere, quella notte, poiché,quando arrivò era intontita dall'alcool e incapace di comprendereche l'ambulanza era già partita per Flushing. Quando la convinsero, immediatamente svenne come se quella fosse la parte più intollerabile della faccenda. Qualcuno, gentile o curioso, la caricò sullasua auto e la portò alla veglia del cadavere della sorella.Fin dopo mezzanotte, una folla cangiante lambì l'ingresso dell'officina mentre George Wilson si dondolava sul divano all'interno. Perun po' la porta dell'ufficio rimase aperta e chiunque entrava nell'of-Il Grande Gatsby180ficina non riusciva a trattenersi dal lanciare un'occhiata. Alla finequalcuno disse che era una vergogna e la chiuse. Michaelis e alcunialtri uomini rimasero con lui - all'inizio quattro o cinque persone,poi due o tre. Più tardi ancora Michaelis dové chiedere all'ultimosconosciuto di aspettare lì cinque minuti mentre lui andava al suolocale per preparare un bricco di caffè. Dopodiché rimase lì da solocon Wilson fino all'alba.Verso le tre il lamento incoerente di Wilson subì un cambiamento: si calmò e cominciò a parlare dell'auto gialla. Annunciò chec'era un modo per sapere a chi appartenesse e poi si lasciò scappareche un paio di mesi prima sua moglie era tornata dalla città con lafaccia pesta e il naso gonfio.Ma quando sentì se stesso dire queste cose, si ritrasse e presenuovamente a gridare "Oh, mio Dio!" con la sua voce lamentosa.Michaelis fece un maldestro tentativo per distrarlo.«Da quanto eri sposato, George? Vieni qui, prova a sederti unistante e rispondi alla mia domanda. Da quanto eri sposato?»«Dodici anni.»«Non hai mai avuto figli? Vieni qui George, siediti ancora – tiho fatto una domanda. Hai mai avuto figli?»I coleotteri marrone scuro battevano contro la luce fioca e ognivolta che Michaelis sentiva un'auto correre lungo la strada là fuori,aveva l'impressione che fosse l'auto che non s'era fermata poche oreprima. Non gli faceva piacere andare nell'officina poiché il banco dalavoro era macchiato laddove era stato steso il cadavere, così si aggirava a disagio per l'ufficio – ne conobbe ciascun oggetto prima chefosse giorno – e di tanto in tanto sedeva di fianco a Wilson e provavaa calmarlo un po'.«C'è qualche chiesa dove vai ogni tanto George? Anche se nonci vai da molto? Potrei chiamare in chiesa e chiedere al prete divenire, potrebbe parlarti, capisci?»Capitolo Ottavo181«Non vado in chiesa.»«Dovresti avere una chiesa, George, per momenti come questo.Dovrai pur essere stato in chiesa qualche volta. Non ti sei sposatoin chiesa? Ascolta, George, ascoltami. Non ti sei sposato in unachiesa?»«È successo tanto tempo fa.»Lo sforzo per rispondere rompeva il ritmo del suo dondolio –per qualche istante restava in silenzio. Poi la stessa incoscienza,quell'aria confusa, tornava nei suoi occhi annebbiati.«Guarda nel cassetto lì», disse indicando la scrivania.«Quale cassetto?»«Il cassetto... ce n'è uno là.»Michaelis aprì il cassetto più vicino alla sua mano. Non c'eranull'altro che un guinzaglio per cani piuttosto costoso fatto di pellecon ornamenti in argento. Sembrava nuovo.«Questo?» chiese, alzandolo.Wilson lo fissò e annuì.«L'ho trovato ieri pomeriggio. Lei provò a darmi qualche spiegazione, ma sapevo che c'era dietro qualcosa di strano.»«Pensi che l'abbia comprato tua moglie?»«Lo teneva incartato nel suo comodino.»Michaelis non ci vide nulla di strano e diede a Wilson una dozzina di ragioni sul perché sua moglie avrebbe potuto aver compratoil guinzaglio. Ma decisamente Wilson doveva aver sentito altre volte quel genere di chiarimenti da Myrtle poiché riprese a sussurrare«Oh, mio Dio!», di nuovo in un bisbiglio – il suo consolatore lasciòle altre spiegazioni nell'aria.«Poi l'ha uccisa», disse Wilson. La sua bocca si spalancò all'improvviso.«Chi è stato?»«Ho un modo per saperlo.»Il Grande Gatsby182«Tu stai male, George», disse il suo amico. «È stato un durocolpo per te e non sai quel che dici. Sarebbe meglio che provassi asederti e te ne stessi quieto fino a domattina.»«L'ha massacrata.»«È stato un incidente, George.»Wilson scosse il capo. I suoi occhi si strinsero e la bocca si aprì leggermente in un accenno di "Hm!", espresso con aria di superiorità.«Lo so», disse infine «sono un credulone e non penso male dinessuno, ma quando so una cosa, la so. È stato l'uomo di quell'auto. Lei è corsa fuori per parlargli e lui non s'è voluto fermare.»Anche Michaelis aveva visto la stessa scena, ma non aveva datoun significato particolare ad essa. Credeva che la signora Wilsonstesse scappando da suo marito, non che stesse provando a fermareun'auto in particolare.«Come avrebbe potuto essere così?»«Lei era un demonio», disse Wilson, come se questa fosse larisposta alla domanda. «Ah-h-h...»Riprese a dondolarsi di nuovo e Michaelis restò in piedi, torcendo il guinzaglio tra le mani.«Forse hai qualche amico che posso chiamare, George?»Questa era una speranza disperata – era quasi certo che Wilsonnon avesse amici: sua moglie l'aveva assorbito completamente. Fufelice, poco dopo, quando notò un cambiamento nella stanza: unpo' di blu s'andava ravvivando alla finestra. Realizzò che l'alba nonera lontana. Verso le cinque fuori fu azzurro a sufficienza per spegnere la luce.Gli occhi sbarrati di Wilson si voltarono sui cumuli di ceneredove delle piccole nuvole grigie assumevano forme fantastiche spostandosi qua e là nel debole venticello dell'alba.«Le ho parlato», mormorò dopo un lungo silenzio. «Le ho dettoche poteva imbrogliare me, ma non Dio. La portai alla finestra...» Capitolo Ottavo183con uno sforzo si alzò e raggiunse la finestra sul retro poggiandocicontro la faccia «...e dissi 'Dio sa cosa hai fatto, qualsiasi cosa tuabbia fatto. Puoi prenderti gioco di me, non di Dio!'»In piedi, dietro di lui, Michaelis rimase scioccato nel constatare che stesse fissando gli occhi del dottor T.J. Eckleburg appenaemerso, pallido ed enorme, dalle tenebre che si dissolvevano.«Dio vede tutto», ripeté Wilson.«Quella è una pubblicità», lo rassicurò Michaelis. Qualcosa lofece voltare dalla finestra e guardare indietro nella stanza. Ma Wilson rimase lì a lungo, la faccia pressata contro la lastra di vetro,annuendo nel crepuscolo.Alle sei Michaelis era esausto e fu grato per il rumore di un'autoche si fermò all'esterno. Era uno dei testimoni della notte primache aveva promesso di tornare, così preparò la colazione per tre elui e l'altro la mangiarono assieme. Wilson era più calmo adesso eMichaelis se ne andò a dormire; quando si risvegliò, quattro ore piùtardi, corse all'officina, ma Wilson era andato via.I suoi movimenti – si mosse a piedi per tutto il tempo – successivamente furono tracciati prima a Port Roosevelt e poi a Gad'sHill, dove comprò un sandwich che non mangiò e una tazza dicaffè. Doveva essere stanco e camminare lentamente, perché nonraggiunse Gad's Hill prima di mezzogiorno. Fino a quel punto nonc'erano stati problemi a spiegare come avesse impiegato il suo tempo: c'erano ragazzi che avevano visto un uomo 'muoversi come unpazzo' e degli automobilisti ai quali aveva lanciato sguardi stranidal bordo della strada. Poi per tre ore scomparve dalla vista. La polizia, in base a ciò che riferì Michaelis, cioè che "aveva un modo perscoprire la verità", suppose che avesse trascorso quel tempo girando di officina in officina nei dintorni, chiedendo dell'auto gialla.D'altra parte non venne mai fuori un solo meccanico che l'avessevisto – e forse aveva un modo più semplice e sicuro per conoscere Il Grande Gatsby184ciò che voleva sapere. Verso le due e mezzo era a West Egg, dovechiese a qualcuno la strada per casa di Gatsby. Quindi, a quel punto, conosceva il suo nome.Alle due Gatsby indossò il suo costume da bagno e lasciò detto almaggiordomo che se qualcuno l'avesse cercato al telefono, l'ordine eradi raggiungerlo in piscina. Si fermò in garage per prendere un materassino gonfiabile che aveva divertito i suoi ospiti durante l'estate e lochauffeur gli diede una mano a gonfiarlo. Poi diede istruzioni sull'autoaperta: non doveva essere tirata fuori in nessun caso – e questo sembròstrano poiché il parafango anteriore destro necessitava di riparazioni.Si mise in spalla il materassino e s'avviò verso la piscina. A uncerto punto si fermò scivolando leggermente, lo chauffeur gli chiesese avesse bisogno di aiuto, ma lui scosse il capo e un istante doposcomparve tra gli alberi che cominciavano ad ingiallire.Non giunse alcun messaggio telefonico, ma il maggiordomo rinunciò al suo pisolino e attese fino alle quattro - quando ormai datempo non c'era più nessuno a cui recapitarlo, nel caso fosse giunto. Ho idea che lo stesso Gatsby non credesse che sarebbe giuntoe forse non se ne preoccupò a lungo. Se ciò fosse vero, lui dovevaaver compreso di aver perduto il calore del vecchio mondo pagando un prezzo troppo alto per aver vissuto tanto a lungo con un solosogno. Doveva aver guardato su verso un cielo strano attraversofoglie spaventevoli e rabbrividito nel costatare quanto potesse essere grottesca una rosa e quanto cruda fosse la luce del sole sull'erba che germoglia. Un nuovo mondo, materiale senza essere reale,dove poveri fantasmi che respiravano sogni come aria, vagavanosenza meta... come quella figura cinerea, fantastica, che scivolavaverso lui attraverso alberi informi.Lo chauffeur – era uno dei protetti di Wolfshiem – udì gli spari.In seguito poté solo dire che non ci aveva prestato più di tantoattenzione. Capitolo Ottavo185Dalla stazione andai direttamente in auto verso casa di Gatsby ela mia fretta ansiosa nel salire le scale fu il primo segnale d'allarmeper qualcuno. Sapevano già, ne sono fermamente convinto. Quasisenza scambiare una parola, noi quattro: lo chauffeur, il maggiordomo, il giardiniere ed io, corremmo giù alla piscina.C'era un debole movimento dell'acqua, appena percettibile, ilflusso fresco di un lato che si faceva strada impaziente verso lo scarico all'altra estremità. Con piccole increspature, lontani ricordi dionde, il materassino, col suo carico si muoveva a caso nella piscina.Un soffio di vento, che a mala pena pizzicava la superficie dell'acqua, era sufficiente a condizionare la sua rotta accidentale, col suofardello accidentale. Un grumo di foglie lo sfiorò facendolo girarelentamente tracciando, come la punta di un compasso, un sottilecerchio rosso nell'acqua.Fu dopo che ci fummo incamminati col corpo di Gatsby versocasa, che il giardiniere vide il cadavere di Wilson poco distantenell'erba e l'olocausto fu completo.A distanza di due anni ricordo il seguito di quella giornata, dellanotte e del giorno successivi, come un estenuante martellamentodi polizia, fotografi e giornalisti, che si avvicendavano senza sostain casa di Gatsby. Fu tesa una fune all'ingresso principale ed unpoliziotto l'utilizzava come limite per i curiosi, ma i ragazzini scoprirono presto che potevano entrare passando dal mio cortile e cen'era sempre un gruppetto a bocca aperta nei pressi della piscina.Qualcuno con modi decisi, forse un detective, usò l'espressione"matto" mentre si curvava sul cadavere di Wilson nel pomeriggio,e l'avventizia autorità della sua voce diede lo spunto per gli articolidei giornali del giorno dopo.187La maggior parte di quegli articoli era un incubo: circostanziali, avidi e falsi. Quando la testimonianza di Michaelis,nell'inchiesta, mise in luce i sospetti di Wilson sulla moglie,pensai che l'intera vicenda sarebbe stata servita presto in una scabrosa pasquinata – ma Catherine, che avrebbe potuto dire qualcosaa riguardo – non dichiarò nulla. Mostrò un carattere deciso; guardò il medico legale con occhi determinati sotto quelle sua cigliaridisegnate e asserì che la sorella non aveva mai visto Gatsby, cheera completamente soddisfatta del marito e non s'era mai concessaalcuna evasione. Si convinse di ciò e pianse nel suo fazzoletto, quasinon riuscisse a sopportarne neanche il sospetto. Così Wilson furidotto a "uomo distrutto dal dolore" di modo che il caso potesserestare nella sua forma più semplice. E così fu.Ma tutto ciò apparve remoto e superfluo. Mi ritrovai dalla partedi Gatsby, da solo. Dal momento che diramai per telefono la notizia della tragedia al villaggio di West Egg, qualsiasi congettura su dilui, come anche tutte le questioni pratiche, furono indirizzate a me.All'inizio ne fui sorpreso e confuso; poi vedendolo disteso in casaimmobile senza che respirasse o parlasse, ora dopo ora, crebbe inme la consapevolezza di esserne responsabile poiché nessun altrose ne interessava – intendo quell'interesse profondo e personale cuiciascuno ha un vago diritto, alla fine.Capitolo NonoIl Grande Gatsby188Chiamai Daisy mezz'ora dopo che l'avevamo trovato, le telefonai istintivamente e senza esitazione. Ma lei e Tom erano partitipresto quel pomeriggio portando dei bagagli con loro.«Hanno lasciato un indirizzo?»«No.»«Hanno detto quando sarebbero tornati?»«No.»«Ha qualche idea di dove possano essere? O di come possa raggiungerli?»«Non so. Non saprei dirle.»Volevo far venire qualcuno per lui. Volevo andare nella stanzadove giaceva e rassicurarlo: "Ti porterò qualcuno, Gatsby. Sta tranquillo. Abbi fiducia in me e io ti porterò qualcuno...»Il nome di Meyer Wolfshiem non era sull'elenco del telefono. Ilmaggiordomo mi diede l'indirizzo del suo studio a Broadway e io mirivolsi all'ufficio informazioni, ma prima che riuscissi ad avere il numero erano passate da un pezzo le cinque e nessuno rispose al telefono.«Potrebbe provare ancora?»«Ho chiamato già tre volte.»«È davvero importante.»«Mi dispiace. Ma temo non ci sia nessuno.»Tornai nel salone e pensai per un istante che tutti loro fosserodei visitatori occasionali, tutti quei burocrati che improvvisamentevi si affollavano. Eppure, mentre tiravano via il lenzuolo e guardavano Gatsby con occhi turbati, la sua protesta continuava nel miocervello."Guarda, vecchio mio, devi fare in modo di far venire qualcuno.Devi impegnarti di più. Non posso affrontare tutto questo da solo."Qualcuno iniziò a farmi delle domande, ma io svicolai salendomene al piano di sopra a controllare in gran fretta i cassetti dellasua scrivania non chiusi a chiave – non m'aveva mai detto aperta-Capitolo Nono189mente che i suoi genitori fossero morti. Non c'era nulla – soltantola foto di Dan Cody, simbolo di una violenza dimenticata, che mifissava dalla parete.La mattina seguente mandai il maggiordomo a New York conuna lettera per Wolfshiem nella quale chiedevo informazioni e loesortavo a raggiungermi col primo treno. La richiesta sembravasuperflua quando la scrissi. Ero sicuro che sarebbe partito nonappena visti i giornali, come ero sicuro che sarebbe arrivato untelegramma di Daisy prima di mezzogiorno – ma non arrivarononé il telegramma, né Wolfshiem; non venne nessuno ad eccezionedi altri poliziotti, fotografi e giornalisti. Quando il maggiordomomi consegnò la risposta di Wolfshiem, cominciai a provare unsenso di sfida, una sdegnosa solidarietà tra Gatsby e me controtutti loro.Caro signor Carraway. È stato uno dei più terribili shockdella mia vita, ancora non riesco a credere che sia tutto vero.Questo gesto inconsulto, compiuto da un folle, dovrebbe farciriflettere tutti. Non mi riesce di venire subito poiché sono molto impegnato in un affare di enorme importanza e non possocompromettermi in questa faccenda per ora. Se c'è una qualsiasi cosa che possa fare per lei, me lo comunichi a stretto girocon una lettera tramite Edgar. Non può immaginare come misenta nell'apprendere una notizia simile. Sono completamenteabbattuto e fuori di me.Sinceramente suo,Meyer WolfshiemSeguiva una veloce aggiunta:Mi faccia sapere del funerale ecc. Non conosco affattola famiglia.Il Grande Gatsby190Quando il telefono squillò quel pomeriggio e mi fu annunciataun'interurbana da Chicago, pensai che fosse Daisy finalmente. Mala linea rivelò la voce di uomo, molto debole e lontana:«È Slagle che parla...»«Si?» il nome non mi era noto.«Un bel guaio, non credi? Hai ricevuto il mio telegramma?»«Non è arrivato nessun telegramma.»«Il giovane Parker è nei guai», disse rapidamente. «L'hannopizzicato mentre vendeva azioni fuori borsa. Avevano ricevutouna circolare da New York con i numeri appena cinque minutiprima. Ne sai niente, tu? In queste città di provincia non si samai...»«Pronto!» Lo interruppi mentre riprendeva fiato. «Ascolti...non sono Gatsby. Il signor Gatsby è morto.»Ci fu un lungo silenzio dall'altro lato del cavo seguito da un'imprecazione... poi un colpo secco e la linea fu interrotta.Credo che fosse il terzo giorno, quando da una città del Minnesota giunse un telegramma a firma di Henry C. Gatz. Diceva soltanto che il mittente sarebbe partito immediatamente e di rimandare ifunerali al suo arrivo.Era il padre di Gatsby, un anziano dall'aria grave, molto debole e sgomento, avvolto in un lungo cappotto a buon mercato chelo proteggeva dal caldo di quel giorno di settembre. I suoi occhicolavano in continuazione per l'agitazione e quando gli presi la valigia e l'ombrello di mano cominciò a tirarsi così compulsivamentela rada barba grigia che ebbi difficoltà a fargli togliere la giacca.Era sull'orlo di un collasso, così lo condussi nella sala da musica emi assicurai che sedesse mentre mandavo a chiedere qualcosa damangiare. Non volle mangiare e con mani tremanti fece tracimarequalche goccia di latte dal bicchiere.Capitolo Nono191«L'ho letto sul giornale di Chicago», disse. «C'era tutto sul giornale di Chicago. Sono partito subito.»«Non sapevo come raggiungerla.»I suoi occhi, senza fissarsi su nulla, continuavano muoversi ingiro per la stanza.«È stato un folle», disse. «Deve essere stato un folle.»«Non prenderebbe un po' di caffè?» gli suggerii.«Non voglio nulla. Sto bene ora, signor...»«Carraway.»«Be', ora sto bene. Dove hanno portato Jimmy?»Lo condussi nel salone dove giaceva suo figlio e lo lasciai lì.Alcuni ragazzini erano saliti su per la scala e stavano sbirciandonell'ingresso; quando comunicai loro chi era arrivato se ne andarono via a malincuore.Dopo un po' il signor Gatz aprì la porta e venne fuori, la boccasocchiusa, il volto leggermente arrossato, gli occhi che lasciavanoandare qualche timida lacrima isolata. Aveva raggiunto un'età nellaquale la morte non rappresenta più una terribile sorpresa e quandonel guardarsi attorno, ora per la prima volta, osservò l'altezza e losplendore dell'atrio e i grandiosi saloni che vi si affacciavano e aloro volta si aprivano in altre stanze, la sua pena cominciò a mescolarsi ad un orgoglio reverenziale. L'aiutai a raggiungere una stanzada letto al piano di sopra; mentre si sfilava la giacca e i vestiti glidissi che tutte le disposizioni erano state rimandate al suo arrivo.«Non sapevo cosa volesse fare, signor Gatsby...»«Il mio nome è Gatz.»«...signor Gatz. Pensavo che forse avrebbe voluto riportalo nelWest.»Scosse il capo.«Jimmy ha sempre preferito l'Est. Ha raggiunto la sua posizionenell'Est. Era un amico del mio ragazzo, signor...?»Il Grande Gatsby192«Eravamo grandi amici.»«Aveva un grande futuro davanti, lo sa. Era solo un giovanotto,ma aveva una gran testa.»Si toccò il capo con decisione e io annuii.«Se fosse vissuto sarebbe diventato un grande uomo. Uno comeJames J. Hill. Avrebbe dato una mano a tirar su il paese.»«È vero», dissi un po' a disagio.Tastò il copriletto ricamato, provando a tirarlo via dal letto, e sisdraiò tutto rigido. S'addormentò immediatamente.Quella notte telefonò una persona evidentemente impauritachiedendo di sapere chi fossi prima di rivelare il proprio nome.«Le parla il signor Carraway», dissi.«Oh...», parve sollevato. «Sono Klipspringer.»Anch'io ne fui sollevato poiché sembrava potesse esserciun altro amico sulla tomba di Gatsby. Non volevo che la notizia comparisse sui giornali attirando una folla di visitatoricosì avevo invitato io stesso poche persone. Trovarle era statodifficile.«Il funerale sarà domani» dissi. «Alle tre, qui a casa. Mi auguroche lei lo comunichi a chiunque possa essere interessato.»«Oh, certo», m'interruppe bruscamente. «Certo è un po' difficile che incontri qualcuno, ma se capita, lo farò senz'altro.»Il suo tono m'insospettì.«Ovviamente lei sarà presente.»«Beh, di sicuro ci proverò. Il motivo per cui ho chiamato...»«Aspetti un momento», lo interruppi. «Per quale motivo nondice che verrà?»«Beh, il fatto è... la vera ragione è che mi trovo con alcune persone su a Greenwich e si aspettano che io rimanga con loro domani.In effetti c'è una sorta di pic-nic o qualcosa del genere. Ovviamentefarò del mio meglio per venir via.»Capitolo Nono193Non riuscii a trattenere un "Huh!", e lui dové sentirmi, poichéproseguì nervoso: «la ragione per cui ho chiamato è per un paiodi scarpe che ho lasciato lì. Mi domandavo se non fosse di troppodisturbo chiedere al maggiordomo di inviarmele. Sa, si tratta discarpe da tennis, mi sento perduto senza. Il mio indirizzo è pressoB. F....»Non sentii il resto del nome, poiché riagganciai il ricevitore.Dopo questa conversazione provai un certa vergogna per Gatsby – un gentiluomo al quale avevo telefonato mi lasciò intendereche aveva avuto ciò che si meritava. Tuttavia, e questa fu una miacolpa, si trattava di uno di coloro che si schernivano più aspramente di Gatsby prendendo coraggio dal suo alcool e io avrei dovutosaperlo, prima di chiamare.La mattina del funerale andai a New York per incontrare MeyerWolfshiem; non m'era riuscito di raggiungerlo in nessun altro modo.La porta che aprii, su consiglio del ragazzo dell'ascensore, aveva unatarghetta con su scritto "The Swastika Holding Company"; in un primo momento sembrava non ci fosse nessuno all'interno. Ma quandoebbi gridato "Buongiorno" per varie volte invano, d'un tratto scoppiòuna discussione dietro un divisorio e subito dopo da una porta interna apparve un'adorabile ebrea che mi scrutò con occhi neri e ostili.«Non c'è nessuno», disse. «Il signor Wolfshiem è andato a Chicago.»La prima parte dell'affermazione era evidentemente falsa poichéqualcuno piuttosto stonato aveva cominciato a fischiettare "TheRosary", all'interno.«Per cortesia, gli dica che il signor Carraway vuole vederlo.»«Non posso mica riportarlo indietro da Chicago, non crede?»In quel momento una voce, indiscutibilmente quella di Wolfshiem, chiamò «Stella!» dall'altro lato della porta.«Mi lasci il suo nome sul tavolo», disse velocemente. «Glielo consegnerò quando tornerà.»Il Grande Gatsby194«Ma io so che è qui.»Mosse un passo verso di me e cominciò a far scorrere le maniindignata su e giù lungo i fianchi.«Voi giovanotti credete di poter entrare qui con la forza quandovi pare» mi rimproverò. «Ne abbiamo fin sopra i capelli. Se dicoche è a Chicago, è a Chi-CA-go.»Accennai a Gatsby.«Oh...h!» Mi guardò nuovamente. «Soltanto un istante... qualè il suo nome?»Scomparve. Un istante dopo Meyer Wolfshiem era ritto nel vanodella porta e mi tendeva entrambe le mani. Mi condusse nel suo ufficio sottolineando con voce riverente che era davvero un momentotriste per tutti noi e m'offrì un sigaro.«La mia memoria corre indietro a quando lo incontrai per la prima volta», disse. «Un giovane maggiore, appena congedato dall'esercito e ricoperto di medaglie ottenute durante la guerra. Se la passava così male che doveva continuare a vestire l'uniforme poichénon aveva i mezzi per comprarsi degli abiti civili. La prima volta chelo vidi fu quando entrò nella sala da gioco Winebrenner sulla Quarantreesima Strada chiedendo un lavoro. Non mangiava da un paiodi giorni. 'Vieni, su, mangiamo qualcosa assieme', gli dissi. Mangiòl'equivalente di più di quattro dollari in meno di mezz'ora.»«L'avviò lei negli affari?» chiesi.«Avviarlo! Sono io ad averlo fatto.»«Oh.»«L'ho tirato su dal nulla, l'ho tolto da mezzo alla strada. Notaisubito che aveva un bell'aspetto da giovane gentiluomo e quandomi disse che era un Oggsfordiano capii che faceva al caso mio. Glioffrii la possibilità di entrare nella Legione Americana dove riuscì asalire molto in alto. Subito mi rese un lavoretto per un mio clientesu ad Albany. Eravamo proprio così in ogni cosa...», alzò ed avvitò Capitolo Nono195due dita nodose «...sempre insieme.»Mi domandai se la loro collaborazione avesse incluso anche latransazione delle World's Series del 1919.«Ora è morto», dissi dopo un momento. «Lei era il suo miglioreamico, per questo so che verrà al suo funerale oggi pomeriggio.»«Mi farebbe piacere venire.»«Beh, allora lo faccia.»I peli delle sue narici vibrarono leggermente mentre scuoteva ilcapo e gli occhi gli si riempivano di lacrime.«Non posso... Non posso compromettermi in questa faccenda», disse.«Non c'è nulla di compromettente. Ora è tutto finito.»«Quando un uomo viene ucciso, non mi piace immischiarmi innessun modo. Me ne tengo fuori. Quando ero giovane era diverso:se un mio amico moriva, non importa come, restavo con lui finoalla fine. Potrà pensare che ciò sia sentimentale, ma io la pensavocosì: proprio fino alla fine.»Capii che per qualche suo motivo era determinato a non venire,così mi alzai.«È stato al college?» chiese improvvisamente.Per qualche istante pensai che stesse per propormi un "affare",ma si limitò ad annuire e a stringermi la mano.«Impariamo a dimostrare la nostra amicizia per qualcuno quando questi è in vita e non dopo che è morto», propose. «Dopodiché,la mia regola è quella di far tutto da solo.»Quando lasciai il suo ufficio, il cielo era diventato scuro; tornaia West Egg sotto una pioggerellina fine. Dopo essermi cambiatod'abito, mi recai alla casa affianco e trovai il signor Gatz che camminava avanti e indietro tutto agitato nell'ingresso. Il suo orgoglioper il figlio e per le sue ricchezze continuava a crescere e ora avevaqualcosa da mostrarmi.Il Grande Gatsby196«Jimmy m'inviò questa fotografia.» Tirò fuori il portafogli condita tremanti. «Guardi qui.»Era una fotografia della casa, rovinata negli angoli e unta da molte mani. Mi fece notare ogni dettaglio impaziente. «Guardi qui!» ecercava l'ammirazione nei miei occhi. Doveva averla mostrata cosìtante volte che credo per lui fosse più reale della casa stessa.«Me l'aveva mandata Jimmy. Credo si tratti di una bella foto. Sivede tutto molto bene.»«Davvero bene. Vi eravate visti ultimamente?»«Venne a trovarmi due anni fa e mi comprò la casa dove vivoadesso. Certo quando se ne scappò di casa ce la passavamo davvero male, ma ora capisco che aveva ragione. Sapeva di avere ungrande avvenire davanti. E quando ebbe successo fu molto generoso con me.»Sembrava riluttante a metter via la foto e la tenne ancora per unminuto davanti ai miei occhi esitando. Poi la ripose nel portafogli etirò fuori dalla tasca una vecchia copia ormai logora di un libro daltitolo "Hopalong Cassidy."«Guardi, questo è un suo libro di quand'era ragazzo. Le chiariràtante cose.»L'aprì dalla copertina posteriore e lo voltò per farmi vedere. Sulrisguardo c'era stampata la parola Programma e la data del 12 settembre 1906. E al di sotto:Sveglia al mattino: 6.00 A.M.Esercizi con i pesi e scalata parete: 6.15-6.30 A.M.Studio elettricità, etc.: 7.15-8.15 A.M.Lavoro: 8.30-4.30 P.M.Baseball e sport: 4.30-5.00 P.M.Esercizi di dizione, padronanza di sé e determinazione: 5.00-6.00 P.M.Studi per invenzioni necessarie: 7.00-9.00 P.M.Capitolo Nono197Propositi GeneraliNon perdere tempo da Shafter o (nome indecifrabile)Non fumare più o masticare tabaccoBagno un giorno si e uno noLeggere un libro o una rivista istruttivi a settimanaRisparmiare $ 5.00 (cancellato) $ 3.00 a settimanaComportarsi meglio coi genitori«Mi sono imbattuto in questo libro per caso», disse il vecchio.«Aiuta a capire tante cose, non crede?»«Chiarisce tanti aspetti.»«Jimmy era destinato a fare carriera. Aveva sempre dei propositicome questi o qualcosa del genere. Si è accorto di come ci tenevaad aprire sempre più la sua mente? È stato un grande su questo.Una volta mi disse che mangiavo come un maiale e io lo picchiai.»Era riluttante a chiudere il libro: leggeva ciascuna riga ad altavoce e poi mi guardava con ansia. Credo si aspettasse che mi ricopiassi quella lista per farne buon uso.Poco prima delle tre arrivò da Flushing il pastore luterano eio cominciai a guardare involontariamente fuori dalle finestre pervedere se giungevano altre auto. Così fece anche il padre di Gatsby.Mentre il tempo continuava a scorrere e i domestici sopraggiuntiattendevano nell'atrio, il vecchio cominciò a sbattere le ciglia conansia e a parlare della pioggia con una vaga preoccupazione. Il pastore lanciò più volte un'occhiata al suo orologio così lo presi daparte e gli chiesi di aspettare una mezz'ora. Fu del tutto inutile.Non venne nessuno.Alle cinque la nostra processione, di tre auto, raggiunse il cimitero fermandosi al cancello in una fitta pioggerellina: prima ilcarro funebre, orribilmente nero e bagnato, poi il signor Gatz, ilpastore ed io nella limousine e, a breve distanza, quattro o cinque Il Grande Gatsby198domestici col postino di West Egg nella station-wagon di Gatsby, tutticompletamente bagnati. Mentre oltrepassavamo il cancello del cimitero udii un'auto fermarsi e poi il rumore dei passi di qualcuno checi seguiva tra gli schizzi nel terreno fradicio. Mi guardai attorno. Eral'uomo dagli occhi di gufo che avevo trovato, una sera di tre mesi prima, nella biblioteca di Gatsby a contemplare meravigliato i suoi libri.Non l'avevo più rivisto da allora. Non ho idea di come avessesaputo del funerale né quale fosse il suo nome. La pioggia gli colava dagli occhiali spessi e quando tolsero la tela di protezione dallatomba di Gatsby, li prese per ripulirli e poter vedere.Provai a pensare a Gatsby per qualche istante ma era ormaitroppo lontano e riuscii soltanto a richiamare alla mente senza alcun risentimento il fatto che Daisy non avesse inviato né un messaggio né un fiore. Udii confusamente qualcuno mormorare «Beatii morti bagnati dalla pioggia» e poi l'uomo dagli occhi di gufo disse«Amen» con voce impavida.Ci dileguammo veloci sotto la pioggia verso le auto. Occhi digufo mi parlò dal cancello.«Non sono riuscito a venire a casa» osservò.«Nessuno ci è riuscito.»«Andiamo!» Sussultò. «Mah, Dio mio! Erano soliti andarci acentinaia.»Si tolse gli occhiali e li ripulì nuovamente, sia dentro che fuori.«Povero figlio di puttana» disse.Uno dei miei ricordi più vividi è il ritorno nel West a Natale,al tempo dei corsi preparatorii e più tardi del college. Coloro cheproseguivano oltre Chicago si riunivano nella vecchia e semibuia Union Station alle sei di una sera di dicembre con pochi amicidi Chicago, già animati dalla gaiezza delle vacanze, per dar loroun frettoloso saluto. Ricordo le pellicce delle ragazze di ritorno da Capitolo Nono199Miss Questo o Quello, le chiacchiere col fiato gelato, le mani chesi agitavano in alto quando si scorgeva una vecchia conoscenza, lagara sugli inviti: 'Vai dagli Ordway? Dagli Hersey? Dagli Schultz?'e i lunghi biglietti verdi tenuti stretti nelle nostre mani guantate. Ealla fine le fumose carrozze gialle della linea Chicago, Milwaukee –St. Paul che parevano allegre quanto il Natale stesso, sui binari difianco al varco.Quando ci inoltravamo nella notte invernale e la vera neve, lanostra neve, cominciava ad accumularsi di fianco e a brillare controi finestrini, sfilavano via le fioche luci delle stazioni del Wisconsine s'avvertiva d'un tratto una forza tonificante, selvaggia, nell'aria.Ne respiravamo a pieni polmoni mentre tornavamo dalla carrozzaristorante, attraversando le fredde connessioni tra uno scompartimento e l'altro, inspiegabilmente consci della nostra identità conquella regione, per un'ora unica, prima di fonderci nuovamente inmaniera indistinta con essa.Questo è il mio Middle-West – non il frumento o le praterie ole perdute città svedesi, ma il tintinnante treno del ritorno dellamia giovinezza, i lampioni delle strade, le campanelle delle slittenell'oscurità ghiacciata e le ombre delle corone di agrifoglio proiettate sulla neve dalle finestre illuminate. Sono parte di ciò, a trattisolenne per le sensazioni di quei lunghi inverni, a tratti compiacente per essere venuto su nella casa dei Carraway in una città in cuile dimore continuano a essere chiamate, attraverso i decenni, colnome delle famiglie. Mi accorgo ora che questa è stata una storiadel West, dopo tutto: Tom e Gatsby, Daisy, Jordan ed io, venivamotutti dal West e forse avevamo tutti qualche inadeguatezza in comune che ci ha resi sostanzialmente inadatti alla vita nell'Est.Anche quando l'Est mi entusiasmava di più - quando ero nettamente consapevole della sua superiorità rispetto alle città oltrel'Ohio, noiose e cresciute a macchia d'olio, rigonfie, con le loro Il Grande Gatsby200interminabili maldicenze che risparmiavano soltanto i bambini ei troppo vecchi – anche allora l'Est ha avuto sempre per me unacapacità di distorsione. West Egg in special modo, ancora animai miei sogni più fantasiosi. La immagino come una scena notturnada El Greco: un centinaio di case, al tempo stesso convenzionalie grottesche, rannicchiate sotto un cielo cupo, incombente, e unaluna opaca. In primo piano quattro uomini solenni in abito da seracamminano lungo il marciapiede reggendo una barella sulla qualeè distesa una donna ubriaca in abito da sera bianco. La mano di lei,che ciondola da un lato, brilla fredda coi suoi gioielli. Gli uominicon aria grave entrano in una casa: quella sbagliata. Ma nessunoconosce il nome della donna e nessuno se ne importa.Dopo la morte di Gatsby l'Est fu per me un luogo simile, spettrale, distorto al di là della capacità di correzione dei miei occhi.Così quando nell'aria si levò il fumo azzurrognolo delle foglie friabili e il vento prese a soffiare sulla biancheria irrigidita stesa adasciugare, decisi di tornare a casa.C'era una cosa da fare prima di partire, una cosa delicata, spiacevole, che forse sarebbe stato meglio evitare. Ma volevo lasciaretutto in ordine e non limitarmi a sperare che quel mare, compiacente e indifferente, spazzasse via i miei rifiuti. Incontrai Jordan ele spiegai per filo e per segno cosa fosse accaduto quando eravamoinsieme e poi a me da solo; lei rimase ad ascoltarmi perfettamenteimmobile su una grossa poltrona.Era vestita da golf e ricordo di aver pensato che somigliasse aduna buona illustrazione, il mento sollevato un pochino, disinvolta,i capelli del colore di una foglia in autunno, il viso bruno come ilmezzoguanto poggiato sul ginocchio. Quando ebbi terminato midisse senza complimenti che era fidanzata con un altro uomo. Nedubitai, nonostante ce ne fossero parecchi che avrebbe potuto sposare con un solo cenno del capo, ma finsi di esserne sorpreso. Per Capitolo Nono201qualche istante mi domandai se non stessi facendo un errore, poi ciriflettei su rapidamente e m'alzai per salutarla.«Eppure sei stato tu a lasciarmi», disse Jordan d'un tratto. «Mihai lasciata al telefono. Ora non me ne importa più di te, ma è stataun'esperienza nuova per me e per un po' ne sono rimasta stordita.»Ci stringemmo la mano.«Oh, e ti ricordi...» aggiunse «...quella chiacchierata che facemmo sul come si guida un'auto?»«Beh... non proprio.»«Dicevi che un cattivo guidatore si sarebbe salvato finché nonne avesse incontrato un altro? Beh, ho incontrato un altro cattivoguidatore, non è così? Intendo dire che è stato grave da parte miafare un simile errore. Credevo fossi una persona piuttosto onesta,trasparente. Pensavo fosse il tuo piccolo orgoglio.»«Ho trent'anni», dissi. «Cinque di troppo per mentire a me stesso e chiamarlo onore.»Non rispose. Arrabbiato e ancora per metà innamorato di lei, mivoltai tremendamente dispiaciuto.Un pomeriggio di fine ottobre incontrai Tom Buchanan. Passeggiava lungo la Quinta Strada col suo fare sempre all'erta, aggressivo, le mani un po' discoste dal corpo come a voler combattere ogni interferenza, oscillava il capo bruscamente da un latoall'altro, a seguire quei suoi occhi irrequieti. Mentre rallentavo perevitare di superarlo si fermò e cominciò a esaminare, accigliato,la vetrina di una gioielleria. D'un tratto mi vide e tornò indietrotendendomi la mano.«Come va, Nick? Non mi stringi la mano?»«Già. Lo sai cosa penso di te.»«Sei matto, Nick», disse veloce. «Un matto del diavolo. Noncapisco quale sia il problema.»Il Grande Gatsby202«Tom», risposi «cosa hai detto a Wilson quel pomeriggio?»Mi fissò senza dire una parola e compresi che avevo indovinatocosa fosse accaduto in quelle ore che mancavano nella ricostruzione.Provai a voltarmi, ma fece un passo verso di me e m'afferrò il braccio.«Gli dissi la verità», sbottò. «Era arrivato alla porta mentre stavamo per partire e quando ordinai di rispondergli che non eravamo in casa provò a salire con la forza. Era pazzo a sufficienza dauccidermi, se non gli avessi detto di chi era l'auto. Mentre era incasa, continuò a poggiare la mano su un revolver che aveva in tasca...» s'interruppe in modo provocatorio. «E se pure gliel'avessidetto? Quel tizio ha avuto ciò che si meritava. Gettava polvere neituoi occhi come in quelli di Daisy, ma era un delinquente. Ha investito Myrtle come tu saresti passato su un cane e non ha neanchefermato l'auto.»Non c'era nulla che potessi dire eccetto ciò che non poteva esserdetto: che non era vero.«E se credi che non abbia avuto la mia parte di dolore... sta' asentire, quando salii in quell'appartamento e vidi quella dannatascatola di biscotti per cane sulla credenza, mi sedetti e piansi comeun bambino. Per Dio, è stato orribile...»Non riuscivo a perdonarlo né a compartirlo, ma compresi che ciòche aveva fatto a suo giudizio era pienamente giustificato. Era tuttomolto assurdo e confuso. Erano tipi sbadati, Tom e Daisy – sfracellavano cose e persone per poi si ritiravano nella loro ricchezza o nellaloro sbadataggine o qualsiasi altra cosa li tenesse insieme e pretendevano che altri rimediassero ai disastri che avevano lasciato in giro...Gli strinsi la mano; sembrava sciocco non farlo poiché mi sentiid'un tratto come se stessi parlando a un bambino. Poi entrò nellagioielleria per comprare una collana di perle – o forse soltanto unpaio di gemelli – sbarazzandosi per sempre della mia delicatezzaprovinciale.Capitolo Nono203Quando partii, la casa di Gatsby era ancora vuota – l'erba del suoprato ormai era alta quanto la mia. Uno dei tassisti del villaggio nonpassava mai davanti al cancello senza fermarsi per un istante e puntare il dito all'interno; forse era stato lui a portare Daisy e Gatsby aEst Egg la notte dell'incidente e forse s'era inventato una storia tuttasua. Non volevo sentirla e l'evitavo quando scendevo dal treno.Trascorrevo i miei sabato sera a New York poiché quelle sue festescintillanti, abbaglianti, erano in me così vivide che ancora potevosentire la musica e le risa tenui e incessanti provenire dal giardino,le macchine andare su e giù per il suo viale. Una notte vi sentii realmente una vettura e ne vidi i fari fermi di fronte alla scala d'ingresso.Non investigai. Probabilmente si sarà trattato di qualche ospite che,andatosene per un po' ai confini del mondo, non aveva saputo chele feste erano finite.L'ultima notte, col baule carico e la macchina venduta al droghiere, andai lì e guardai ancora una volta quell'enorme e incoerente disastro di casa. Sugli scalini bianchi una parola oscena, scritta da qualche ragazzino col frammento di un mattone, risaltava al chiaro di luna; la cancellai raschiando con la mia scarpa sulla pietra. Poi vagai verso la spiaggia e crollai sulla sabbia. La maggior parte dei locali più grandi lungo la costa erano ormai chiusi ed era difficile scorgere una luce ad eccezione del luccichio nella penombra di un ferryboat che attraversava lo stretto. E mentre la luna saliva sempre più alta nel cielo, cominciarono a dissolversi le case superflue finché, a poco a poco, m'apparve la vecchia isola che fiorì un tempo agli occhi dei marinai olandesi – un fresco, verdeggiante seno del nuovo mondo. Gli alberi svaniti, quelli che avevano lasciato il posto alla casa di Gatsby, avevano un tempo assecondato tra i sussurri l'ultimo ed il più grande dei sogni dell'uomo; per un istante ineffabile e incantato l'uomo deve aver trattenuto il fiato al cospetto di questo continente, costretto ad una Il Grande Gatsby 204 contemplazione estetica mai compresa o desiderata, faccia a faccia, per l'ultima volta nella storia, con qualcosa di commensurato alla sua capacità di immaginazione. E mentre ero seduto là a meditare sul vecchio, sconosciuto mondo, pensai alla meraviglia di Gatsby quando per la prima volta aveva scorto la luce verde all'estremità del pontile di Daisy. Aveva percorso una lunga strada fino a quel prato blu e il suo sogno gli doveva essere sembrato così vicino che difficilmente avrebbe potuto fallire nell'afferrarlo. Non sapeva che era già alle sue spalle, da qualche parte nelle immense tenebre oltre la città, dove i campi oscuri della repubblica si estendono nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgastico che anno dopo anno si ritira davanti a noi. Ci elude poi, ma non importa – domani correremo più veloci, stenderemo le braccia ancora di più... E un bel mattino... Così continuiamo a remare, barche contro corrente, costantemente risospinti nel passato.Sugli scalini bianchi una parola oscena, scritta da qualche ragazzino col frammento di un mattone, risaltava al chiaro di luna; la cancellai raschiando con la mia scarpa sulla pietra. Poi vagai verso la spiaggia e crollai sulla sabbia. La maggior parte dei locali più grandi lungo la costa erano ormai chiusi ed era difficile scorgere una luce ad eccezione del luccichio nella penombra di un ferryboat che attraversava lo stretto. E mentre la luna saliva sempre più alta nel cielo, cominciarono a dissolversi le case superflue finché, a poco a poco, m'apparve la vecchia isola che fiorì un tempo agli occhi dei marinai olandesi – un fresco, verdeggiante seno del nuovo mondo. Gli alberi svaniti, quelli che avevano lasciato il posto alla casa di Gatsby, avevano un tempo assecondato tra i sussurri l'ultimo ed il più grande dei sogni dell'uomo; per un istante ineffabile e incantato l'uomo deve aver trattenuto il fiato al cospetto di questo continente, costretto ad una Il Grande Gatsby 204 contemplazione estetica mai compresa o desiderata, faccia a faccia, per l'ultima volta nella storia, con qualcosa di commensurato alla sua capacità di immaginazione. E mentre ero seduto là a meditare sul vecchio, sconosciuto mondo, pensai alla meraviglia di Gatsby quando per la prima volta aveva scorto la luce verde all'estremità del pontile di Daisy. Aveva percorso una lunga strada fino a quel prato blu e il suo sogno gli doveva essere sembrato così vicino che difficilmente avrebbe potuto fallire nell'afferrarlo. Non sapeva che era già alle sue spalle, da qualche parte nelle immense tenebre oltre la città, dove i campi oscuri della repubblica si estendono nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgastico che anno dopo anno si ritira davanti a noi. Ci elude poi, ma non importa – domani correremo più veloci, stenderemo le braccia ancora di più... E un bel mattino... Così continuiamo a remare, barche contro corrente, costantemente risospinti nel passato.

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