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Crescere insieme era stata la nostra croce, la nostra condanna. Altro patto non avrebbe retto quanto quello fra di noi, un patto che soltanto il sangue versato in strada l’uno per l’altro poteva sancire.

Non ricordo un solo giorno passato senza di lui. Ricordo però l’esistenza di un periodo della mia vita di cui lui non faceva parte, ma non nitidamente. È come se quel ricordo servisse per dimostrare l’esistenza di un passato privo di significato, privo di amore, privo di lui.

La mia vita ebbe inizio con lui. E allo stesso modo cessò.

Simone era piombato nel mio quartiere un pomeriggio di settembre, attirando su di sé e sulla sua famiglia l’attenzione di tutti i vicini, non abituati a ricevere visite se non dalle pattuglie. Il nostro quartiere non era mai stato un bel posto dove transitare anche solo in macchina, figuriamoci dove comprare casa ed iniziare una vita. Ma quel giorno Simone era sceso dalla macchina ed era corso verso la porta di una casa ormai abbandonata da tempo. Non scorderò mai il suo sorriso incuriosito e i suoi occhi ancora innocenti. Guardando fuori dalla finestra che dava proprio sulla sua casa, avevo sbirciato in modo diffidente quel ragazzo magrolino e goffo. Nella mia testa ricordo di aver pensato che non avrebbe retto una settimana, che i ragazzi del quartiere lo avrebbero fatto tornare da dove era venuto. Non so cosa mi avesse spinto a correre verso la casa di quel ragazzo sconosciuto. Vedendomi, lo sguardo di Simone cambiò, probabilmente spaventato dai miei vestiti logori e dai graffi che avevo sul volto, graffi che avrebbe avuto anche lui da quel giorno in poi. Lo guardavo come si guarda qualcuno di cui si ha paura. Fissandolo negli occhi, vidi quella tenerezza che non mi era mai stata propria. Quel pensiero mi fece sorridere, e lui sorrise con me.

Durante gli anni, le cose erano cambiate.

La casa che per molto tempo aveva avuto il solo scopo di dare riparo ai barboni della zona aveva preso vita diventando, oltre la casa di Simone, anche un po’ la mia.
La madre di Simone, Rossella, restava sempre a casa ad occuparsi della figlia minore, Margherita. Dietro alla scusa della ragazzina da crescere, Rossella con vergogna celava quel che per tutti noi era una realtà di cui non bisognava vergognarsi: l’impossibilità di trovare un lavoro che potesse sfamare i suoi figli. Il padre invece aveva avuto più fortuna: era riuscito a trovare un lavoro da marinaio che gli garantiva pochi spiccioli, sufficienti però per garantire una vita quasi decorosa alla sua famiglia. Partiva all’inizio del mese e tornava alla fine, per poi ripartire dopo il weekend. Inutile dire che Simone divenne l’uomo di casa non appena venne ad abitare in quella periferia, all’età di quattordici anni. Anche lui crescendo aveva cominciato a guadagnare un bel po’ di soldi, suscitando la curiosità di tutti. Quando gli si domandava che lavoro facesse per portare a casa quel denaro, lui abbassava lo sguardo, le orecchie gli diventavano rosse e smetteva di parlare per tutto il resto della giornata.

Trascorrevo ormai tutte le sere da loro, mangiando l’ottima pizza di Rossella e facendo i dispetti a Margherita insieme a suo fratello. La prendevamo in giro per qualsiasi cosa ci venisse in mente e spesso venivamo alle mani. Nonostante Margherita fosse più piccola di noi di due anni, dimostrava una forza che il suo stesso fratello non aveva: a differenza di Simone, Margherita era ben piazzata e sapeva come difendersi. Inoltre lei non aveva il vincolo che avevamo noi di non usare tutta la nostra forza per non farle male, per cui spesso uscivamo da quei litigi con i graffi sulla schiena e il sangue dal naso.

Quando Margherita non c’era, la noia era così tanta che finivamo per prenderci a pugni fra di noi. Simone non avrebbe mai avuto un corpo muscoloso ed il suo essere quasi scheletrico mi agevolava nella lotta. Spesso a porre fine ai calci ed ai pugni era sua madre, l’unica in grado di poter mettere pace fra di noi. Se era ancora giorno, uscivamo per giocare a pallone con addosso ancora i vestiti strappati ed impregnati di sangue e di sudore per fare pace. Se era sera ormai inoltrata, Simone aveva l’abitudine di disinfettarmi le ferite in silenzio, come se si vergognasse di quel che aveva fatto. Quando aveva finito, ci stendevamo nel suo letto con il materasso sfondato e provavamo a prendere sonno, stretti con la stessa forza con la quale ci eravamo picchiati pochi minuti prima. Inizialmente si sentivano soltanto i battiti accelerati dei nostri cuori, provati dallo sforzo appena compiuto. Dopo poco sentivo sulla schiena il petto di Simone alzarsi ed abbassarsi, segno che era sprofondato in un sonno profondo. Durante la notte cominciava a rigirarsi nel letto e a tirare calci, biascicando parole incomprensibili. Allora non mi addormentavo più fino al suo risveglio, temendo che ricominciasse.

Quella era la dimostrazione dell’amore che provavamo nei confronti dell’altro. Per dimostrarci che solo noi sapevamo come aggiustarci, ci rompevamo a vicenda. E poco importava scoprire che l’altro aveva il destro più preciso o il calcio più potente: non ci saremmo mai dovuti difendere da soli.

Non accadde nemmeno quel fatidico giorno in cui le nostre vite cambiarono completamente.

La prima cosa che ti insegnano quando arrivi nel nostro quartiere è quello di portare sempre un ferro con te. Ognuno reagiva a modo suo alla pistola che portava addosso. I ragazzi di strada non facevano nulla per nascondere quel che per loro era l’oggetto più prezioso al mondo. Non si facevano scrupoli nemmeno con le volanti in giro: potersi difendere con il piombo era un diritto, non un privilegio. Tutto quel che potevano fare con quella pistola era funzionale unicamente alla salvaguardia delle loro vite. Le fanciulle invece non mostravano i segni del loro imbestiamento causati dal luogo in cui vivevano. Cercavano tutte di darsi un tono, di apparire delicate e pure. Alcune di loro riuscivano anche a sembrare delle normalissime ragazze di città. La stessa Margherita tradiva benissimo la sua natura: indossava sempre dei graziosi vestiti, si truccava leggermente le guance per dare al suo viso un po’ di colore e tutti riconoscevano il lei bontà e dolcezza. Era impensabile credere che tenesse una Glock 17 nella borsa. E che sapesse sparare come un cecchino.
Non era una questione di mafia o di criminalità: la gente del nostro quartiere non credeva nella giustizia garantita dallo Stato e riteneva che farsi giustizia da soli fosse l’unico modo per vivere.
Si insegnava ai ragazzi a sparare quando ancora andavano alle elementari. La prima pistola era solitamente il regalo dei quattordici anni.

Per quanto alcuni potessero reputarlo eccitante, il possesso di armi e la libertà di usarle creava fra di noi un senso di diffidenza e di terrore che ci piegava. I rapporti umani non venivano mai realmente a crearsi, le amicizie si suggellavano comunque con il sangue: avevi la certezza di avere dinanzi a te un vero amico soltanto nel momento in cui questo spargeva sangue per te, che fosse il suo o quello di qualcun altro non aveva poi grande importanza.
Era raro però che si arrivasse a tanto fra ragazzi. Le botte avevano un altro sapore.
L’arma da fuoco era l’ultima carta da giocare. Sistemare le cose con la sola propria forza era ciò che ti assicurava onore e rispetto. A sparare un colpo sono bravi tutti.
Io e Simone lo sapevamo bene. Non ci capitava nemmeno di pensare alla pistola quando le cose si mettevano male in strada. Non ne avevamo bisogno. Ci allenavamo da tutta la vita lasciandoci lividi e tagli netti sulla carne, abituando il nostro corpo a fatiche e sforzi insostenibili.

Quel giorno cominciò come un giorno qualsiasi. Nemmeno uno cattivo presentimento ci mise in guardia su quel che sarebbe successo.

Avevamo trascorso tutto il pomeriggio nella camera di Simone e Margherita a discutere del nuovo ragazzo di quest’ultima.

Col passare degli anni, Simone si era fatto sempre più geloso nei confronti della sorella minore, la quale aveva cominciato a fare stragi di cuore nel quartiere in seguito alla sua pubertà. Non c’era un ragazzo della via che non avesse mai rivolto un pensiero a quella ragazza così bella e così irraggiungibile. La selettività con cui Margherita sceglieva i suoi ragazzi aveva lasciato tranquillo Simone per un po’, spingendolo quasi a credere che sarebbe rimasto per sempre, insieme a suo padre, l’unico ragazzo della sorellina. Ma quando il viavai di Margherita si era fatto poco alla volta sempre più frequente, il fratello aveva cominciato ad insospettirsi. Non sopportava l’idea che qualcun altro potesse anche soltanto toccarla, figuriamoci altro. Al sol pensiero, si faceva brusco, feroce, rivendicava la sorella come sua proprietà. Con il passare del tempo, anche io avevo cominciato a provare quelle cose per Margherita: era diventata come una sorella minore, una bambina da proteggere. Ero sicura che Simone provasse la stessa gelosia anche nei miei confronti, anche se non me lo avrebbe mai detto. Ma il suo sguardo lo tradiva ogni volta che un ragazzo si avvicinava a me. Allora io scoppiavo a ridere, facendomi beffa dell’unico ragazzo che avessi nel cuore e nella testa. Il ragazzo di Margherita, Riccardo, non era un volto nuovo. Era uno di quei ragazzi del quartiere che non si sapeva come fossero finiti ad abitare lì. Di un rango superiore, un altro modo di vivere. Non faticavano a vedere un futuro davanti a loro e non credevano che sarebbero rimasti per sempre in quel quartiere a pregare il cielo di arrivare al giorno successivo. Era quasi comica la loro presenza in così tanto degrado e povertà. Non avevano armi addosso, era lampante. La sicurezza della loro condizione bastava e avanzava. Nonostante la loro evidente superbia, non avevano mai dato problemi: riconoscevano comunque di essere in un luogo non loro, di essere estranei. Non avrebbero mai rimesso la pelle per aver rivendicato un posto che non era loro. Certe cose non puoi averle nemmeno comprandole, sono loro a possedere te.

Agli occhi di Simone, Riccardo non valeva nemmeno la metà di lei. Inoltre non lo riteneva in grado di proteggerla.
“Uno che non tiene nemmeno una Beretta nei pantaloni per sicurezza non è stato educato bene” aveva detto lui con fare anziano, come se avesse già visto tutto nella vita.
“Non è buono manco di mani, l’ho visto la scorsa settimana con quelli della casa affianco. Due quindicenni che fanno il culo ad un diciottenne con un solo gancio. Pure sinistro!”
“Si sarà rovinato i pantaloni cadendo, speriamo che le banconote abbiano attutito la caduta” avevo risposto io per smorzare un po’ la situazione e farlo sorridere.
Niente da fare. Simone era così: quando si arrabbiava, non riusciva a vedere e a sentire. Ogni sforzo era vano.
Margherita se ne stava seduta davanti a noi con lo sguardo basso, quasi suppliche. L’approvazione del fratello, per quanto dicesse di no, era importante. Con Riccardo si sentiva al sicuro e felice, nonostante non fosse come loro. Forse era proprio quello che le piaceva di lui: non era macchiato da nulla. Lei con gli anni si era sporcata, perdendo l’innocenza che lui le aveva ridato. Stando insieme, Margherita era tornata ad essere quella di tanti anni prima: una ragazza normale. Non era importante l’aver trovato Riccardo, ma l’aver ritrovato se stessa. E nessuno le avrebbe sottratto un’occasione simile.
Soffocato il pianto di rabbia che premeva per uscire, la ragazza si alzò ed uscì dalla camera dopo esser stata dieci secondi sulla porta con la bocca semiaperta, sul punto di dire qualcosa.
Simone imboccò in fretta e in furia il corridoio per raggiungere la sorella, la quale era corsa verso la porta di ingresso.

Uscendo di casa la vide parlare con due ragazzi che ci davano la schiena.
Simone aveva accelerato il passo per raggiungere la sorella e per sistemare quel ragazzo che lui aveva scambiato per Riccardo. Durante quel breve tragitto, la vena del collo aveva preso a pulsare forte e le nocche delle mani si erano fatte bianche per quanto stava stringendo le mani. Si era anche toccato più volte il ferro da sopra la maglietta: gli dava sicurezza, pur sapendo che non lo avrebbe mai estratto dai pantaloni. La rabbia che provava gli faceva digrignare i denti.

Quando fu a pochi passi da loro, accadde qualcosa che lo fece smettere di camminare: una pistola puntata alla tempia della sorella, lo sguardo attonito e terrorizzato dipinto sul suo volto.
Simone puntò i piedi e quasi cadde a terra. Le mani gli tremavano, il sudore cominciò ad imperlargli la fronte, le gambe sembravano due blocchi di cemento.

Quelli che mi sembrarono anni furono secondi di puro terrore.

I pensieri si confondevano nella mia testa, ogni idea sembrava inutile.
Istintivamente misi la mano sulla pistola, levandola immediatamente.
I due ragazzi si erano girati a guardarci, togliendoci ogni possibilità di coglierli di sorpresa.
Ci misi un po’ per riconoscere quei volti. Quei ragazzi facevano parte di un altro quartiere poco distante dal nostro. Uno di loro aveva perso la vita in uno scontro con i nostri molti anni prima, ancor prima dell’arrivo di Simone e Margherita. Un errore millimetrico aveva reso fatale un colpo alle gambe, il quale aveva perforato l’arteria femorale. Quel ragazzo si era fatto bianco in viso dopo pochi secondi e con il poco fiato che gli restava aveva chiesto della madre, per poi lasciarsi morire. Avrei scoperto solo dopo che si trattava di un bambino di appena tredici anni.
Un bambino, il più piccolo del gruppo.
Un bambino che portavo sulla coscienza da anni. Un bambino il cui volto mi appariva sempre in sogno tutte le notti, dandomi il tormento.

Il mio primo morto.

Era il loro modo di vendicarlo, di fare giustizia. La morte andava vendicata: era la prima cosa che ci insegnavano.
La morte andava vendicata, anche quando a rimetterci era una ragazzina di appena sedici anni.
I due ragazzi iniziarono a parlare, ma nessuna delle loro parole sembrò arrivare alle orecchie di Simone, confuso e terrorizzato.
Avrei voluto spiegargli, mettermi in mezzo. Prendermi la colpa per quel che avevo fatto.

Ma era questa la mia pena.
Veder soffrire chi amavo più di me stessa, era questa la pena perfetta.

Avevano atteso quel giorno per anni, aspettavano solo di trovare qualcosa con il quale colpirmi nel profondo, ferirmi mortalmente senza mandarmi al Creatore, distruggere in un solo attimo la mia vita lasciandomi però in balia degli eventi.
Fu per me come morire due volte, come se avessi contemporaneamente la pistola puntata alla tempia di Margherita e quell’immagine davanti agli occhi come l’aveva Simone.

Vidi il mio migliore amico avanzare verso di loro, non mostrando più la paura che avevo percepito un secondo prima solo dalle sue spalle tese.
Era a conoscenza del delitto che avevo commesso anni prima. Lui sapeva.
Lui sapeva e aveva capito, si era fatto avanti.
Aveva percorso quei pochi passi che lo separavano dal patibolo.
A muovere il suo animo era stato il coraggio e l’amore che provava verso entrambe.
Una parte di me voleva opporsi a quel gesto suicida, consegnarsi a coloro che le avrebbero fatto fare la fine che si meritava.
Ma la parte dell’essere umano egoista prevalse su tutto e rimasi in silenzio, mentre alcune lacrime calde cominciarono a bagnarmi gli occhi e poi il viso.
Tutti sapevano quel che sarebbe accaduto da lì a poco, eccetto Margherita. La bambina che quel giorno sarebbe diventata una donna adulta solo dopo aver visto il fratello morire ingiustamente per un legame di sangue sporco.
Percepivo la gioia dei due nel vedere la loro vittima sacrificale farsi avanti per dar pace a colui che un tempo era stato uno di loro. Sarebbero tornati a casa contenti, rivolgendo uno sguardo al cielo, nel tentativo di scorgere una stella per dire “questo è per te”.
Percepivo il rispetto che provavano nei confronti di quel ragazzo coraggioso che stava vendendo la sua pelle per salvare la mia. Che stava per morire per permettere a me di vivere.

Fu più veloce di quel che pensassi.

Mi permisero di coprire gli occhi di Margherita, la quale si dimenava fra le mie braccia in preda ad un pianto isterico.

Simone aveva dato le spalle ai due ragazzi e guardava me, con un sorriso sereno sul volto.
Nonostante fosse spaventato, sapeva che le cose dovevano andare così.
In quel momento, vidi l’uomo che Simone era diventato.

Quel giorno lui aveva salvato la sua famiglia, sacrificando se stesso. Il ragazzo curioso che avevo visto anni prima arrivare in quel quartiere senza ritorno era morto, lasciando spazio ad un uomo che non sarebbe morto nemmeno con uno sparo, nemmeno con cento spari. Vidi gli occhi di Simone ritornare ad essere pieni di innocenza.
Sentivo la pistola fredda premuta contro la nuca di Simone come se fosse sulla mia.

Al momento dello sparo, morimmo entrambi. Io ebbi soltanto la possibilità di riaprire gli occhi.

Era inerme per terra, il sangue non si vedeva grazie al colore scurissimo dei suoi capelli.
Gli occhi erano rimasti aperti, il sorriso appena accennato. Sembrava una fotografia di quando era piccolo.

Tutto si era fermato.

I ragazzi si dileguarono in fretta, gioendo per quanto era appena stato compiuto.
Margherita crollò sul corpo del fratello, piangendo lacrime amare.
La invidiai. Per quanto fosse sconvolta, il suo non sapere il perché di tutto questo la allontanava un secondo da quanto era appena successo, dandole il tempo di chiedersi almeno il perché, di cercare risposte.
Io sapevo, e avrei voluto non sapere.
Sorrisi. Sorrisi come quando sorridemmo insieme per la prima volta.

Avevo trovato un fratello, un vero amico. Il suo sangue scorreva insieme al mio, l’aria che aveva inalato fino a quel momento era stata anche la mia. La sua vita era stata parte integrante della mia.
E in quel momento seppi che tutti quegli anni durante i quali avevano provato a dividerci il terrore e la diffidenza, noi ci eravamo amati davvero. Che l’odio che ci avevano inculcato nella testa non era arrivato al cuore, che una speranza di amare c’era e ci sarebbe stata per sempre.
E che non sarei mai stata più sola, nonostante lui non fosse più con me.

SimoneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora