So Lupin

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Remus Lupin non era un tipo dinamico. Per niente. Era la classica persona che ogni mattina si svegliava chiedendosi se quello fosse davvero il suo corpo, se i suoi movimenti fossero causati da un funzionamento meritevole del suo sistema nervoso o da un altro tipo di forza intrinseca che lo costringeva ad alzarsi dal letto. Vivi. L'avrebbe fatto, come ogni giorno.

Si alzò nel silenzio della sua piccola casetta molto distante dal centro di Londra.

Il caos cittadino non gli era mai andato a genio. Il brusio incessante di persone e musiche, i clacson spasmodici nel traffico, i bambini, le pubblicità, auto urla rumori. No! I babbani no. Al solo pensiero un fievole guaito gli uscì dalla gola.

Nel bagno si guardò allo specchio, esausto. La cicatrice che gli percorreva diagonalmente il volto era rossa e calda, le altre sparse per tutto il corpo bruciavano. «Andiamo vecchio mio, quattordici anni di strazio e ancora non ti ci sei abituato?» Mormorò tra se e se, piantando lo sguardo nei suoi occhi non più color ambra, ma gialli vibranti.

Il suo spirito animale amava prendere il controllo, si divertiva ad essere l'elemento alpha come se il suo corpo fosse solo uno stupido burattino di carne, mentre la parte umana di Remus semplicemente si limitava a tirare avanti per quieto vivere.

I lineamenti del suo volto erano dolci, morbidi. Un accenno di barba cominciava a farsi strada sulle guance e sul mento, e la presenza di biondi baffi delicati contornava una bocca sottile dai bordi netti. I capelli biondo cenere ricadevo su una fronte poco importante. Sarebbe stato un ragazzo carino, un uomo affascinante, se non fosse stato per quelle cose.

Erano lì a frastagliargli il volto. Lunghe e corte, corpulente o affusolate, fresche o coagulate. Vive e permanenti. Si risparmiò dal guardare il resto. Quella notte ce ne sarebbero state di nuove, e ci sarebbe stato un nuovo faccia a faccia.

Si tolse la maglietta del pigiama e la ripose nel cesto dei panni sporchi assieme al resto degli indumenti. Un lupo mannaro con l'accenno di disturbo ossessivo compulsivo era davvero il colmo, ma nessuno l'avrebbe mai scoperto. Poco male. Si toccò un punto all'altezza della spalla. Male. «Sì, lo so che fa male.» Faceva sempre male la genesi del ricordo di come da bimbo era diventato un mostro.

Si lasciò cullare per qualche minuto di troppo dalla calura dell'acqua che gli scivolava sul corpo, unico elemento che aveva il permesso di sfioragli la pelle nuda al di fuori dei suoi indumenti, con gli occhi serrati e tutto il suo peso scaricato sui palmi che premevano contro le piastrelle.

Avrebbe preferito una vasca da bagno, certo. Ma quella catapecchia inglese aveva un bagno troppo piccolo per potersi permettere una vasca. Perciò era costretto al costante contatto con il suo corpo sotto lo scroscio dell'acqua che, ad ogni tocco, gli ricordava quanto quei disegni facessero male.

Solo altri due giorni, poi sarebbe tornato a poter essere un po' più se stesso in quel grande castello che amava chiamare casa, nel suo caldo e confortevole studio adibito a stanza da letto, avrebbe riavuto di nuovo la Stramberga Strillante senza dover soffocare urla e ululati. Sarebbe tornato ad insegnare ai ragazzi a difendersi da creature oscure, come lui.

In quei tre mesi si trascinava per tutta la casa abbandonato all'abituale consapevolezza di essere un uomo-lupo di 19 anni con lo stesso obiettivo di un parassita, ovvero sopravvivere. Fame.

Sbuffò e uscì dalla doccia, asciugandosi velocemente e dirigendosi in cucina con indosso solo un paio di boxer puliti. Fin quando nessuno poteva vederlo, e fin quando non poteva vederlo da se, il suo corpo non era un problema.

Si riscaldò del latte e mangiò un toast con burro e marmellata. Aveva provato in tutti i modi a farsi andare giù il caffè, ma l'odore era talmente forte da intorpidirgli tutto il sistema nervoso. Uno dei tanti vantaggi si essere un licantropo, giusto?

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