♡︎𝙰𝚗𝚌𝚑𝚎 𝚕'𝚊𝚖𝚘𝚛𝚎 𝚑𝚊 𝚒 𝚙𝚘𝚕𝚖𝚘𝚗𝚒♡︎

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Vedevo il bianco del Paradiso, lo stesso Paradiso che credevo sarebbe diventato la mia casa e il mio rifugio, dove avrei avuto la protezione più sicura del mondo.
Non mi aspettavo che quel bianco sarebbe diventato nero in un battito d'ali; sembra così incoerente e sbagliato, come potevano due organi essere curati e salvati così velocemente?

Probabilmente non mi resi nemmeno conto da quanto mi trovassi nella sala operatoria del Mount Sinai Hospital of Queens, con il torace aperto e la mascherina dell'ossigeno per farmi respirare.

Non potevo sentire nulla, neanche i più minimi rumori dei miei organi tagliati o ricuciti.
Non era piacevole ritrovarsi su un lettino di una sala operatoria o almeno non lo era essere consapevole di essercisi ritrovati sopra, tutto per dei polmoni che non riuscivano a svolgere il loro lavoro.
Erano deboli, vuoti, fragili. E non potevo farci niente, né io né nessuno.

Quella mattina mi ero svegliata tranquilla, con i soliti capelli che mi facevano sembrare una pazzoide e le occhiaie ben visibili in viso.
Mi ero alzata, sbadigliando sonoramente, e mi posizionai davanti allo specchio della mia stanza. Più che capelli, sembravo avere un cespuglio in testa, se solo non fosse stato per il nero pece che li tingevano; puntai i miei occhi in quelli della me stessa nello specchio, le pupille rosso rubino sembravano prive di emozioni e sentimenti, vuote, spente, come se non avessero vita in sé.

Ad un certo punto mi accorsi di avere le labbra secche, rimasi a fissare lo specchio davanti a me per ancora qualche secondo e poi mi decisi ad iniziare la giornata con un bicchiere d'acqua che mi rinfrescasse la cavità orale.

Dopo aver aggiustato alla meglio la mia pazza chioma spettinata in una coda mi diressi in cucina, dove i miei genitori parlavano civilmente tra loro.
Senza interessarmi della loro conversazione mi avvicinai al frigorifero e mi permisi di bere direttamente dalla bottiglia d'acqua naturale, attirando le lamentele di mia madre.

«È uno spreco, se non berrai tutta l'acqua di quella bottiglia si dovrà buttare!» sospirai; poteva anche avere ragione, ma sapevamo entrambe che da quella bottiglia l'acqua l'avrei ingerita soltanto io, dal momento che a lei e mio padre l'acqua naturale non piaceva. «Ecco, ringrazia di poter ancora sospirare!» si girò nuovamente verso suo marito, rimasto in silenzio per tutta la durata delle lamentele della donna.

Tornai in camera mia, trascinandomi con forza verso l'armadio; ero ancora intorpidita dal sonno e soprattutto stanca, quella mattina la gola mi bruciava ed un brutto presentimento iniziò a farsi sentire.
Cercai di ignorare il mio istinto, a volte fastidioso, e afferrai dal guardaroba una felpa larga in tinta unita nera ed un jeans aderente di un azzurro chiaro con sfumature di bianco; poi andai a vestirmi.

Una volta in bagno, mi liberai del pigiama diventato ormai troppo caldo. Rimasi in intimo per qualche secondo, permettendo alla mia pelle di respirare aria fresca e nel mentre lasciai che l'acqua uscisse dal rubinetto occupando lo spazio interno della vasca da bagno.
Persi tempo a contemplare il mio riflesso che l'acqua, come fosse uno specchio, mostrava; l'unica differenza era la forma: il liquido trasparente si muoveva in piccole onde, rendendo la mia figura quasi deforme.

Privai il mio corpo anche dell'intimo e mi immersi nell'acqua calda che riempiva gran parte della vasca, sprofondando nella sua aura accogliente.
La schiuma provocata dal bagnoschiuma mi copriva varie parti del corpo ed il calore elevato dell'acqua fece appannare i vetri dello specchio e delle finestre, senza escludere le goccioline sulle pareti a causa del vapore.

Chiusi gli occhi, assaporando quei minuti di relax che avevo a disposizione. Respirai l'aria calda presente nella stanza, forse non troppo adeguata alle mie condizioni salutari.

Passai una trentina di minuti ad insaponarmi e risciaquarmi varie volte, godendomi l'odore floreale del sapone e la superficie della spugna sfiorarmi la pelle delicatamente; poi, a malincuore, uscii dalla vasca da bagno e mi coprii con un accappatoio di un azzurro pastello.

Per asciugarmi, pettinarmi e vestirmi ci misi meno del tempo impiegato a lavarmi e, una volta riordinato tutto, uscii dal bagno.
Appena fuori dalla porta udii la voce di mia madre parlare con allegria e spensieratezza; questa volta sembrava trovarsi in salotto, così mi diressi lì.

«Nicole, eccoti!» Esclamò appena misi piede nella stanza. «Ivan stava aspettando che uscissi dal bagno, quanto tempo ci hai messo?!»
Alzai gli occhi al cielo e, ignorandola, girai lo sguardo verso il ragazzo seduto sulla sedia accanto a quella di mia madre.

Ivan era il mio ragazzo, alto e moro e dagli occhi di un profondo blu scuro.
Non sapevo perché quel giorno si fosse presentato a casa mia senza alcun preavviso, ma ne fui felice ugualmente.

«Andiamo in camera mia.»
Gli dissi senza troppi giri di parole, non ero un tipo a cui piaceva parlare molto. Preferivo ascoltare le persone ed i loro problemi, molto probabilmente perché mi piaceva vederli soffrire nel momento in cui peggioravo la situazione e mostravo loro il mio lato sadico.

Non mi rispose, semplicemente si alzò dalla sedia sorridendo a mia madre e mi seguì in camera.

«Nicole...» Iniziò, con tono di chi avrebbe voluto rivelare qualcosa di importante. «Scusa se sono venuto qui improvvisamente, ma non credo avresti voluto saperlo attraverso un messaggio.»

«Sapere cosa?»
Iniziai a guardarlo confusa e curiosa, ma anche con un che di irritazione. Sapeva che non mi andavano a genio né segreti né circonlocuzioni.

«Devi sapere che ti ho amata e continuerò a farlo, molto probabilmente con la speranza di innamorarmi di un'altra, ma non riesco a vivere con la paura che da un momento all'altro la ragazza che amo possa morire. Non ce la faccio, lo sento come un peso o un fardello. Ho continuamente il timore di poter fare qualcosa che ti faccia stare male, nonostante io lo stia appena facendo. Scusa, Nicole.»
Disse tutto d'un fiato, così veloce che quasi non riuscii a seguirlo; purtroppo, però, ascoltai e capii ogni sua singola parola.

Sentii una fitta al petto, una freccia trapassarmi il cuore. Sorrisi.
Mi aveva praticamente detto di essere un peso, l'unica persona che sia mai riuscito a dirmelo in faccia.
Mi aveva lasciata, si, ma non perché non mi amava; semplicemente avrei dovuto avere dei polmoni che mi facessero respirare sempre, in ogni occasione e con qualunque emozione.

Piccole lacrime iniziarono a farsi strada sul mio viso, solcandomi le guance.
Annuii, per fargli capire che lo accettavo e che non lo ritenevo un egoista, come lui sicuramente si sarebbe definito una volta uscito di lì.
Lo abbracciai l'ultima volta, poi lo lasciai andare. Nel momento esatto in cui sentii la porta di casa aprirsi e richiudersi subito dopo, con un sonoro saluto da parte di mia madre, i miei singhiozzi iniziarono a concretizzarsi e le mie lacrime divennero sottili fiumi amari.

Il respiro iniziò a mancarmi ed il peso sul petto si fece più difficile da sopportare. Mi accasciai a terra, con le spalle al muro, e strinsi le mani poco sotto la gola.
Cercai insistentemente ossigeno per i miei polmoni, senza accorgermi che le palpebre iniziavano a farsi pesanti e che la testa iniziava a girarmi esageratamente.

Fu questione di pochi minuti, poi persi coscienza di ciò che mi circondava e non vidi più nulla.

Non so dopo cosa sia successo, ma passarono parecchie ore prima che mi risvegliassi al Mount Sinai Hospital of Queens.
Mia madre era seduta alla mia sinistra e dormiva con la testa poggiata sul lettino d'ospedale, mentre mio padre era alla mia destra e dormiva anche lui.
Entrambi sembravano avere grosse occhiaie ed iniziai a chiedermi per quanto avessi dormito mentre loro erano svegli ad aspettare che io mi riprendessi.

Era notte, il cielo scuro e stellato illuminava leggermente la stanza ospedaliera e la sveglia sul mobile di fronte a me segnava le due di notte.
C'erano solo il rumore del saturimetro e quello del mio respiro, che mi creava fin troppi problemi.

Avrei incluso il rumore della mia mente incasinata, ma non lo era poi così tanto; magari lo sarebbe stata se non mi fossi ricordata perché mi trovavo lì, che era la cosa che volevo sapere e che sapevo.

Ricordavo tutto, tutto quello che aveva causato il mio dolore: la rottura con Ivan; e purtroppo non potevo cambiare niente.
Avevo davvero bisogno di polmoni funzionanti, e anche l'amore aveva bisogno di quei polmoni.

Chiusi di nuovo gli occhi per addormentarmi, nell'attesa di un nuovo giorno senza di lui e nella speranza che quel nuovo giorno non arrivasse troppo in fretta.

Giulia21432

𝖢𝗈𝗇𝖼𝗈𝗋𝗌𝗈 𝖣𝗂 𝖲𝖼𝗋𝗂𝗍𝗍𝗎𝗋𝖺 2020 ༄ 𝑹𝒂𝒄𝒄𝒐𝒍𝒕𝒂 ༄Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora