Slow down

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Ri-buongiorno!

Come per l'altro missing moment ("And then what?"), anche questo è stato scritto e pubblicato nel 2014. Mi raccomando, se non volete spoiler, leggete prima "Little girl"!

Buona lettura,

Veronica.


La radio stava trasmettendo l'ultimo singolo degli Imagine Dragons, pubblicizzato solo pochi istanti prima dalla voce squillante e concitata dello speaker irlandese. Le note ancora sconosciute si diffondevano in ogni angolo dell'abitacolo, facendo vibrare placidamente le casse sotto i sedili in pelle rovinata: dettavano un tempo, un ritmo.
I finestrini dell'automobile erano completamente offuscati dai troppi respiri che dovevano contenere, fungendo da confine con il mondo esterno e sforzandosi di trattenere tutto ciò che li voleva testimoni immobili. Non si lasciavano sfuggire nessuna delle parole pronunciate, nessun movimento, nessun gemito: concentravano tutto e lo portavano all'esasperazione.
Le mani di Harry erano sotto il maglioncino a trama larga di Emma.
La stavano tenendo, quasi avessero bisogno di aggrapparsi alla sua pelle in un sofferente tentativo di resistere al suo calore, al suo modo di reagire ad ogni tocco. Lasciando il proprio marchio ovunque decidessero di posarsi, si ostinavano a ripercorrere lentiggini conosciute ed indovinate, seguendo un percorso abbozzato e confuso, asfissiante.
Le mani di Emma erano tra i capelli disordinati di Harry.
Li accarezzavano lentamente, come arrendendosi, solo per poi tirarli un po' di più e stringerli nei propri palmi, rivendicando un possesso del quale nessuno dubitava, ma che era comunque meglio pretendere ed assicurarsi in ogni istante. Talvolta abbandonavano quelle ciocche soffici ed irriverenti per spostarsi sul collo teso e ancora accaldato da baci troppo veloci, ma presto tornavano a torturarle senza alcuna intenzione di smettere.
Harry avrebbe voluto urlare.
Avrebbe voluto non essere schiacciato contro il sedile e non avere il suo corpo su di sé, né le sue gambe intorno ai propri fianchi. Avrebbe voluto non desiderarla così tanto, non bruciare sotto il suo sguardo. Si sentiva finito, consumato fino al ridicolo: lui, che di ragazze ne aveva avute fino a confondere i loro baci, e sempre lui, che però non aveva mai avuto una ragazzina, o quella.
Forse era la sua fiera inesperienza a renderlo nervoso, impaziente, avido di cose già avute ma mai provate: l'aveva lì, tra le braccia e sulla bocca, ma non riusciva a contenerla e a seguirla. Così avrebbe voluto anche pregarla di aspettare un secondo, una settimana, di dargli tempo per realizzarla: ce ne voleva, e anche parecchio, ma non ne aveva e non sapeva come fare, come processare il tutto senza dare di matto.
Rischiava di esserne trascinato senza possibilità di un appiglio, come in una corrente troppo forte per essere contrastata e al contempo troppo piacevole per volerla abbandonare. Harry si era trovato nel mezzo dei significati di Emma, che si evolvevano e procedevano ad una velocità propria ed insopportabile, senza avere l'occasione di poterli realmente riconoscere uno ad uno: non poteva fermarsi a pensare, perché tutto andava avanti e lui non doveva restare indietro.
Spostò le mani sul suo addome piatto, accarezzandone le curve morbide dettate dalla posizione e graffiandole involontariamente per una presa troppo indiscreta: lo coprì con i propri palmi e lo abbandonò con la stessa familiarità, arrivando al suo seno. Facendola sospirare un po' di più, rendendola più orgogliosa nel mordergli un labbro per dispetto o consapevolezza.
Era difficile capire cosa desiderasse di lei: la sua bellezza era rozza, come una pietra mal levigata, imperfetta e acerba, ma così particolare da impedire a chiunque di distogliere lo sguardo. Come potevi farlo, se qualsiasi dettaglio aveva bisogno di essere scoperto e studiato, apprezzato fino al disprezzo e memorizzato fino a renderlo una condanna? Harry non poteva semplicemente bramare qualcosa e lasciar sfumare il resto, non riusciva a focalizzarsi su un unico fattore scatenante: persino quelle dannate lentiggini non erano le stesse, se non associate a quella pelle e a quella sua sfumatura. Persino quel dannato corpo non era lo stesso se non associato al proprio.
E si struggeva per lei, come un bambino indecente ed inesperto, incapace di ribellarsi ad un istinto primordiale ed esasperato da ogni suo movimento, anche il più involontario: era assurdo pensare a come fossero cambiate le cose, a come i suoi desideri si fossero amalgamati e confusi alle sue premure. Appena conosciuta, contro quel muro del Rumpel, l'avrebbe presa senza alcun rimorso, se solo lei non avesse mostrato una spontanea esitazione, se solo non avesse segnato la sua fine: l'avrebbe presa in piedi, senza nemmeno spogliarla o toccarla troppo. Ma in quel momento, mentre Emma gli respirava addosso incastrata tra il volante ed il suo petto, muovendosi provocante sui suoi pantaloni, sentiva di non poterla nemmeno guardare: temeva di averla, temeva di avere un di più non richiesto e spaventoso, o addirittura di sbagliare qualcosa e diventare un rimpianto.
Si vergognava, si vergognava, cazzo, di pensieri tanto pudici e timorosi.
Emma gli portò le mani sul viso, coprendogli le guance con i suoi palmi piccoli e caparbi, baciandogli ripetutamente le labbra, rendendole umide solo grazie alle proprie, rosse solo grazie all'impazienza, sue solo grazie a qualcosa di indecifrabile. Le baciò così tante volte da doversi arrestare per un respiro più profondo, in una pausa impercettibile, ma che per Harry sembrò la tortura di un mese intero.
Voleva scoprire i suoi gemiti.
Non quelli leggeri di un tocco, non quelli trattenuti per l'orgoglio o macchiati da piaceri più superficiali. Quelli devastanti, quelli che non ammettono nient'altro e che non ti lasciano pensare, né dormire. Voleva provocarli fino a non sopportarne più il suono ed il sapore, conoscerli per sfinimento e averne il controllo: renderli così totalizzanti, da essere l'unica realtà possibile. Poteva già immaginarli dipinti su quella bocca impertinente ed instancabile, incastrati tra le sue curve non troppo definite: era arrivato addirittura a sognarli.
«Ragazzina...» sussurrò appena, mischiando le lettere alla saliva di un ulteriore bacio e al respiro di un'altra persona. Un richiamo quasi patetico, se analizzato cinicamente, ed assolutamente inudibile per chi, come loro, non aveva orecchie se non per ascoltare l'invito di un movimento in meno e di una carezza più intensa.
Si sentiva sopraffatto, sia dal suo essere inarrestabile sia dal proprio essere inerme: era quasi incazzato, pronto a protestare per la propria accondiscendenza. Non si sentiva in grado di reagire, di dettare una direzione, perché non aveva il potere di farlo.
Di quel passo, Emma l'avrebbe condotto oltre ogni limite di decenza, e una consapevolezza simile era difficile da sopportare e metabolizzare: cosa puoi fare, quando sai di essere in bilico, in procinto di cadere in un vuoto fatto di occhi capricciosi e gambe magre? A cosa ti aggrappi? Dove puoi scappare?
Harry ebbe l'impressione di essere semplicemente ed inesorabilmente fottuto.
«Ragazzina, rallenta» esclamò ancora, stavolta con voce più ferma, così come più ferme si erano fatte le sue mani, ancora sui seni che sentiva propri: e non fu una richiesta chiara, né coerente. Emma stessa non la comprese: non comprese cosa celasse in quelle innocue sillabe rotte dall'eccitazione, dietro quell'indicazione apparentemente banale, né capì che non si stava riferendo a quel momento.
Harry voleva che rallentasse in tutto, che lo lasciasse prendere aria e non solo fisicamente, che gli concedesse una tregua misericordiosa solo per permettergli di raggiungerla. Ed era buffo pensare a quando la prima volta le aveva rivolto quelle stesse parole, con sprezzante divertimento: era irreale pensare a come potessero assumere un significato totalmente differente, a come potesse esserlo lui stesso.
Rallenta, o non riesco a prenderti.
Non so correre così forte.
Aspetta.

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