Erano le sei di mattina. Prima ancora che la sveglia suonasse i miei occhi si erano già abituati alla luce. Stessa storia da anni. Le lievi luci dell'alba trafiggevano il vetro della mia finestra per posarsi sulle lenzuola del mio letto, che assumevano un fragile colorito rosa. Fissavo la mensola posta sul muro della mia scrivania, dall'altro lato della mia camera, e pensavo che un altro giorno ancora mi sarei dovuto presentare a scuola; non ci volevo più stare lì.
"Tesoro, c'è la colazione.". La solita voce mattutina che proveniva dall'altra stanza. A dire la verità, però, lei era un lume nella mia buia normalità. "Com'è possibile che sia già tardi?!... Ah, questo maledetto orologio è avanti...". Mia madre borbottava tra sé e sé in cucina, e io dal bagno la sentivo. Il suo desto mattiniero mi fece uscire un risolino.
Mi riflettei nello specchio un'ultima volta prima di urlarle che stavo arrivando. Una cosa di me che odiavo davvero con tutto me stesso mi pendeva dalla fronte, incontrollato. I miei ricci mi davano problemi da quand'ero nato. Fortunatamente, poco più in basso, i miei occhi verdi spiccavano sotto la mia chioma scura.
"Come hai dormito, Jason?". Mia madre mi rivolse un tenero sguardo materno e mi porse un piattino di carta, all'interno dei fumanti pancake dall'aspetto delizioso. Poi si fermò per sorridermi.
"Benissimo...". Mentii. Non capivo per quale motivo avrei dovuto preoccuparla con le mie ansie, considerato avesse già le sue a cui pensare.
Papà.
Riuscivo a vedere la sua immagine negli occhi di mamma ogni volta che fra noi due le parole fossero di troppo. Un'altra delle sue ansie erano i debiti e le bollette che la sommergevano e non la lasciavano respirare. Il figlio che dorme poco era solo un'altra inutile zavorra di cui non aveva decisamente bisogno.
"Io vado.". Convenni nel silenzio e nell'imbarazzo di mamma che l'unica cosa che voleva era la mia felicità. Mi avviai verso l'uscio. "Ci vediamo più tardi.".
"Hey, Jason!". Una poderosa voce maschile interruppe il mio silenzio. Precisamente non ricordo quando ho conosciuto Brad, ma una cosa è sicura: ci conoscevamo da più tempo di quanto vorremmo che fosse. Brad viveva nel mio stesso complesso di case, in un altro squallido appartamento come il mio. Era alto, aveva la classica faccia da teppista e credo di averlo visto con dei pantaloni eleganti solo ai miei compleanni. Portava un'anonima felpa nera e un paio di jeans. Era un piuttosto trasandato ma alle ragazze piaceva lo stesso, il suo punto forte credo fosse la sua voce, appunto, e il fatto che con le ragazze desse il suo meglio nonostante non fosse un gran amatore. La sua ultima ragazza era fuori di sé per lui, forse troppo, e questo fu il motivo della rottura. Brad non era capace di non annoiarsi. "Com'è, amico?". Mi domandò.
"Tutto bene, sono solo un po' stanco.". Risposi, stringendogli la mano in cenno di saluto, con un tono molto assonnato.
Dopo poco, stavamo prendendo posto sul pullman. Scegliemmo i posti sul fondo, per evitare le occhiatacce, ma alla gente di Liberty City non costava nulla girarsi e fissarci con sguardi pieni d'odio e pena. Quella mattina, qualcuno, addirittura, commentò con "schifosi ragazzetti di periferia", tenendo un tono non molto singolare, come se tutto il mondo la pensasse come lui. Brad si voltò a fissarlo dritto negli occhi ma si trattenne, prima di far scoppiare un macello. Sapevo cosa avrebbe voluto dire, e capivo il perché non l'avesse fatto. Ormai era una routine.
Nel parcheggio della scuola, davanti alla nostra fermata del pullman, i ragazzi della squadra di Lacross scendevano dalle loro ripugnanti e allo stesso tempo bellissime auto di lusso, tenendo un'odiosa faccia tosta da figli di papà nel farlo.
"Guardate un po' chi c'è...". Una sgradevole voce da troglodita si stava avvicinando e intuii dal fare da duro che Paul Jackson era in piedi davanti a me. "Jason O'Brien... ancora qui? Davvero ancora non ti hanno bocciato, ignorante?". Continuò Paul, mentre altri quindici ragazzi della squadra gli stavano dietro ringhiando come cani. Paul era come il "Capo" della "Banda".
"Paul, a te ancora non ti ha ammazzato nessuno?". Disse stizzito Brad.
"Potremmo rimediare.". Convenni io.
Brad mi tirò la manica della giacca come a dire "lasciamo perdere, è una causa persa". Brad mi capiva, voleva vedere Jackson morto quanto lo volevo io, ma mi faceva da voce della coscienza. Non mi avrebbe permesso di togliere di mezzo una vita per poi rovinare la mia, anche se non l'avrei mai fatto e anche se ci avessi provato, sarei sicuramente morto per primo vista la stazza di Jackson rispetto alla mia. Lui era comunque pronto a fermarmi.
La mattinata si concluse monotona com'era iniziata, quella era la mia normalità.
Brad, dalla fermata del pullman, mi cercava con lo sguardo. Purtroppo non incrociò il mio, ma quello niente meno che di Paul Jackson, che si avvicinava furente a lui, seguito da cinque ragazzoni che avevano sicuramente più muscoli che cervello.
Rivolse un ebete sorriso quanto cattivo a Brad e nel mentre io mi facevo spazio in un'orda di ragazzi in corsa per prendere il pullman. Jackson aveva un'espressione divertita, come se avesse pensato ad una battuta e l'avesse divertito prima ancora di dirla. Brad lo fissava esasperato, aspettando che dicesse la sua, per rispondergli a tono e lasciarlo poi lì per andarsene a casa. Andò in modo assai diverso.
Vedendomi arrivare, parlò direttamente rivolto a me. "Dunque, questo è il catorcio che ti porta a casa, O'Brien?". Disse in tono provocatorio, tutto soddisfatto.
"Pensavo, da parte tua, ad una battuta migliore, Jackson.". Sospirai. "Che peccato.". Provocai a mia volta.
Brad alzò gli occhi al cielo. "Non rompere Paul, lascialo in pace.". Dal modo in cui l'aveva chiamato per nome, come un amico di vecchia data, mi fece pensare a quanto effettivamente lo conoscessimo noi rispetto a quegli altri cagnolini che si portava dietro. Negli anni, subendo le sue cattiverie e rispondendo a modo, avevamo messo allo scoperto tanti dei punti deboli di Jackson, quanti punti di forza. Le nostre risposte a tono erano un esempio.
Spinse Brad con forza contro un muro proprio dietro di lui. "Tu stanne fuori, Brad.". Lo intimò. Quella spinta mise la mia rabbia repressa verso Jackson in un punto pericoloso del mio cervello, lasciandola scoppiare. Non ci pensai, la mia mano rispose da sola, andando dritta con le nocche sullo zigomo del finto fenomeno. Dalla sua espressione mi resi conto che non era riuscito ad incassarlo bene e gli aveva pure fatto male. Nel giro di un attimo Brad si stava azzuffando con uno dei seguaci di Jackson, ma notando che se la stesse cavando piuttosto bene, mi concentrai sulla risposta quasi del tutto lecita di Paul, che mi causò (e lo sentii proprio) la rottura di un dente. Presi un cazzotto molto meglio assestato del mio tra la guancia e l'orecchio. Fu doloroso ma non tanto da non permettermi un'altra risposta immediata e violenta, colpendolo con forza proprio sotto al naso. Quest'ultimo mio attacco gli fece perdere l'equilibrio, ma prima di potergli scolpire la faccia a calci, la preside cominciò a urlare.
"Basta! Ma cosa sta succedendo?!". Strillò. "O'Brien...ma cosa...?". E disse il mio nome balbettando, vedendo la violenza con cui stavo per calciare Jackson, visibilmente confusa, visto che fino a quel momento non avevo mai fatto male ad una mosca. Nel frattempo cinque dei ragazzi che accompagnavano Jackson stavano correndo via spaventati.
Poi la preside notò Brad e ricomponendosi aggiunse, turbata "Come vi permettete voi della South Side picchiare dei ragazzi davanti alla mia scuola!"
"Criminali!" Incalzò un'altra professoressa.
"Siamo stati provocati!". Cercai di difenderci. "Noi volevamo... Loro volevano..." Ma non mi stavano già più ascoltando, erano più concentrate sul viso ricoperto di sangue di Jackson.
"Hanno iniziato loro! Ve lo giuro!". Piagnucolò lui. E, evidentemente, trovavano più attendibili le sue parole.
La preside corse verso di me ticchettando sulla strada con i suoi tacchetti neri e prima di parlare mi guardò, sistemandosi gli occhiali sul naso. Sembrava che dai suoi riccioli spuntassero fuoco e fiamme.
"Risolveremo l'accaduto domattina nel mio ufficio, O'Brien." Guardandomi dall'alto verso il basso, quasi volesse farmi capire che fosse superiore a me. Poi si concentrò su Brad. "E anche tu.". Si allontanò dandoci finalmente l'opportunità di scoppiare a ridere, anche se le cose si sarebbero fatte serie.
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LA DOLCEZZA DELL'INFERNO
ActionUn ragazzino di 18 anni è costretto dalle circostanze a trasferirsi in una nuova città, Los Santos, un posto che può risultare una città incantevole, ma dietro tutta questa apparente perfezione presenta un proprio lato oscuro. Criminali, gangster...