Il destino non si sceglie

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Quella notte non dormii. Me ne stavo sdraiato a letto guardando fuori dalla finestra, quando la sveglia prese a suonare. Dovevo prendermi la responsabilità  di ciò che era successo il giorno prima. Il che non doveva essere troppo difficile, pensai. Dovevo solo sorridere e annuire alla preside come se fosse una vecchia pazza, ma senza farglielo notare. Dovevo presentarmi davvero dispiaciuto per quello che era accaduto e dire non si sarebbe ripetuto. Facile. Semplicissimo. Eppure sapevo che mi sarei perso qualche passaggio autoimposto, perché la preside non sapeva niente delle cattiverie di Jackson negli anni. L'avrebbe difeso fino alla morte soltanto perché io non ero come lui. Io restavo sempre una spanna più in basso, sia letteralmente che metaforicamente parlando e questo era il fatto che più mi mandava fuori dai gangheri. Potevo fare come mi imponevano, ma non potevo mai essere come mi volevano, per natura, sembrava quasi. 

Sedevo nell'ampio atrio fuori dall'ufficio della preside, era tutto bianco e vuoto, un po' come la sua anima. Il portone di plastica dell'ufficio stonava con tutto il resto e il primo anno che aveva iniziato a lavorare lì aveva appeso una foto degli studenti migliori, ovviamente, la squadra di Lacross. La facciona compiaciuta di Jackson in quella foto mi perseguitava come un fantasma, era riluttante come sorridesse soddisfatto il giorno in cui è stata scattata. Nell'attesa che Brad uscisse, me lo immaginavo sorridere per poi dare il cinque ai suoi compagni di squadra, mentre si gongolava pensando che quella foto sarebbe stata appesa sulla porta dell'ufficio della preside, e probabilmente pensando che io e Brad l'avremmo invidiato. Invece, ogni volta che ci passavamo davanti, lo prendevamo in giro. 

Brad uscì sereno dall'ufficio, dopo esserci rimasto quasi un'ora.  

"Fai quello che dice la preside Jason, e mi raccomando, non ti ribellare.". Bisbigliò. "Ti aspetto qui.". 

L'ufficio odorava di deodorante per ambienti. Mi correggo, puzzava  di deodorante per ambienti. La preside ne teneva quattro in diversi angoli della stanza. Mi guardavo intorno chiedendomi come facessero tutte quelle piantine a sopravvivere a quell'odore tossico, ne aveva cinque o sei, sul tavolo e sugli scaffali. Era inadeguatamente ordinato, non c'era un foglio fuori posto e lei si sedette di fronte a me, appoggiò i gomiti sulla scrivania e notò che mi guardavo intorno. 

"C'è un...buon profumo qui.". Dissi, sperando di iniziare bene la conversazione. 

"Ne ho abbastanza di voi e delle vostre usanze da ragazzini di periferia del sud di Liberty City." Iniziò, guardandomi dritto negli occhi. Non seppi come reagire. "Venite qua solo per creare confusione e caos. Non posso tollerarlo. Questa è una scuola stimata, i ragazzi fanno grossi sacrifici per arrivarci, s'impegnano negli studi e tutti apprezzano questa scuola. Non so come avete fatto voi, ma ora siete qui. Sotto il tetto della mia scuola. Veniamo ai fatti: Tutti i ragazzi di Lacross dicono che sei stato tu a colpire per primo perché eri geloso delle loro auto. O'brien, per una Bravado Benshee, non puoi picchiare quattro ragazzi. Ti è chiaro questo? Va bene, ci sono persone che possono permetterselo e tu..." 

"Ha cominciato Jackson," la interruppi. "Ha spinto Brad per primo e non so chi le abbia detto che ho picchiato quattro ragazzi, che non è assolutamente vero. Ho difeso il mio migliore amico e immagino che la difesa sia permessa anche in questa scuola. O mi sbaglio?" Dissi, alzando un po' la voce a quest'ultima frase, ma fortunatamente lei non sembrava essersene accorta. 

"Non ti credo, smettila di fingere." Disse, irremovibile.

"Ti pareva...". Borbottai. 

"Ti prenderai una grossa punizione per questo. Oltretutto andrai a scusarti personalmente con i genitori di Paul Jackson. Resterai a scuola per quattro mesi fino a sera.". Concluse.

Ma io avevo smesso di ascoltarla quando ho sentito che andrò a scusarmi personalmente. Così, senza dire una parola, mi alzai dalla sedia su cui ero seduto. Ma rimasi immobile a fissarla mentre scriveva della mia punizione sul suo enorme quaderno colmo di fogli e scartoffie. Era davvero convincente a fare la seria, dopo aver detto una cosa del genere. Scriveva senza interrompersi nemmeno un attimo con odio e disgusto che le trapelavano da tutti i pori. Quando si accorse che io ero ancora lì, mi guardò. 

LA DOLCEZZA DELL'INFERNODove le storie prendono vita. Scoprilo ora