Un'insignificante borghese

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«Prima di partire, vorrei farti frustare» disse, «e te lo chiedo, non te l'ordino. Accetti?»

Accettò.

«Ti amo» ripeté lui.

(cit. Histoire d'O - Dominique Aury  sotto lo pseudonimo di "Pauline Réage")


* * *

Ancora una volta era stato capace di farmi piangere, umiliandomi e facendomi sentire inutile. Ma non solo, lo aveva fatto di fronte a tutti i miei colleghi e aveva concluso dicendo che ero sempre la solita oca, un'insignificante borghese di merda, inutile per la comunità.

Non ne potevo più di quella situazione, era diventata insostenibile. Il nuovo capo dell'ufficio marketing era uno stalker e io ero diventata la sua vittima designata.

Tutto era iniziato quando il vecchio capo aveva avuto la promozione a coordinatore dell'area meridionale, e al suo posto era stato promosso Manilo.

Il borioso, a dispetto della sua avvenenza e del suo fascino di energico e dinamico quarantenne, in realtà non aveva mai brillato di luce propria, mentre io, che fino a quel giorno ero stata il braccio destro del capo, ero stata silurata perché donna e mi era stato preferito uno la cui esperienza di direzione era pari a zero. Dal primo giorno del suo nuovo incarico aveva iniziato ad avere un atteggiamento imperioso con tutti, ma con me era stato addirittura odioso e da subito ci era andato giù pesante. Tutte le rogne erano mie a prescindere, e tutto quello che facevo era fatto male, ma soprattutto il più stupido dei miei colleghi l'avrebbe fatto meglio... ormai era un anno che giocava a fare il padrone e io ero arrivata al limite della sopportazione. Avevo maturato la decisione di licenziarmi, avrei trovato di sicuro un altro lavoro nella concorrenza, visto che comunque ero conosciuta e stimata anche dalle altre agenzie pubblicitarie nazionali. Non gli avrei permesso di bruciarmi così la carriera, ormai anche la dirigenza iniziava a prendere le distanze da me, e presto mi sarei ritrovata col culo per terra senza più nessuno sul quale poter contare.

* * *

Trascorsi le ore della mattina chiusa nella mia stanza a terminare il lavoro che mi era stato assegnato, sperando che Manilo rivolgesse altrove la sua attenzione, e così fu. Rimasi tranquilla a lavorare fino all'ora della pausa pranzo, momento nel quale avrei potuto correre il rischio di imbattermi nel mio persecutore.

Radunai in fretta le mie cose, le infilai in borsa alla rinfusa e, uscita dalla mia stanza, strisciai il badge nel marcatempo e mi fiondai giù per le scale in modo da non incontrarlo in attesa dell'ascensore. Sembravo una bambina impaurita, certo un adulto avrebbe dovuto reagire in modo diverso, ma io proprio non ci riuscivo.

Pensavo che le mie crisi d'ansia appartenessero al passato e che avessi superato quel periodo della vita nel quale tutti, prima o poi, cadono vittima di loro stessi. L'ultima crisi risaliva alla sera prima della discussione della mia tesi in scienze della comunicazione, quando l'assistente del mio relatore mi aveva chiamata al cellulare e mi aveva detto che il gran Prof. voleva che discutessi la tesi in inglese, e che quella non era una richiesta ma un imperativo al quale non avrei potuto opporre diniego.

Premetto che ho sempre parlato un inglese fluente e che ho seguito anche dei corsi di perfezionamento, ma quella richiesta mi aveva spiazzata, tanto che ero stata costretta a ricorrere alle cure mediche in pronto soccorso per riuscire a sedare la mia ansia.

Adesso stava accadendo di nuovo, lo stress al quale ero sottoposta mi stava portando a una condizione di sudditanza psicologica dalla quale non sarei uscita con facilità. Forse se avessi avuto un carattere un po' più estroverso e magari avessi ostentato anch'io la mia fisicità, non avrei avuto questo problema, probabilmente Manilo si sarebbe limitato a guardarmi il culo. Se proprio vogliamo dirla tutta, il maledetto era un bell'uomo e aveva il fascino del ragazzaccio. E invece no, io dovevo essere ligia al mio dovere fino alla fine, era questo il mio grande problema. Anche se sapevo di essere un bocconcino niente male sotto quei vestiti démodé, desideravo essere apprezzata per quanto realmente valevo e non per le forme del mio corpo. E infatti né Manilo né i miei colleghi badavano a me, nessuno mi aveva mai guardata con occhi carichi di desiderio come facevano con le smorfiose colleghe dell'ufficio; cominciavo a pensare che Manilo avesse ragione quando mi diceva che ero una persona insignificante.

Ragionando su questi pensieri giunsi alla tavola calda dove, ormai da cinque anni, consumavo il mio breve pasto. Mi misi in fila al banco, presi i piatti che avrei consumato e andai a sedere al solito posto in disparte, nel punto più lontano della sala. Nessun uomo avrebbe mai notato una crumira come me e nessuno avrebbe mai voluto averci a che fare, questa era la verità.

Arrivata al tavolo, mi sedetti dando le spalle al resto della sala per non dar loro la soddisfazione di vedermi triste, sfilai dalla borsa il romanzo che avevo iniziato il giorno prima, e cominciai a consumare il mio pasto leggendo.

Mentre masticavo con attenzione la mia insalata, una voce a me familiare mi distrasse, facendomi sollevare il capo dal libro.

«Elena, sono certo che non ti dispiaccia se siedo qui con te, vero?»

Annuii senza proferire parola, ma avrei voluto scomparire. Era lui, il mio carnefice.

Chissà perché era lì, forse aveva deciso di rendermi impossibile anche quei pochi minuti di relax che mi spettavano di diritto.

Sedette, mi guardò e sorrise. Non avevo mai visto il suo viso così disteso, non sembrava nemmeno lui. Iniziò a chiacchierare piacevolmente con me, come se fossimo stati buoni amici da sempre, lasciandomi ancor più stupita del fatto che m'avesse sorriso.

No, non poteva essere lui, forse si trattava di un sosia oppure l'avevano catturato i marziani e gli avevano fatto il lavaggio del cervello, o forse stava tramando qualcosa per divertirsi con me; una cosa era certa, non era il Manilo di sempre. Finimmo di mangiare insieme e lui volle offrirmi un caffè prima di rientrare, sorprendendomi ancora una volta.

«Fra un'ora ti aspetto nel mio ufficio» mi disse prima di salutarci, «devo parlarti di una cosa, adesso vado a fare una commissione, ci vediamo più tardi.» Mi strizzò l'occhio e si allontanò a passo svelto.

Mi aveva spiazzato con quella richiesta, non comprendevo cosa volesse da me e perché desiderasse parlarmi nel suo ufficio, visto che avrebbe potuto farlo lì, alla tavola calda. Ma forse, trattandosi di lavoro, non voleva mischiare il relax con gli impegni professionali e aveva ritenuto più giusto parlarmene in privato.

Salii, chiesi a Sara, la segretaria di Manilo, di avvisarmi quando sarebbe rientrato il capo, e poi mi chiusi nel mio ufficio per riprendere il lavoro.

Poco dopo, mentre ero immersa nelle mie faccende, il telefono squillò: era l'interno di Sara. Tremante, risposi, e all'altro capo lei mi avvisò che il boss era rientrato. Mi alzai e mi diressi verso il suo studio come se fossi stata guidata da una forza sconosciuta.

Quando arrivai, Sara mi disse che Manilo mi stava aspettando, così, senza indugiare oltre, bussai alla sua porta ed entrai senza aspettare la risposta. Lui era lì, in piedi. Con un cenno mi invitò a sedere sul divano. Non poteva essere vero, non aveva mai avuto questo riguardo nei miei confronti, eppure sembrava che qualcosa fosse cambiato rispetto alla mattina, quando mi aveva trattata come una pezza da piedi davanti a tutti...

«Ti starai domandando perché ho voluto parlarti» esordì, guardandomi con un bel sorriso stampato in faccia, «visto che stamani abbiamo avuto l'ennesimo contrasto. Be', ecco, io vorrei che fra noi non ci fossero più episodi di questo tipo e avrei piacere se voltassimo pagina, anche perché conosco bene le tue competenze e so che quando ti impegni sei la migliore, e anzi, mi spiace di averti mortificato questa mattina di fronte a tutti, faccio ammenda e vorrei che tu mi credessi e accettassi le mie scuse.»

Non potevo credere alle mie orecchie, quella situazione era paradossale, Manilo che si scusava con qualcuno, Manilo che si scusava con me... annuii senza proferire parola e lo guardai imbambolata, e lui sembrò rendersi conto della mia sorpresa.

«Okay» continuò, «che ne diresti se sotterrassimo l'ascia di guerra e passassimo una piacevole serata insieme? Così chiacchieriamo un po' e ci conosciamo meglio. Stasera potremmo vederci a casa mia, poi ti porto a cena in un posto speciale e dopo decidiamo cos'altro fare. Ti va?»

Con un filo di voce risposi di sì e lui mi sorrise di nuovo, facendomi avvampare in viso. Mi scrisse su un pezzo di carta il suo indirizzo, poi soggiunse: «Vieni in taxi.» In un attimo mi squadrò da capo a piedi scuotendo un po' la testa. «Ah, la serata prevede l'abito da sera e sono banditi i cellulari, quindi lascia a casa il tuo, non ti servirà. Mi raccomando la puntualità. Ti aspetto alle otto da me. Ora vai, torna al tuo lavoro.»


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