Una dolce confidenza

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Quando suonano il campanello mi meraviglio sempre: sia perché di solito le visite che ricevo sono annunciate o programmate, sia perché Emily e Ryan hanno le chiavi, quindi potrebbero entrare senza problemi.

Mi dirigo lentamente alla porta di ingresso per vedere chi è: «Julie?!» Un'esclamazione che sembra più una domanda, proprio perché è tanto tempo che la piccolina della famiglia non viene a trovarmi.

«Ciao, Nanny!» Il sorriso dei suoi diciott'anni non riesce, nemmeno volendo, a creare qualche ruga intorno alle labbra rosa.

Il mio invece deve farsi spazio tra le pieghe del tempo, che da anni ormai mi segnano il volto.

«Come stai?» La mia nipotina mi abbraccia forte e mi bacia sulla guancia, per poi ripulirla velocemente dal lucidalabbra con un pollice.

«Bene, tesoro. Che ci fai da queste parti?»

Julie corruga la fronte e si mostra offesa: «Sono venuta a trovarti!» Le sembra così ovvio.

Però mi ricordo che, l'ultima volta che si è presentata, aveva litigato con la sua amica del cuore, per un vestito, se avevo capito bene l'immane tragedia: era arrivata come un tornado, sfogando tutta la sua frustrazione, sparando parole a raffica che avevo fatto fatica a seguire; ma mi era stato subito chiaro che aveva bisogno di liberarsi e, soprattutto, che qualcuno la ascoltasse mentre lo faceva.

«Mmm...» mugugno sospettosa. «E nient'altro.»

«Nient'altro.» Mi sorpassa e si dirige in salotto.

«Nessun doppio fine» insisto.

«Nessuno.»

«Mmm...» Mi fido sempre meno. E infatti, mentre si accomoda a gambe incrociate sul divano mi chiede: «Emily non c'è?»

Lo sapevo che c'era qualcosa sotto: quelle due sono peggio di cane e gatto e chissà che hanno combinato stavolta. «No, è al locale di Ryan. Ti serviva qualcosa?»

E per la prima volta, da quando è arrivata, la vedo rilassarsi veramente: lascia andare un sospiro profondo e abbassa lo sguardo, cominciando a giocare con i tagli sfilacciati sulle ginocchia dei jeans che indossa.

«No... Veramente...»

"Sputa il rospo" penso, mentre mi sistemo sulla mia poltrona preferita, quella coi braccioli grandi e morbidi, che hanno accolto in queste tre generazioni più di un pianto, più di una testa accoccolata, più di una guancia addormentata.

«Veramente volevo parlare con te» ammette infine.

Io lo sapevo, eppure mi sorprendo nel sentirglielo dire così, pacatamente, in un modo quasi maturo, che faccio fatica a riconoscere in lei, nella mia piccolina.

Annuisco solo col capo, perché ho paura che se spezzassi il silenzio con una parola, lei si richiuderebbe nella sua adolescenza e io non potrei più aiutarla.

China la testa, lasciando scivolare i lunghi capelli, biondi e lisci, attorno al viso; poi stringe i pugni e la risolleva decisa: «C'è un ragazzo.»

E questa è già una buona premessa. Sogghigno sotto i baffi.

Forse si aspettava una reazione diversa da me, ma continuo a fingere un'espressione distaccata, quasi analitica.

«Continua» la esorto.

«È uno della mia scuola, anche se non sapevo che frequentasse la mia scuola, perché prima non l'avevo mai visto, però ultimamente...» comincia a raccontare senza nessun filo logico o temporale, quindi sono costretta a fermarla.

«Aspetta! Aspetta! Aspetta! Frena! Ricomincia dall'inizio, se no mi perdo. C'è un ragazzo.»

Julie sorride imbarazzata e fa un altro respiro per calmarsi. «Sì. Qualche settimana fa sono andata a una festa con Stephany.» Solleva prontamente le mani per tranquillizzarmi: «Tutto bene, siamo state bene e non abbiamo abusato di assolutamente niente.»

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