Prologo

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A diciassette anni non si hanno particolari piani.
Si esce con gli amici indossando vestiti scollati per fare colpo su qualcuno anche se fuori ci sono due gradi e si muore di freddo; si beve di tutto, anche se fa schifo, solo per non rimanere esclusi dalla gente che sente l'esigenza di consumare il proprio fegato per divertirsi e si va a ballare con la testa leggera, senza pensieri.
L'ho visto nei film che fanno tutti così, a diciassette anni.
Io a diciassette anni correvo.
Correvo così veloce che il cuore a breve avrebbe smesso di battere.
Temevo di non riuscire ad andare avanti, ma dovevo correre.
Sentivo bruciare i fianchi ogni volta che i piedi toccavano l'asfalto bagnato.
Ho pregato che non ricominciasse a piovere: stava già piovendo dentro di me e correre diventava sempre più pesante.
Mi sono sentita senza emozioni, eppure stavo piangendo, ero terrorizzata e il dolore mi stava uccidendo.
Però era come se non riuscissi a pensare, come se corressi senza una meta, anche se la meta ce l'avevo.
Come se non stessi realizzando il motivo della mia sofferenza.
Così arrivai davanti quella struttura illuminata nella notte e corsi dentro con il respiro appesantito.
«Cerco George Davis» provai a scandire con il cuore in gola.
E la segretaria a cui mi rivolsi mi indicò il corridoio alle mie spalle.
Camminavo con un passo spedito e le ginocchia che chiedevano una tregua.
Quando vidi mia madre mi fermai.
Era seduta su una sedia verde fuori dalla porta della stanza, con le gambe che continuavano a tremare in modo nervoso e nell'intero corridoio si sentiva solo il ticchettio dei suoi talloni sul pavimento.
Aveva ancora indosso la tuta della mattina e non riuscivo a vederle il viso perché lo teneva coperto dalle mani rosse per il freddo, ma sapevo che stava piangendo a dirotto da ore.
Deglutii.
«Mamma» dissi, ancora con il fiato corto.
Alzò gli occhi senza dire una parola e distolse subito il suo sguardo dal mio.
Era terrorizzata.
Continuavo a sbattere le palpebre sperando che fosse un incubo ma più provavo a svegliarmi in un'altra dimensione, più sentivo male al petto.
«Sta arrivando un prete» disse una voce, che rimbombò con l'eco e continuò per minuti nella mia testa.
Mia madre si alzò e andò verso la porta, io la seguii.
Sono arrivata troppo tardi.
Come quando hai un esame, non sai niente e qualcuno decide di suggerirti proprio quando il tempo sta per scadere.
Il tempo era scaduto e io persi ogni speranza che giaceva dentro di me da mesi.
Lui stava lì nel solito letto bianco con il solito pigiama azzurro, pieno di macchinari che gli facevano compagnia da tempo.
Sempre pallido, pieno di occhiaie.
Sembrava uguale agli altri giorni.
Non era cambiato niente, se non il suo respiro fermo e il suo cuore che smise di battere.
Si spense davanti ai nostri occhi, spegnendo anche una grossissima parte di noi.
Tutto diventò insignificante.
Come ho detto: a diciassette anni non si hanno particolari piani.
Io correvo, nella speranza di arrivare in tempo per  trovare mio padre sorridente e pieno di vita.

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