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"Doveva andare così", pensò Shoyou alla guida della sua automobile sotto la pioggia torrenziale di febbraio, il cigolio dei tergicristalli e il gracchiare delle frequenze della radio locale a riempire il vuoto dell'abitacolo dalle tinte oscure come il suo umore e dai sedili in finta pelle nera. _Non sarebbe potuto essere altrimenti_ mugugnò stringendo il cambio con forza e focalizzandosi sulle vibrazione del motore sempre più frenetica e graffiante come il ruggito di un leone, man mano che il piede affondava sull'acceleratore. Ultimamente se lo diceva un po' troppo spesso, constatò sbattendo ritmicamente il polpastrello della mano sinistra sullo sterzo. Gettò uno sguardo fuori dall'abitacolo e oltre il fitto strato di gocce grigie scorse le sagome affilate di una serie di condomini alti ed affollati che tagliavano i nuvoloni gonfi ed arrabbiati come le katane di un samurai. Sbuffò. Non mancava molto al suo appartamento nella periferia di Tokyo, presto avrebbe dovuto rallentare, eppure l'idea di farlo lo intossicava come l'odore di sigaretta di cui erano impregnate le fibre del suo completo grigio e l'angusta stanza dalle pareti di un orribile verde petrolio stipata di fascicoli e scartoffie al quinto piano del Mitsuba building, il suo ufficio. Erano due anni che Shoyou aveva trovato lavoro nel consiglio di amministrazione in una importante casa automobilistica, tre da quando aveva conseguito con il massimo dei voti la laurea in economia all'università di Okinawa e ben sei da che non metteva piede in un campo da pallavolo, esattamente da quando aveva deciso di lasciare il Brasile. Sebbene quella nazione che lo aveva accolto calorosamente tra le sue braccia si fosse dimostrata la sua Waterloo, Shoyou era ormai consapevole che la sua decadenza come persona e come sportivo fosse iniziata appena dopo essersi diplomato alla Karasuno. Ricordava ancora perfettamente il caldo asfissiante di quella giornata, il sudore che gli appiccicava la divisa alla schiena, le ciocche lunghe e arancioni che gli cadevano sugli occhi ad ogni movimento e le mani strette attorno alla confezione cilindrica in finta pelle che conteneva il documento. Hinata non si era mai sentito tanto triste quanto euforico come in quell'occasione: il pensiero che quel pezzo di carta non più grande di un foglio d'album segnasse la fine di un'era gli attanagliava la bocca dello stomaco ma allo stesso tempo la curiosità di gettarsi nell'ignoto verso una nuova avventura per migliorare se stesso ed il suo gioco gli pizzicava le corde dell' anima in una melodia appassionata che sapeva di successo e di fortuna; erano le stesse note su cui aveva ballato durante il primo carnevale che aveva trascorso a Rio tra le piume dei costumi, gli odori penetranti dei cibi locali e delle fragranze dei fiori di cui le strade gremite di gente erano tappezzate, le stesse che accompagnavano le sue schiacciate che fendevano il vento ed i pericolosi salti sulla sabbia, oltre la rete. Shoyou si era immediatamente innamorato del Brasile e della sua atmosfera gioiosa, del calore del suo popolo, del suo modo di corteggiarlo e di porlo su un piedistallo, lo aveva fatto sentire veramente apprezzato, speciale e così, probabilmente aveva finito per montarsi un po' la testa e aveva osato sognare, come mai prima di allora, un successo ed una grandezza tutti suoi. Non che non se la meritasse un po' di considerazione del resto aveva faticato tanto per acquisire quelle abilità che gli permettevano di dominare la maggior parte delle partite, ma tutto quell'apprezzamento aveva avuto il potere di distoglierlo da quello che era il suo obiettivo principale e quando era arrivata la lettera di rifiuto da parte della federazione sportiva giapponese Shoyou se n'era finalmente reso conto. Avrebbe dovuto dare ascolto al suo coach, aveva pensato stringendo la lettera in pugno mentre grosse e calde lacrime scendevano copiose dal suo viso, se quella maledetta sera avesse lasciato correre gli insulti razzisti o quelli sulla sua incapacità di gestire la palla di quel vecchio tifoso incartapecorito e maleodorante, se non gli avesse tirato in cazzotto proprio in mezzo al suo brutto grugno perché nessuno, aveva pensato, poteva permettersi di screditare le sue abilità a quel punto, probabilmente ce l'avrebbe fatta. Ed invece ..."Ha preferito lasciar parlare le sue mani piuttosto che i suoi successi e noi non abbiamo bisogno di gente violenta" così recitavano le ultime tre righe della pomposa missiva che i burocrati della federazione gli avevano spedito. In quel piccolo monolocale la melodia allegra e coinvolgente che era sempre stata la colonna sonora delle sue giornate era mutata in un distorto requiem per i suoi sogni ed il suo entusiasmo. Quella notte Shoyou aveva pianto fino a crollare sfinito e nemmeno nell'incoscienza aveva trovato un attimo di pace. Aveva sognato, infatti di trovarsi in una stanza completamente nera e vuota tanto da non distinguerne nemmeno i contorni, in ginocchio con lo sguardo perso nell'oscurità del pavimento. Poi un'eco di passi cadenzati sempre più lontani aveva squarciato il silenzio con cattiveria e finalmente Hinata si era costretto a sollevare il capo verso la loro fonte. Un rantolo era l'unica cosa che era riuscito ad emettere dalle sue labbra quando aveva riconosciuto la sagoma di schiena verso di lui, la testa di capelli corvini lisci e setosi che non aveva mai avuto il coraggio di accarezzare e le spalle coperte dal velluto cremisi di un lungo mantello orlato di bianco. Aveva allungato il braccio verso la figura ma l'aveva avvertito estremamente pesante come di piombo, gli era sembrato di sfiorare con le dita la stoffa delicata mentre queste calavano rovinosamente sul pavimento, le gambe legate a catene spesse non gli consentivano il minimo movimento, non che ne avesse la forza sufficiente dato che tutta quella di cui sembrava disporre era impegnata a combattere la disperazione che, sotto le fattezze di mano ossuta e decrepita e sudata attorno alla sua gola, gli bloccava il respiro. Lo aveva visto andarsene con lentezza straziante un piede avanti all'altro mentre lui combatteva contro le urla sorde che gli squassavano il petto fino a che la sagoma ridotta ad un insignificante puntino non si era dissolta nel buio per mai più apparire. Hinata si era svegliato di soprassalto con il cuore che gli scalpitava impazzito sotto lo sterno , la gola arsa e bruciante e rivoli di sudore freddo lungo la schiena. Tremando, poi si era sistemato sotto le coperte strette fin quasi a non sentire più il suo corpo alla ricerca di quel calore che nemmeno la torrida aria di agosto riusciva a donargli. La fonte di quel gelo l'aveva afferrata immediatamente: non avrebbe mai più potuto segnare il parquet assieme a lui, non sarebbe riuscito più a ricevere le sue alzate supersoniche, non avrebbe mai raggiunto Kageyama e questo era e sarebbe sempre stato il suo più grande rimorso, la maledizione che lo avrebbe condannato ad una vita di solitudine e sensi di colpa. "Finché ci sono io tu sei imbattibile, per questo tornerò, Tobio" La promessa che si erano fatti prima di partire ancora gli riecheggiava dolorosamente vivida nella mente tanto quanto l'immagine di quegli occhi limpidi come il cielo e profondi come l'oceano che avevano sempre avuto il potere di leggerlo dentro con una maestria a tratti inquietante. Occhi che a volte aveva trovato arrabbiati e torbidi e tempestosi, altre luccicanti ed interessati altre ancora fermi e concentrati e che gli avevano permesso di apprezzare l'intera gamma delle sfumature dell'azzurro. Chissà di quale colore sarebbero stati se lo avessero osservato in quel momento che stanco e frustrato si apprestava a superare il suo condominio a tutta velocità verso una meta sconosciuta. Probabilmente, immaginò, sarebbero stati neri, densi e furiosi come il cielo in quel momento, risentiti per come stava raschiando il fondo, saltare più in altro degli altri,infatti, non era servito a toccare il cielo, ma anzi, come Icaro, si era avvicinato troppo al sole e questo aveva sciolto le sue ali di cera facendolo precipitare rovinosamente sulla terra nuda e cruda. O forse le sue iridi avrebbero assunto una tonalità grigia e opaca, indifferente e piatta, monotona come quella dei suoi colleghi per cui lui non era niente se non qualcuno a cui passare fogli di fogli di calcolo ed assegnare compiti. Hinata sospirò. Sebbene facesse estremamente male l'opzione che più gli sembrava realistica era la seconda perché il Tobio che aveva conosciuto, imparato ad apprezzare e a rispettare era determinato, a volte dispotico, ma pieno di un potenziale che lui si era lasciato prosciugare come una pozzanghera nel deserto, una persona che sapeva andare avanti solo con quanti reputava meritevoli della sua attenzione. Glielo aveva detto chiaro e tondo già la prima volta che si erano incontrati "ti alzerò la palla solo quando sarai veramente indispensabile per la vittoria della squadra" e proprio per questo Shoyou aveva scelto di far credere a tutti quelli che conosceva, ad eccezione dei suoi familiari, di aver deciso di rimanere in Brasile. Lui non era più indispensabile, anzi non lo era mai stato, del resto lo sapevano tutti alle superiori che le sue proverbiali schiacciate erano frutto del calcolo accurato di Kageyama e che con i fondamentali faceva seriamente pena. Tobio non aveva mai veramente avuto bisogno di lui, era sempre stato dannatamente perfetto ed elegante in tutto quello che faceva: dalla velocità con cui analizzava i suoi avversari elaborando in poco tempo la strategia migliore per portare la squadra alla vittoria, alla prontezza dei suoi riflessi e alla potenza degli attacchi. Lui invece,a confronto, era sempre risultato mediocre e, soprattutto un maledetto codardo: quante volte si era sentito male prima di una partita, quanti giorni aveva speso rinchiuso nella sua camera al buio crogiolandosi nella disperazione da quando era tornato a casa, quanti farmaci prendeva la sera in modo tale da addormentarsi prima di trovarsi a fare i conti con i suoi pensieri? Con quale ossessione continuava a guardarsi indietro ogni volta che usciva di casa per paura di incontrare un viso noto tra la folla? Non voleva essere riconosciuto, non voleva distruggere il ricordo di ciò che era stato prima che la depressione crescesse come muffa attaccata al suo animo, non voleva che lo guardassero con delusione nè con compatimento per il fantasma che era diventato. Hinata fermò la macchina accanto ad un parco giochi e con le mani tremanti estrasse una sigaretta stropicciata e piegata dalla giacca, se la portò alle labbra osservando frammenti di tabacco marrone cadere sui suoi pantaloni macchiati di inchiostro in alcuni punti, la accese e cominciò ad aspirare la sostanza come se la sua vita dipendesse da quello. E per certi versi era così, i numerosi attacchi di panico che si succedevano durante le settimane riusciva a gestirli solo quando un bel po' di nicotina gli circolava in corpo; durante il giorno ne fumava così tante che probabilmente adesso i suoi polmoni erano neri come la pece, rigonfi di catrame ed altre sostanze cancerogene che gli creavano affannavano in ogni cosa che faceva. Aveva gradualmente perso quella sua proverbiale resistenza, era diventato lento e pigro, secco ed incapace di saltare più in altro di un secchiello da mare. Non che la prestanza fisica gli servisse più a niente, ormai ciò che gli era indispensabile era il cervello, la logica dietro a numeri grandi e complessi, calcoli impossibili e subdole strategie di mercato che avevano il potere di assorbirlo completamente, di sfiancarlo finché non avesse raggiunto il conto sperato, finché il bilancio non fosse stato pareggiato e le spese riorganizzate come dovevano essere. Almeno tra la contabilità Hinata riusciva a trovare un senso ai risultati, c'erano le formule a dimostrare la validità di certe conclusioni belle o brutte che fossero e se commetteva qualche errore di compilazione era così semplice tornare indietro e correggere. Trovava quasi ridicolo come una virgola fuori posto o un segno meno confuso con un più fossero in grado di sconvolgere un'equazione intera, banalità in confronto all'intera mole di numeri ma allo stesso tempo triviali nel contesto specifico. Se questi potevano essere tranquillamente cancellati da un tratto di penna o di bianchetto o da una gomma, invece per gli errori della vita non esisteva uno strumento del genere, le scelte sbagliate erano irrimediabili ed i segni lasciati non sarebbero mai andati via. Shoyou sbuffò l'ultima nuvola di fumo prima di gettare il mozzicone nel posacenere poi scese dalla vettura e con passo spedito si inoltrò in un vicolo angusto che era il risultato dell'interazione dei muri di confine in cemento di due abitazioni basse e dai tetti di regole rosse. Non gli importava niente della condizione delle costose scarpe di pelle che emettevano un sonoro "cic-ciac" ad ogni contatto con l'asfalto bagnato e scivoloso, insozzandosi di acqua sporca, del nauseante odore della pioggia mischiato assieme al puzzo di pipì di cane, delle grosse gocce gelate che cadevano su di lui come una benedizione insinuandosi fin sotto i vestiti assorbite dalla sua pelle da cui era sparita ogni traccia delle assolate spiagge brasiliane; la cosa su cui Hinata era concentrato era raggiungere al più presto ciò che c'era oltre la fine del cunicolo, l'unico posto di quella metropoli che gli donava ancora un po' di tranquillità. Si trattava di una terrazza che sporgeva a precipizio su altre abitazioni di periferia che si inerpicavano su un pendio come licheni e muschi su una corteccia. Quando era bel tempo il sole la illuminava in toto e si schiantava tra i rampicanti che sporgevano dai muri o si avviluppavano attorno alla bassa ringhiera in vernice nera mozzicata dalla ruggine qua e là, proiettando ombre sinuose sul pavimento a mattonelle larghe intervallate da strisce di erba verde o spaccate nel mezzo dalla forza delle radici degli alberi che costeggiavano il confine. Ma quel giorno pioveva ed il protagonista in quel piccolo ritaglio di mondo era il vento. Incurante di essere ormai fradicio fino al midollo Shoyou raggiunse il corrimano, vi si appoggiò e chiuse gli occhi per alcuni momenti beandosi della sinfonia dal ritmo sincopato dell'aria e dell'acqua tra le foglie e sulle pietre, focalizzandosi sui brividi che la corrente gelida gli provocava accarezzandogli la nuca quasi con affetto. Sua sorella Natsu avrebbe amato quel posto pensò increspando le labbra in un leggero sorriso. Schiuse le palpebre sbattendo le sopracciglia bagnate e, come faceva ogni volta, ripercorse i dettagli del panorama difronte a lui in successione: in lontananza l'orizzonte plumbeo e minaccioso nascosto in parte dai grattacieli specchiati del centro città, il grande e snello edificio del centro commerciale, la sede bianca e dalla forma bizzarra della sua compagnia, lo scheletro metallico delle rotaie della metropolitana, i parchi verdi e rigogliosi quasi schiacciati in mezzo alla frenesia di luci e rumori e macchine moderne, l'ovale blu e argento dello stadio da pallavolo fino alle modeste abitazioni di cemento grigio e stucco sotto di lui. Hinata sbuffò, c'era qualcosa che non quadrava. Riesaminò ancora la scena finché la novità non gli fu evidente: c'era un cartellone pubblicitario alla sua destra non troppo distante con un'immagine che gli fece stringere il cuore nel petto: si trattava di una semplice locandina per pubblicizzare le Olimpiadi di quell'anno che si sarebbero tenute proprio in Giappone , i classici cinque anelli colorati intrecciati fra di loro ed uno slogan piuttosto sciocco sormontavano la fotografia di una serie di giovani in divisa rossa con appuntata sul petto la bandiera del paese ed un sorriso stampato sul volto. Shoyou riconobbe immediatamente il pallone a striature concentriche gialle e blu che tanto aveva amato nella sua giovinezza così come il giocatore alto e ben piazzato dai setosi capelli corvini al centro. Kageyama era sempre bellissimo; erano otto anni che non lo vedeva, ma la sorte con lui era stata generosa: la pelle diafana liscia e levigata, le spalle larghe, le braccia possenti, il ventre piatto e le gambe ben tornite. Il volto ancora giovanile e fresco senza nemmeno un alone di barba, le labbra sottili e rosee dischiuse in un familiare ghigno di soddisfazione e gli occhi di un uomo del colore del mare calmo che riflette su di sè la volta celeste e le sue stelle, la luna, la via lattea,l'universo tutto. C'era tanta calma nella sua espressione quanto era il caos che aveva preso a ribollire nella mente di Shoyou ed attraversava vene e capillari fino alla periferia del suo corpo. "C'è l'hai fatta!" Pensò mentre sorrideva come non faceva da molto tempo e la cassa toracica fremeva e rimbombava in un concerto di passione felicità ed amore. _Sei arrivato in cima!_ gridò nella solitudine della pioggia e del vento; in un istante i ricordi investirono Hinata come un treno e lui si lasciò traportate tra le immagini e le sensazioni di un'epoca d'oro: il calore, la soddisfazione, la gioia delle partite passate, l'adrenalina, il sudore, la voglia di abbracciare Tobio per avergli regalato l'alzata del punto finale, la complicità nella loro relazione, la volontà di correre, mettersi in gioco, di colpire la palla a tutti i costi. Improvvisamente percepì i piedi formicolargli e saltò con euforia come se non avesse mai smesso e gli sembrò perfino di toccare il cielo con un dito. Se lo avesse visto qualcuno avrebbe detto che fosse impazzito ed infatti aveva perso la testa, ma questo lo sapeva da molto prima, aveva perso la testa per Tobio nel momento in cui si erano sfidati per la prima volta in terza media, aveva perso la testa per quelle alzate pazzesche che sembravano fatte su misura per colpire la sua mano e quella di nessun altro, aveva perso la testa per il suo carattere in certi tratti spigoloso in altri troppo morbido, per la capacità di dominare i campo come un re, per quel modo complicato di ragionare e riflettere anche su questioni oggettivamente semplici, per l'abilità di viziarlo e di stuzzicarlo allo stesso tempo, di esaltarlo con un semplice movimento delle dita o un sussurro al momento giusto, per averlo apprezzato, per averlo criticato e soprattutto per essere arrivato là dove lui non aveva potuto, proprio come il piccolo gigante. Ed improvvisamente il mondo assunse nuovi colori e sfumature più complesse, linee arzigogolate come i festoni del carnevale di Rio, il requiem in sottofondo non c'era più ed il rumore dei clacson gli piacque veramente tanto. Shoyou afferrò il telefono con le mani tremanti e digitò il numero, voleva chiamarlo, voleva congratularsi con Tobio e festeggiare insieme come un tempo, ridere, prenderlo in giro per averci messo un po' ad avere successo ma prima che potesse premere il pulsante di inoltro di chiamata lasciò che il cellulare gli scivolasse di mano e si schiantasse al suolo. In una pozzanghera sotto ai suoi piedi il riflesso del suo viso da fantasma scavato e pieno di ombre lo guardava e lo giudicava. "Che cosa ti sei messo in testa?", gli domandava, "non puoi farlo", gli ordinava e gli bastò che un fulmine cadesse oltre il centro commerciale con un gran fragore perché l'illusione andasse in frantumi. Non era possibile tornare indietro, il tempo aveva cambiato un sacco di cose e ne aveva rotte altrettante, con quale pretesa poi lui, uno sconfitto, un rinunciatario avrebbe messo piede tra i vincitori e festeggiato Tobio ed il suo impegno, come poteva anche solo sperare che si ricordasse di lui o che, vedendo in quale condizione si era ridotto, potesse perdonarlo per aver disatteso le sue aspettative?Questo, in realtà, lo aveva fatto con tutti, si rimproverò, crollando in ginocchio, aveva buttato all'aria anni e anni di sforzi soltanto per avere la soddisfazione di tirare un pugno ad un idiota e quando aveva ricevuto la lettera della federazione il rifiuto lo aveva talmente spaventato da non aver nemmeno pensato di lottare per una seconda possibilità; aveva avuto paura di camminare per sempre accanto ad un'ombra, un passo o due indietro rispetto alla persona in sè, di vivere ossessionato da quel timore, di darsi da fare inutilmente per una carriera deludente, di rimanere insoddisfatto; ecco, quando aveva cominciato a farsi tutti quei problemi, quello era stato il momento in cui aveva perso definitivamente, quando aveva smesso di lottare, quando si era lasciato stroncare dall'ennesimo rifiuto, come se non ci fosse abituato da tutta una vita. Ma tale occasione era stata diversa, più intensa forse per il tono ufficiale o per gli altisonanti paroloni, era stato veramente male e non aveva avuto nessuno su cui appoggiarsi e l'unica alternativa che gli era sembrata plausibile era stata rinunciare. Ma a cosa era servito? A conti fatti non era sfuggito al rimorso nè si trovava al fianco della persona che amava, si sentiva inadeguato ed infelice e terribilmente inquieto. Aveva continuato a vivere in una bugia per così tanto tempo che era riuscito a convincersi che fosse reale, che la scelta della solitudine autoimposta fosse la pena giusta per aver deluso tutti quando, invece, la persona che veramente aveva tradito era se stesso. Si era chiuso in un castello silenzioso di vergogna e disperazione ed aveva buttato via la chiave per non essere raggiunto, per non essere salvato, se solo avesse parlato con qualcuno forse... ma adesso era troppo tardi. Shoyou si rimise in piedi e cominciò a singhiozzare, i palmi stretti attorno alla ringhiera di ferro e gli occhi arrossati fissi sulle iridi azzurre di Tobio. _Mi dispiace_ sussurrò con voce rotta. Un certo saggio di non cui ricordava il nome aveva detto "nessun uomo è un'isola", ma se lo avesse visto in quel momento si sarebbe ricreduto: Hinata era sempre stato l'eccezione a molte regole ma quella gli calzava meglio delle altre, lui era un'isola deserta, da sempre in balia di una terribile tempesta tropicale: prima gli occhi di Kageyama poi la solitudine e la delusione. Era un'isola piccola ed il mare era così infuriato che prima o poi le acque l'avrebbero sommersa. Anzi, in realtà, avevano già cominciato: la marea stava risalendo pian piano oltre la spiaggia inghiottendo ogni cosa sul suo cammino e lui era sempre più stanco di montare argini e dighe, scuse su scuse per un destino che aveva plasmato con le sue mani. Si chiese cosa stesse facendo Tobio in quel momento ed il suo pensiero volò verso il campo da pallavolo, starà giocando probabilmente, pensò sorridendo appena senza ironia solo per abitudine, perché tutte le volte che il suo ex compagno compariva nei suoi pensieri il suo cuore non faceva altro che cantare. Shoyou alzò la mano verso il cartellone pubblicitario tendendo il braccio nell'aria con tutte le sue forze. _Non ti raggiungerò mai eh?_ disse in una risata amara come il fiele. _Dunque è così che deve andare?_ chiese più a se stesso che alla sagoma del giovane abbassando il capo verso il fondo del precipizio. _Fai male, Tobio_ singhiozzò all'immagine con la corona di gemme ed il mantello di velluto rosso nei suoi pensieri _sei meraviglioso mi fai sentire whoos e bam e thump come il salto migliore della mia vita ma mi distruggi ed io non ce la faccio più a vivere nella tua ombra, desidero stare con te sul campo da pallavolo, toccarti, abbracciarti, parlarti, prenderti per mano baciarti...amarti ma tu continui a sfuggirmi o forse sono io che scappo_ ammise Shoyou disperato stringendo con forza le mani nelle ciocche arancioni spente e bagnate _scappo perché temo che se mi vedessi adesso mi odieresti ed io non lo potrei sopportare. _ Confessò con la speranza che se avesse riversato tutti i suoi peccati nell'aria il vento lo avrebbe assolto _Una volta Tsukishima disse che paragonato a me lui era la luna ed io il sole ma non è vero, il sole brilla di luce propria ed io invece ho sempre avuto bisogno di te per bruciare_ Hinata si strinse nelle spalle e si girò di schiena al paesaggio della città di Tokyo. _Ho continuato a lottare finché tu sei stato con me e dopo che le nostre strade si sono separate ho ceduto alla prima difficoltà, patetico giusto?_ disse il ragazzo focalizzandosi sulla macchia di muffa del muro dell'edificio difronte a lui, il respiro sempre più affannato ed un bruciore indicibile all'altezza della bocca dello stomaco._ Mi sei mancato come l'aria per respirare e tutt'ora, nonostante abbia provato ad arrabbiarmi, a darti la colpa dei miei fallimenti ad odiarti con tutto me stesso, a distanza di quasi nove anni non posso smettere di pensarti._ Quanto avrebbe voluto una sigaretta in quel momento ed invece infilando la mano nella tasca della giacca constatò con orrore che quella che aveva fumato prima era stata l'ultima del pacchetto. Era arrivato alla resa dei conti e nulla lo avrebbe potuto ostacolare. Sospirò _ Tobio tu a modo tuo hai sempre creduto in me ed io non ce l'ho fatta comunque, è stato il tuo unico errore di valutazione_ sentenziò ironico mentre rivoli di sudore gli attraversavano le guance e si confondevano con le tracce delle lacrime _ congratulazioni per il coronamento del tuo sogno e perdonami se non potrò starti accanto...non ne ho più la forza_ sussurrò. Mentre le sue ultime parole morivano sotto i fischi del vento e il ticchettio della pioggia Hinata chiuse gli occhi gustandosi ancora una volta il sapore dolce come il miele delle sillabe del nome di Kageyama sulle sue labbra poi si sedette sul corrimano di ferro e cominciò a dondolarsi avanti e indietro come un bambino sull'altalena. Si sentiva leggero in quel momento, quasi buffo, da quando aveva venduto la sua bicicletta non aveva avuto più modo di sentire la brezza tra i capelli ed il corpo che fendeva l'aria come burro. Ebbro di quella emozione così nostalgica accelerò il ritmo ed iniziò a dondolare le gambe. In lontananza il suono di alcune campane. Se avesse saputo che parlare gli avrebbe fatto così bene ci avrebbe pensato sicuramente prima. Ora che non aveva più quel peso sullo stomaco il vuoto che esso si era lasciato dietro lo faceva fluttuare. Shoyou scoppiò a ridere e si chiese cosa sarebbe successo se avesse aperto le mani, forse questa volta sarebbe veramente riuscito a volare. Ed ecco che il requiem arrivare alla sue ultime battute eppure lui non si era nemmeno accorto che quella melodia sinistra fosse ricominciata. Un improvviso luccichio sommesso attirò la sua attenzione così Hinata smise di muoversi, lanciò uno sguardo veloce sul display del cellulare ancora riverso sulle pietre accanto alla pozzanghera e constatò che non c'erano nè messaggi nè chiamate. Non se ne sorprese, non lo cercava più nessuno da molto tempo; sorrise ancora, che senso aveva avuto comprarsi un cellulare allora? Forse all'inizio aveva nutrito la speranza di ripopolare la sua rubrica di contatti, ma il tempo era passato ed essa era ancora vuota esattamente come lui. Hinata si sentì stanco di fare sempre gli stessi pensieri tristi e deprimenti, aveva resistito così tanto al dolore, si era punito più del necessario ed adesso che si era anche confessato voleva uscire una volta per tutte da quel limbo di sensi di colpa e solitudine. Desiderava finalmente un sonno tranquillo e profondo senza incubi nè sogni, un sonno vero e proprio così chiuse gli occhi, allentò la presa dal corrimano e dalle foglie di edera, cavalcò una corrente e si lasciò cadere all'indietro nel vuoto e nell'oblio cullato dal sibilo del vento e dalle gocce di pioggia.

Doveva andare così [Kagehina] ♠️Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora