XI: Di sera, guardando il fiume

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Man mano che la familiarità cresceva per la considerazione e la benevolenza che mi dimostrava il padron di casa, cresceva anche per me la difficoltà del trattare, il segreto impaccio che già avevo provato e che spesso ora diventava acuto come un rimorso, nel vedermi lì, intruso in quella famiglia, con un nome falso, coi lineamenti alterati, con una esistenza fittizia e quasi inconsistente. E mi proponevo di trarmi in disparte quanto più mi fosse possibile, ricordando di continuo a me stesso che non dovevo accostarmi troppo alla vita altrui, che dovevo sfuggire ogni intimità e contentarmi di vivere così fuor fuori.

— Libero! — dicevo ancora; ma già cominciavo a penetrare il senso e a misurare i confini di questa mia libertà.

Ecco: essa, per esempio, voleva dire starmene lì, di sera, affacciato a una finestra, a guardare il fiume che fluiva nero e silente tra gli argini nuovi e sotto i ponti che vi riflettevano i lumi dei loro fanali, tremolanti come serpentelli di fuoco; seguire con la fantasia il corso di quelle acque, dalla remota fonte apennina, via per tante campagne, ora attraverso la città, poi per la campagna di nuovo, fino alla foce; fingermi col pensiero il mare tenebroso e palpitante in cui quelle acque, dopo tanta corsa, andavano a perdersi, e aprire di tratto in tratto la bocca a uno sbadiglio.

— Libertà... libertà... — mormoravo. — Ma pure, non sarebbe lo stesso anche altrove?

Vedevo qualche sera nel terrazzino lì accanto la mammina di casa in veste da camera, intenta a innaffiare i vasi di fiori. «Ecco la vita!» pensavo. E seguivo con gli occhi la dolce fanciulla in quella sua cura gentile, aspettando di punto in punto che ella levasse lo sguardo verso la mia finestra. Ma invano. Sapeva che stavo lì; ma, quand'era sola, fingeva di non accorgersene. Perché? effetto di timidezza soltanto, quel ritegno, o forse me ne voleva ancora, in segreto, la cara mammina, della poca considerazione ch'io crudelmente mi ostinavo a dimostrarle?

Ecco, ella ora, posato l'annaffiatojo, si appoggiava al parapetto del terrazzino e si metteva a guardare il fiume anche lei, forse per darmi a vedere che non si curava né punto né poco di me, poiché aveva per proprio conto pensieri ben gravi da meditare, in quell'atteggiamento, e bisogno di solitudine.

Sorridevo tra me, così pensando; ma poi, vedendola andar via dal terrazzino, riflettevo che quel mio giudizio poteva anche essere errato, frutto del dispetto istintivo che ciascuno prova nel vedersi non curato; e: «Perché, del resto,» mi domandavo, «dovrebbe ella curarsi di me, rivolgermi, senza bisogno, la parola? Io qui rappresento la disgrazia della sua vita, la follia di suo padre; rappresento forse un'umiliazione per lei. Forse ella rimpiange ancora il tempo che suo padre era in servizio e non aveva bisogno d'affittar camere e d'avere estranei per casa. E poi un estraneo come me! Io le faccio forse paura, povera bambina, con quest'occhio e con questi occhiali...».

Il rumore di qualche vettura sul prossimo ponte di legno mi scoteva da quelle riflessioni; sbuffavo, mi ritraevo dalla finestra; guardavo il letto, guardavo i libri, restavo un po' perplesso tra questi e quello, scrollavo infine le spalle, davo di piglio al cappellaccio e uscivo, sperando di liberarmi, fuori, da quella noja smaniosa. 

Andavo, secondo l'ispirazione del momento, o nelle viepiù popolate o in luoghi solitarii. Ricordo, una notte, in piazza San Pietro, l'impressione di sogno, d'un sogno quasi lontano, ch'io m'ebbi da quel mondo secolare, racchiuso lì, tra le braccia del portico maestoso, nel silenzio che pareva accresciuto dal continuo fragore delle due fontane. M'accostai a una di esse, e allora quell'acqua soltanto mi sembrò viva, lì, e tutto il resto quasi spettrale e profondamente malinconico nella silenziosa, immota solennità.

Ritornando per via Borgo Nuovo, m'imbattei a un certo punto in un ubriaco, il quale, passandomi accanto e vedendomi cogitabondo, si chinò, sporse un po' il capo, a guardarmi in volto da sotto in sù, e mi disse, scotendomi leggermente il braccio: 

Il fu Mattia PascalDove le storie prendono vita. Scoprilo ora