L'importanza di essere uomini, prima che soldati.

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Mai avevo visto uno spettacolo eguale. Ora erano là, gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli, come i passanti su un marciapiede di città. Ne provai una sensazione strana. Stringevo il braccio del caporale che avevo alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, la mia meraviglia. Ci erano tanto vicini che noi li potevamo contare uno per uno. Nella trincea, fra due traversoni, v'era un piccolo spazio tondo, dove qualcuno di tanto in tanto, si fermava. Si capiva che parlavano, ma la voce non arrivava fino a noi. Quello spazio doveva trovarsi di fronte a un ricovero più grande degli altri perché v'era attorno maggior movimento. Il movimento cessò all'arrivo d'un ufficiale. Dal modo in cui era vestito si capiva ch'era un ufficiale.
Aveva scarpe e gambali di cuoio giallo, e l'uniforme appariva nuovissima. Probabilmente era un ufficiale arrivato in quei giorni, forse, appena uscito dalla scuola militare. Era giovanissimo, e il biondo dei capelli lo ringiovaniva ancora di più. Sembrava avere meno di diciott'anni. Al suo arrivo i soldati se ne andarono, e rimase da solo in quello spazio tondo. La distribuzione del caffè doveva iniziare in quel momento, ma io non vedevo che l'ufficiale.
Io facevo la guerra fin dall'inizio, e facendo la guerra da così tanti anni avevo acquistato abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall'altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero senza una volontà precisa, ma così, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandonò, ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra come altre notti, stesi dietro in cespuglio, avrei tirato immediatamente. Ma ero in ginocchio, in una buca scavata, ed il cespuglio mi era di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono di tiro, e mi potevo prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra e cominciai a puntare.
L'ufficiale austriaco accese una sigaretta, ora mai egli fumava.
Quella sigaretta creò un legame improvviso tra me e quell'ufficiale. Appena ne vidi il fumo, anch'io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch'io avevo delle sigarette. Il mio atto del puntare, ch'era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L'indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare.
Avevo già preso parte a tanti combattimenti. Che io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo che i miei soldati fossero attenti nel loro turno di vedetta e che tirassero bene, se il nemico li scopriva. Perché non avrei, ora, tirato io su quell'ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la guerra e a farla fare agli altri. No, non v'era dubbio, io avevo il dovere di tirare. E intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma, non ero affatto nervoso. La sera precedente, prima di uscire dalla trincea, avevo dormito quattro o cinque ore, mi sentivo benissimo.
Forse, era quella calma completa, che allontanava il mio spirito dalla guerra.
Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non potevo sbagliare, avrei potuto tirare mille colpi da quella distanza, senza mancarne neanche uno. Bastava premete il grilletto, ed egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà mi rese esitante.
Avevo di fronte un uomo. Un uomo!
Un uomo!
Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell'alba si faceva più chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare così, a pochi passi, su un uomo... come su un cinghiale!
Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all'assalto cento, mille o più uomini era un'altra cosa. Prendere un uomo, farlo allontanare dal branco e dire «ecco, tu fermo qua, ti sparo e t'uccido.» è un'altra cosa. È assolutamente un'altra cosa. Fare la guerra è una cosa uccidete un uomo è un'altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo.
Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me si erano formate due coscienze, una ostile, e l'altra che diceva «no, non sarai tu ad uccidere un uomo così».
Io stesso, che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di fare l'esame di quel processo psicologico. V'è un salvo che io, oggi, non vedo più chiaramente, E mi chiedo ancora come, arrivato a questa conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco, gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra:
— “sai... così... un uomo solo... io non sparo, tu, vuoi?”
Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose:
— “neppure io.”
Rientrammo, carponi, in trincea. Il caffè era già distribuito e lo prendemmo anche noi.
La sera, dopo l'imbrunire, il battaglione di rincalzo ci dette il cambio.

THE END.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Nov 23, 2020 ⏰

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𝐀𝐕𝐄𝐕𝐎 𝐃𝐈 𝐅𝐑𝐎𝐍𝐓𝐄 𝐔𝐍 𝐔𝐎𝐌𝐎! [𝚘𝚗𝚎 𝚜𝚑𝚘𝚝]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora