SINNER 1' Capitolo "La seduzione del peccato"

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Udivo il suono delle campane, che si perdeva nella debole luce del tardo pomeriggio. Fin da piccolo lo avevo amato, per anni mi aveva dato soltanto gioia e serenità, ma adesso era cambiato qualcosa. Non sapevo neppure come fosse accaduto, ma un tarlo invisibile aveva continuato a divorare la mia anima, giorno dopo giorno, negli ultimi sette anni.

Avevo sempre cercato di ignorarlo, ma non se ne era mai andato.

Quel tarlo era rimasto dentro di me, fin da quando a diciotto anni ero entrato in seminario, trasferendomi a Detroit, per sfuggire a quello che ero. Dopo i miei studi di Teologia, dopo essere stato ordinato sacerdote, ero tornato a Berkley, dove ero nato.

Avevo sempre visto la Chiesa come un rifugio, l'unico modo per espiare le mie colpe, ma non era mai stato così, anzi il mio senso di colpa era diventato insormontabile.

Essere un giovane prete di venticinque anni significava soffrire, dal levarsi del sole fino al tramonto, perché il mondo mi metteva davanti tentazioni alle quali non avrei mai potuto cedere, peccati che non avrei mai dovuto neppure sfiorare con il pensiero.

Avevo dei doveri, ero un ministro di Dio.

Ma non un santo. Sapevo che non sarei mai stato un santo.

Ero un peccatore.

Quello che il mio corpo bramava ogni giorno, andava contro quello che mi avevano insegnato in seminario. Ci avevano avvertiti: il Maligno avrebbe cercato fino alla nostra morte di toglierci a Dio, di trascinarci nel suo trogolo di peccati.

All'inizio, ignoravo quanto fosse difficile essere un prete, ma lo avevo capito con l'andare del tempo. Perché Lucifero non aveva sprecato un solo giorno, mi aveva tormentato ininterrottamente, fino a farmi diffidare di quello che ero.

Fino a farmi dubitare a volte, perfino dell'esistenza di Dio.

In sette anni non c'era stato giorno in cui non avessi sofferto, e adesso mi ritrovavo sempre più spesso a chiedermi se non fosse stato uno sbaglio, se non fosse in arrivo una prova ancora più dolorosa, che mi avrebbe fatto cedere del tutto.

Le campane continuarono a suonare, mentre rimanevo inginocchiato davanti all'altare, pregando il Signore di darmi la forza. A breve avrei dovuto aprire le porte della cappella, per confessare i fedeli della chiesa di St. John, la parrocchia cattolica che avevo frequentato da ragazzo.

Padre Martin Diggory avrebbe detto Messa tra un paio d'ore, con me accanto: quando ero tornato, una settimana prima, mi aveva affidato quel compito importante e mi sentivo onorato.

La domenica successiva avrei dovuto celebrare io la Santa Messa, per la prima volta, nella mia città natale. Ero in ansia, non avevo ancora scelto il brano che avrei dovuto commentare durante l'omelia, sul pulpito e davanti a tutte quelle persone.

Il ragazzino debole che ero stato non era mai svanito, era rimasto dentro di me, lasciandomi dubbi di cui mi ero sempre vergognato.

Avevo scelto la castità, la povertà e l'umiltà: tre macigni che mi pesavano addosso, provocandomi più dolore che quiete.

Vestivo in modo abbastanza comodo, a Detroit quasi tutti i sacerdoti più giovani erano come me; portavo i jeans, così scuri che potevano essere scambiati per pantaloni. Ma il collare bianco sulla camicia nera era evidente: mi ricordava che in teoria avrei dovuto essere morto dal collo in giù, vivere in modo razionale, dimenticare i miei impulsi.

Però non era così facile.

Un collare da prete non mi rendeva meno uomo.

Feci il segno della croce, e mi alzai dai gradini su cui ero rimasto inginocchiato per gli ultimi venti minuti, pregando Dio di darmi ancora una volta la forza e la comprensione di capire i peccatori che si sarebbero confessati, e di consigliarli adeguatamente.

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