Non sono uno scrittore di mestiere. Non mi adornano contratti, né editori, né stanze colme di trofei. Scrivo perché non posso sottrarmi al destino. Scrivo perché le storie mi inseguono come spettri famelici, mi ghermiscono le caviglie, mi tormentano nel buio con voci che non appartengono a questo mondo.

E questa storia... questa storia è nata da un amore antico, corrotto, viscerale. Un amore intriso di sangue e di viscere, un amore che odora di paura. Si chiama Resident Evil. E se chiudo gli occhi, odo ancora l'eco dei passi nel corridoio deserto, il respiro spezzato, il sinistro cigolio di una porta che non dovrebbe aprirsi dopo lo scatto della serratura il cui rumore ricorda quello di un sigillo spezzato. Capitoli II e III , i veri, gli autentici ,quelli originali della fine degli anni 90, mi hanno insegnato che l'orrore non dimora nei mostri, ma nelle scelte. Nella solitudine. Nella città che agonizza e muore.

Negli anni recenti, quella scintilla si è affievolita. Le nuove incarnazioni brillano, sì, ma di una luce estranea. Troppo nitida, troppo pura. Io, invece, anelo le ombre. Gli angoli oscuri. La tensione che stringe il cuore come un artiglio e ti costringe a domandare se il prossimo passo sarà l'ultimo.

Così ho scritto. Non per vendere. Non per compiacere. Ma per esorcizzare. Per dare voce a quella parte di me che non ha mai abbandonato Raccoon City. Ho evocato i personaggi che amo e li ho imprigionati in una mia visione. Una visione dove l'orrore è tangibile, la morte è sordida, e le donne non sono soltanto belle: sono forti, ferite, implacabili. Come la verità esige.

Questa è la mia Raccoon City. Quella che non ho mai smesso di inseguire. Quella che mi attende nei sogni febbrili. Quella che mi perseguita negli incubi. Quella che chiamo, con voce tremante e devota... Casa.