Quando leggevo libri ero insoddisfatto perché pensavo che scriverli sarebbe stato molto più appagante. Così mi sono messo a inventare storie e, una parola dopo l'altra, sono saltati fuori due o tre romanzi. Eppure anche allora non ero contento. Ho ricominciato a leggere, e tanto, e mi ha appassionato, ma non abbastanza perché, essendomi trovato dall'altra parte, più di qualcosa non mi esaltava, o mi esaltava troppo, facendomi sentire frustrato per non essere stato capace di scrivere anch'io roba che lasciasse il segno.
Poi ho smesso di leggere e di scrivere, ho appeso carta, penna e tastiera al chiodo, e ho smesso anche di pensare che mi sarebbe piaciuto lavorare in una libreria: questo pensiero mi ha colto osservando per bene chi ci lavora.
Ed è stato allora che ho capito, che ho capito quante ore della mia vita ho perso dietro alle parole, qui, in biblioteca, in poltrona, sul treno, al mare, in infinite notti insonni.
Mi si è aperto un mondo nuovo quando un pensiero mi ha chiarito la causa della mia perenne e imperitura insoddisfazione: i libri sono come l'amore. Così come siamo attratti e accecati dall'idea dell'amore, dal volerci innamorare, più che dall'amore stesso altrettanto vale per i libri, almeno per me. Forse amo più l'idea dei libri, di scrivere e di quell'alone magico e attraente che avvolge tutto, che non i libri veri e propri.