MANIFESTO DELL’OVERTHINKING NARRATIVO
(ovvero: perché certe storie non mi lasciano in pace)
Non sono un overthinker nel senso classico.
Non rimugino su ciò che ho detto o fatto.
La mia mente non costruisce trappole: costruisce storie che mi intrappolano.
È qualcosa che chiamo overthinking narrativo.
Non nasce dal bisogno di controllare, ma da quello di esprimere.
Non analizzo compulsivamente il mondo: lo interiorizzo. E poi, quasi da solo, prende forma.
Racconto per restare integro. O per cercare di raccogliere i pezzi in cui mi sono già spaccato.
A volte, mentre guido, cammino o ascolto musica, succede qualcosa:
una scena, una frase, un gesto mi appare chiaro come un sogno. E vado subito alla deriva come un marinaio smarrito.
Non sono io a cercarlo. È lui che arriva.
E se non scrivo subito, sento che lo perdo.
Non scrivo per raccontare la mia vita.
Ma ogni storia parla di me.
Non sono i miei personaggi, ma li sento.
Mi affeziono soprattutto a quelli più lontani da me. Non voglio leggere e vedermi allo specchio. Voglio vedere sotto. Cerco profondità.
Quasi sempre scrivo da emozioni “negative”: tristezza, perdita, malinconia.
Non per giudicarle. Ma per dare forma a ciò che resta.
Scrivere è somatizzare.
Non so esprimere tutto ciò che provo. Nemmeno la felicità.
A volte mi commuove e mi rattrista insieme. E allora scrivo.
Correggo sempre. Non per perfezione. Ma per verità.
Scrivere è vivere due volte: nella realtà, e nella forma che le do.
Questo è il mio overthinking narrativo.
La mia struttura profonda del sentire.
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