Conosceva male il mondo. Soltanto dei fantasmi potevano nascere dalle sue dita. Quello era forse il suo limite. Tecniche millenarie che non servivano a niente, rimandavano soltanto a sé stesse. Dita magiche. Tra l'abilità di un orafo romano, la scienza d'un pittore del Rinascimento, il tocco del pennello d'un impressionista, e la capacità pazientemente acquisita di sapere quali materiali utilizzare, quale preparazione effettuare, quale scioltezza acquisire, il rapporto era soltanto tecnico. Le sue dita lo sapevano. Il suo sguardo coglieva l'opera, ne determinava il movimento essenziale, ne dissezionava ogni minimo elemento, lo traduceva, per lui, nel linguaggio assimilato d'un collante più o meno fluido, d'un vettore, d'un supporto da scegliere.
Funzionava come una macchina ben oliata. Sapeva cambiare. Sapeva comporre un impasto. Aveva letto da Vinci e Vasari, e Ziloty, e il Libro dell'Arte; conosceva le leggi del Numero Aureo; sapeva che cosa significava - e come si raggiungeva - l'equilibrio, la coerenza interna d'un quadro. Sapeva quali pennelli utilizzare, quali oli, quali colori. Conosceva tutti gli strati, i supporti, gli additivi, gli smalti. E poi? Era un bravo artigiano. Da tre quadri di Vermeer, Van Meegeren ne creava un quarto. Dossena faceva lo stesso con le sculture; come anche Joni Icilio e Jérôme. Ma non era quello che lui aveva cercato […]