Labirinti di specchi. Difettosi.
Non ricordava che ritagli sdruciti, le immagini sfocate e distorte di lineamenti troppo puri.
Troppo innocenti – curva di labbra che ancora non erano morte.
Che ancora avevano il colore delle rose.
Ricordava il suono di una voce maschile quando cambia, i piccoli acuti stridenti.
Sentire una laringe che si sposta.
E un poco vergognarsene, delle cose di cui si vergognano i ragazzini. Scarpe vecchie.
Un corpo già troppo alto.
Era stato annacquarsi di dolcezza dall’esterno – lasciarsi bere dalla musica. Imparare a distinguere i concetti di armonia e melodia. Imparare cosa significa toccare un tasto nero piuttosto che uno bianco. Imparare cosa significano ore di purissima dedizione – giornate intere a muovere le dita in sincronia e in disaccordo, sfumandosi la mente di contorni nebbiosi. Quel mondo che finiva.
Le cose della realtà che collassavano sul profilo del pianoforte, e non esisteva altro.
Ci si era seduto per la prima volta quando era troppo piccolo. Sua madre l’aveva preso sotto le braccia e l’aveva fatto sedere sullo sgabello, ma non ci arrivava lo stesso. Non bene. Non come lei.
E l’universo si era ridotto alle mani di lei confuse sull’ebano e l’avorio – i giochi di luce della pietra dell’anello, a catturare riflessi. Su cui sembravano cucirsi le note. Ne ricordava il sapore, Victor.
Quasi sulla lingua. Come se i sensi si fossero compenetrati, e non potesse esserci confine. Una sinestesia d'estasi.
Fosse impossibile trovare il punto in cui c’era il suono e quello in cui c’era la luce nera dell’onice incastrato nell’argento. A scivolare sulla pelle, fino alla gola. Al cuore.
Infiltrandosi tra le fibre, e costruendo – sostituendone un pezzetto.
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