Dimmi qualcosa che non so
C’è una solitudine che si annida tra le parole di questo racconto, sottile come un filo di seta e pesante come un mattone sul petto. Inizia con un telefono che squilla, un’interruzione banale, quasi insignificante, eppure capace di spezzare un equilibrio fragile. Da quel momento, ogni frase è un passo lungo un corridoio fatto di specchi, dove ogni riflesso racconta una versione leggermente distorta della stessa donna.
Il compleanno di Dean non è solo una festa, è una messinscena. È un palco dove ogni sorriso è una battuta, ogni sguardo un riflettore puntato sulle imperfezioni. La protagonista lo sa bene mentre si trucca davanti allo specchio, mentre stringe il vestito che le scivola addosso come una seconda pelle, soffocante e necessaria. C’è una guerra silenziosa nei suoi gesti: ogni pennellata di fondotinta è un tentativo di nascondere la stanchezza, ogni centimetro di tessuto tirato a posto è una preghiera silenziosa di essere all’altezza di qualcosa che nemmeno lei riesce a definire.
Il vero dolore di questa storia non è nei dialoghi né nei gesti visibili. È nelle pause, negli spazi bianchi tra una parola e l’altra, nei pensieri che si arrampicano sugli specchi senza mai trovare una via d’uscita. È nella consapevolezza che, nonostante tutto, uscirà da quella porta, sorriderà, brinderà e dirà le cose giuste al momento giusto. E poi tornerà a casa, si toglierà quel vestito, laverà via il trucco e resterà sola, con il peso di ogni parola non detta.
Ma c’è anche una bellezza struggente in questo racconto. È nella vulnerabilità della protagonista, nel modo in cui si guarda allo specchio e, per un solo istante, si riconosce. È in quella frazione di secondo in cui tutte le maschere cadono e resta solo lei: imperfetta, stanca, ma incredibilmente umana.
Questa non è solo una storia di un evento mondano. È il ritratto di un’anima che lotta ogni giorno con l’idea di sé stessa.