Quella mattina, freddina per fine settembre tra felpa e gocciolina al naso, guardi nel vuoto al centro dei due sedili dietro dell'auto. Alla mia sinistra il mio miglior amico Yanez mentre alla destra sua madre e davanti i suoi nonni.
Mi ero incantato a pensare, ero a nuotare letteralmente nella mia mente e in tutte quelle ondate di teorie, domande e possibili previsioni sul mio futuro.
Nel fiore dei miei diciassette anni, tra poco avrei compiuto i famosi diciotto che tanto da ragazzino bramavo.
E per cosa?
Letteralmente stentare fino ad affogare nella domanda "Che ne sarà di me?"...?
È davvero così opprimente essere costretti a dare il nostro contributo alla società?
È come se fossi in fila per un esecuzione, contro un muro, non puoi correre via nel mio caso ma altri invece hanno le scorciatoie. Di esempi potrei farne una trilogia intera.
L'unica cosa che mi sento e che spero accada è che mi prendi di striscio.
Non ne voglio essere travolto, non ne voglio rimanere intrappolato e non ne voglio morire.
Non tutti sanno, ma arrivando a piccoli passi verso questo fosso si scende, poi tocca a chi di turno essere capaci di costruirci una casa sull'albero.
Sacrificio, tanto di questa unica parola dovrà essere compreso fino al suo massimo carpirne il suo massimo significato.
Io ne ho già assaggiato l'amarezza, ma si deve continuare, magari zoppicando, sempre e soltanto avanti.